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impronta ecologica una nuova lettura dell'imptto sull'ambiente
- Subject: impronta ecologica una nuova lettura dell'imptto sull'ambiente
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 7 Jan 2005 07:07:42 +0100
L'impronta ecologica come ridurre l'impatto dell'uomo sulla terra Mathis Wackernagel, William E. Rees a cura di Gianfranco Bologna, Paolo Lombardi L'impronta ecologica: un indicatore per la sostenibilità L'Impronta Ecologica è uscito per la prima volta in Canada nel 1996 e nello stesso anno è stata pubblicata l'edizione italiana. Il volume viene qui ripubblicato nella versione originale. Per fornire dati aggiornati e importanti novità metodologiche, a premessa del volume è riportato uno stralcio da Living Planet Report 2004 (WWF International). Lo stralcio riprende i dati relativi all'Impronta Ecologica di 148 nazioni. L'Impronta Ecologica è diventato ormai un classico e la teoria proposta nel 1996 da Wackernagel e Rees ha avuto una concreta e diffusa applicazione. Ma la vera specificità è la proposta metodologica: rileggere il bilancio ecologico (locale, regionale, globale) ribaltando l'approccio tradizionale alla sostenibilità. Non più calcolare quanto "carico umano" può sorreggere un habitat definito, bensì quanto territorio (terra e acqua) è necessario per un definito carico umano, cioè per reggere l'"impronta ecologica" che una determinata popolazione imprime sulla biosfera. Perché capire quanto si pesa sulla bilancia del consorzio umano e naturale è il primo passo per capire che scelte politiche e umane fare. Mathis Wackernagel è Executive Director del Global Footprint Network, l' organizzazione che coordina la ricerca e definisce gli standard metodologici dell'Impronta Ecologica in tutto il mondo. è stato a lungo direttore del Programma di sostenibilità di Redefining Progress (Oakland, CA). William E. Rees è docente e direttore della School of Community and Regional Planning della University of British Columbia (CA). Collabora al Global Integrity Project della University of British Columbia, a Vancouver (Canada). Impronta ecologica: un indicatore per la sostenibilità Quando, nel 1996, seppi della pubblicazione di questo affascinante testo sul concetto e sul metodo dell'impronta ecologica, mi diedi subito da fare per realizzarne un'edizione italiana. Da allora l'Impronta Ecologica e la sua applicazione, come indicatore integrato di sostenibilità, hanno avuto uno sviluppo straordinario e un'amplissima diffusione in tutto il mondo. Inoltre questo libro di Mathis Wackernagel e William Rees è anche un testo estremamente interessante per le riflessioni sul concetto di sostenibilità, attorno al quale ruota la possibilità di realizzare una nuova economia che ci consenta di risolvere i gravi problemi che noi stessi abbiamo creato, e già soltanto per questo andrebbe caldamente raccomandato a chiunque abbia a cuore il proprio futuro e quello delle future generazioni. Oggi il dibattito più avanzato in merito, cui ha contribuito anche il dibattito sull'Impronta Ecologica, sta facendo maturare una "Sustainability Science", una scienza della sostenibilità. Non si tratta di un'autonoma disciplina scientifica con chiare componenti concettuali e teoriche, ma di una vera e propria convergenza transdisciplinare di riflessioni e ricerche derivanti da discipline diverse che cercano di analizzare le interazioni dinamiche esistenti tra i sistemi naturali e quelli sociali e di esplorare i modi migliori per gestirle (si veda Bologna, 2004, ICSU, 2002 e Aa.Vv., 2003). Da tempo uno degli scopi principali dell'ecologia è quello di analizzare il flusso di energia e di materia attraverso gli organismi e il loro ambiente, tema che ha visto nei fratelli Eugene e Howard Odum (purtroppo entrambi scomparsi nel 2002) due grandi maestri. Questo ambito di ricerche si è ormai esteso al flusso di energia e di materia che attraversa i sistemi artificiali creati dalla nostra specie e cioè i sistemi tecnologici, industriali, economici ecc. Infatti il focus dello sviluppo sostenibile viene sempre più concentrato sull'intero "metabolismo" dei sistemi sociali rispetto a quelli naturali. Per intervenire efficacemente nel modificare gli attuali modelli di sviluppo e i conseguenti pattern di produzione e consumo, rendendoli più sostenibili, è quindi necessario comprendere a fondo la dimensione biofisica dei nostri sistemi socio-economici. Oggetto di grande interesse è perciò il flusso di materia ed energia che preleviamo dai sistemi naturali, trasformiamo e utilizziamo e dal quale produciamo scarti e rifiuti (molti dei quali non "metabolizzabili" dai sistemi naturali). Una grande quantità di ricerche sono state così stimolate nell'ambito di quel campo di indagine che è stato definito "metabolismo industriale" oppure, in maniera più ampia, "metabolismo della società". Se consideriamo a livello globale i flussi di materiali causati dalle società umane, essi si presentano di dimensioni paragonabili o persino superiori a quelli che hanno luogo nei sistemi naturali. Conseguentemente i flussi provocati dalla specie umana comportano modificazioni importanti nella stessa composizione fisica della superficie terrestre, nella struttura e nelle funzioni degli ecosistemi, dei cicli biogeochimici e, persino, della composizione dell'atmosfera (come sta avvenendo per la quantità di carbonio in essa presente). Non vi è più dubbio che, per avviare percorsi di sostenibilità dello sviluppo, sia perciò necessario ridurre i flussi di materia ed energia indotti dalla produzione e dal consumo delle società umane. In campo internazionale si sta consolidando una metodologia di calcolo di quello che viene definito MFA (Material Flow Accounting), cioè la contabilità dei flussi materiali, nonché di quello che viene definito EFA (Energy Flow Accounting), ovvero la contabilità dei flussi energetici, con un ragionevole livello di standardizzazione condiviso . Queste analisi dei flussi vengono oggi indicate con il termine complessivo di MEFA (Material and Energy Flows Analysis). I MEFA possono costituire un "ponte" importante che collega le attività umane agli impatti sull'ambiente e sono stati appunto sviluppati come strumenti per descrivere e monitorare in maniera sistematica il metabolismo delle nostre società industriali. Per questo la conoscenza delle quantità dei materiali e dei flussi di energia che sono elementi fondamentali dell'economia di ogni paese rappresenta una base fondamentale per ogni politica di sostenibilità. La misura complessiva di questi flussi fornisce informazioni su quanto il paese considerato contribuisce ai cambiamenti globali dei sistemi naturali e sull'evoluzione di tale contributo nel tempo. I rinnovati slanci delle ricerche sui flussi energetici negli ecosistemi registrano anche, dalla seconda metà degli anni Novanta, una notevolissima mole di iniziative scientifiche internazionali coordinata da studiosi italiani: si tratta dei Workshop internazionali intitolati "Advances Studies in Energy", coordinati da Sergio Ulgiati dell'Università di Siena. Sono già state già realizzate quattro edizioni di questi incontri, con la partecipazione dei più grandi esperti internazionali legati al campo energetico . Inoltre stanno ulteriormente avanzando le ricerche che valutano la cosiddetta "Human Appropriation of Net Primary Production (HANPP)", cioè la sottrazione da parte delle attività umane della produttività primaria netta, di quanto, cioè, sottraiamo all'energia che giunge sul nostro pianeta e che, trasformata in materia organica dai processi di chemiosintesi (e, soprattutto, di fotosintesi) dovrebbe restare a disposizione di tutti gli esseri viventi sulla Terra. Si tratta di un ulteriore indicatore che, dagli studi sin qui realizzati, ci sta dimostrando significative preoccupazioni per il sempre crescente ruolo dell'intervento umano nei sistemi naturali . In questo affascinante quadro di ricerche e di proposte operative il concetto e il metodo dell'Impronta Ecologica, con la sua forte valenza educativa e di comunicazione, ha dato vita un ampio dibattito internazionale che tocca tutti gli aspetti relativi alla concezione di "sviluppo sostenibile" (terminologia ormai così abusata e svuotata di significati pregnanti nella politica e nell'economia e che invece sta facendo grandi passi in avanti nel campo scientifico, proprio con la Sustainability Science) e a che cosa si debba intendere per indicatore di sostenibilità. Mi è sembrato perciò logico, d'accordo con l'editore di render conto al lettore, in maniera molto riassuntiva, di ciò che è avvenuto relativamente agli sviluppi e alla diffusione del metodo dell'Impronta Ecologica in questi anni trascorsi dalla pubblicazione del testo originale. L'Impronta Ecologica &endash; come ha ribadito l'originatore del concetto, l'ecologo William Rees (2000) &endash; può essere definita come l'area totale degli ecosistemi terrestri e acquatici richiesta per produrre le risorse che la popolazione umana consuma e assimilare i rifiuti che la popolazione stessa produce. Oggi il metodo, oltre alla diffusione di carattere educativo e maieutico, ha avuto anche importanti conferme scientifiche, Il Living Planet Report è stata la prima pubblicazione in cui sono stati presentati il calcolo delle impronte ecologiche di tutti i paesi del mondo e l'analisi dell'evoluzione dell'impronta ecologica dagli anni Sessanta a oggi, con le eventuali previsioni degli andamenti per il futuro, relativamente a questo secolo. In occasione del convegno a Rio de Janeiro dedicato a riflettere sul lavoro svolto nei cinque anni successivi al grande Summit della Terra, tenutosi proprio a Rio nel giugno 1992 (la conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo), Wackernagel aveva predisposto con sei collaboratori un ampio lavoro dedicato al calcolo delle impronte ecologiche di 52 paesi del mondo che ospitano globalmente l'80% della popolazione mondiale e rappresentano il 95 % del prodotto interno mondiale. In questo lavoro (Wackernagel et al., 1997) si legge: "Alla conclusione del Vertice sulla Terra tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992, l'umanità si trovava di fronte alla sfida obbligata di dover diminuire il proprio impatto sul pianeta. A cinque anni di distanza viviamo in un mondo sempre più in pericolo, con una popolazione più numerosa, maggiori consumi, più rifiuti e povertà, ma con una minore biodiversità, meno foreste, meno acqua potabile da utilizzare, meno suolo e un'ulteriore riduzione dell'ozono nella stratosfera. Siamo tutti consapevoli di essere ben lontani dalla sostenibilità. Ma quanto lontani? Se non siamo in grado di misurare, non abbiamo alcuna possibilità di agire. Per fare della sostenibilità una realtà, dobbiamo sapere dove siamo ora e quanto lontano si deve andare; dobbiamo cioè misurare quanto è lunga la strada verso il progresso. La buona notizia è che dopo il vertice di Rio questi strumenti di misurazione essenziali per le istituzioni, le aziende e le organizzazioni di base hanno compiuto progressi sostanziali." (.) Il lavoro sul calcolo delle impronte ecologiche si è quindi diffuso in numerosi paesi. Grazie alla pubblicazione dell'edizione italiana del libro sull'Impronta Ecologica nell'ottobre 1996, anche nel nostro paese sono state avviate le prime ricerche per realizzare calcoli di impronte ecologiche di regioni, province e città. Il WWF è stato protagonista della diffusione del concetto e del metodo, che è stato applicato in diverse situazioni territoriali con l'appoggio dei ricercatori del Cras (Centro Ricerche Applicate per lo Sviluppo Sostenibile). Dapprima sono stati pubblicati i risultati sperimentali dell'impronta ecologica di tre piccole città: Isernia, con un'impronta ecologica di 2,09 ettari pro capite, Orvieto con 2,25 ettari pro capite e Legnago con 2,34 ettari pro capite (escludendo il dato relativo al consumo di pesce) Nel 2000 sono poi stati resi noti i rapporti che WWF e Cras hanno realizzato per calcolare l'impronta ecologica della Regione Liguria, che risulta essere di 3,64 ettari pro capite, di Cosenza 3,99 ettari pro capite e di Siena, con 4,09 ettari pro capite . È evidente che tutti questi dati, insieme ad altri calcoli realizzati dall'Istituto di Ricerche Ambiente Italia e da altre strutture di ricerca o enti locali, si sono diffusi in un periodo nel quale le metodologie di calcolo soffrivano ancora di significative e periodiche rivisitazioni. Tra gli ultimi calcoli resi noti è necessario ricordare il calcolo che il Ministero dell'Ambiente e della tutela del territorio (Direzione generale per la ricerca ambientale e lo sviluppo) ha chiesto al WWF Italia di realizzare per le sei regioni Obiettivo 1 (Campania, Basilicata, Calabria, Puglia, Sicilia e Sardegna) del Quadro Comunitario di Sostegno dell'Unione Europea (i cosiddetti "fondi strutturali"). I risultati, consegnati al Ministero prima del vertice di Johannesburg e resi noti quest'anno, hanno fornito i seguenti dati (impronta ecologica, biocapacità ed eventuale deficit o surplus): Campania: 3,56; 0,82; 2,74; Basilicata: 3,41; 5,49; 2,09; Calabria: 3,69; 2,35; 1,33; Puglia: 3,45; 1,83; 1,63; Sardegna: 3,66; 4,11; 0,45; Sicilia: 3,37; 1,90; 1,47 (WWF e Ministero dell'Ambiente, 2004). (.) Molti studiosi convergono sull'importanza dell'impronta come metodo per accrescere la consapevolezza dell'opinione pubblica del nostro impatto sulla natura e della nostra dipendenza da essa. Un altro famoso economista ambientale, Hans Opschoor (2000) originatore del concetto di "spazio ambientale" che ha dato il via a numerosi studi nazionali tra cui quelli, famosissimi, della Germania e dell'Europa, entrambi realizzati dal Wuppertal Institut ha consigliato il ministero olandese dell'ambiente di non utilizzare l'impronta come indicatore di sostenibilità, non ritenendolo in grado di rendere realmente conto dello stato di sostenibilità di un dato paese, territorio, comune ecc. Lo studioso D.J. Rapport (2000) ritiene invece debole l'impronta perché non dà conto del fatto che le attività umane hanno condotto alla degradazione molti ecosistemi trasformando stati di salute in stati patologici, con il risultato di compromettere l'attività economica, la salute umana e il benessere delle comunità. Sono invece necessari degli assessment della salute degli ecosistemi, che richiedono l'analisi dei meccanismi con cui le attività umane degradano gli ecosistemi, delle conseguenze di tali degradi nella capacità di far fronte al mantenimento dei servizi offerti dalla natura e degli impatti della perdita dei servizi della natura sulla salute umana, le opportunità economiche e il benessere delle comunità. Wackernagel e Silverstein (2000) ricordano che attualmente nessun governo e nessuna agenzia ONU attua un sistema di contabilità sistematico per valutare qual è l'estensione dell'utilizzo umano della natura rispetto alla capacità degli ecosistemi. L'impronta ecologica è uno degli strumenti più comprensibili che vanno nella direzione di tenere in debito conto le risorse. Il metodo ha senza dubbio il grande merito di aver suscitato analisi, studi, ricerche e riflessioni per precisare meglio cosa sia la sostenibilità del nostro sviluppo e come la si possa misurare meglio, e ci ha consentito di avere uno strumento facilmente comunicabile, per comprendere l'entità del nostro impatto sulla natura. ( di Gianfranco Bologna ) L'Impronta Ecologica L'Impronta Ecologica misura il consumo delle risorse naturali da parte degli uomini e viene paragonata alla capacità della natura di rinnovare queste risorse. L'Impronta di un paese è l'area totale richiesta per: . produrre gli alimenti e i materiali fibrosi che consuma; . assorbire i rifiuti dell'energia che consuma; . fornire lo spazio per le infrastrutture. Le diverse popolazioni consumano risorse e servizi ecologici che arrivano da tutto il mondo, quindi la loro impronta è pari alla somma di queste aree, ovunque si trovino nel pianeta. Nel 2001 l'Impronta Ecologica globale era di 13,5 miliardi di ettari globali, pari a 2,2 ettari globali pro capite (un ettaro globale è quello con produttività pari alla media globale). La domanda che viene posta alla natura viene messa a confronto con la biocapacità della Terra, basata sulla sua area produttiva - approssimativamente 11,3 miliardi di ettari globali, cioè un quarto della superficie del pianeta. Nel 2001, l'area produttiva della biosfera era di 1,8 ettari globali pro capite. L'impronta globale cambia in rapporto alla dimensione della popolazione, ai consumi medi pro capite e alla efficienza delle risorse. La biocapacità della Terra varia in rapporto all'area biologicamente produttiva e alla relativa produttività media. Nel 2001, l'Impronta Ecologica superava la biocapacità globale di 0,4 ettari globali pro capite, cioè del 21%. Questo sovrasfruttamento globale ha iniziato a manifestarsi negli anni '80, e da allora è sempre andato aumentando. In pratica il sovrasfruttamento significa che spendiamo il capitale della natura più velocemente di quanto non si rigeneri. Il sovrasfruttamento rischia di ridurre permanentemente la capacità ecologica. L'Impronta di alimenti, materiali fibrosi e legno L'impronta di alimenti, materiali fibrosi e legno di un paese è espressa dall'area necessaria a soddisfare i consumi di: a) terreni agricoli che danno i raccolti per l'alimentazione umana e i mangimi animali, i materiali fibrosi e gli oli; b) terreni a pascolo per bestiame da carne, latte e lana; c) aree di pesca per le forniture di pesce e altri prodotti marini; d) aree forestali che forniscono legno, fibra e polpa di legno (le foreste necessarie ai consumi di legna da ardere e all'assorbimento dell'anidride carbonica - CO2 - sono calcolate nell'Impronta dell'energia). Quando variano gli utilizzi umani degli ecosistemi, cambiano anche le dimensioni di ognuna di queste aree. Ad esempio, ciò avviene se le foreste tropicali sono trasformate in terreni agricoli e da pascolo. Nell'Asia sudorientale, in America latina e in Africa le foreste naturali vengono trasformate in piantagioni per sopperire alle crescenti richieste di olio di palma, dolci, saponi e cosmetici. Altrove, larghe estensioni di terreni agricoli irrigati stanno diventando improduttivi a causa della penuria idrica e della salinizzazione dei suoli. L'impronta di alimenti, materiali fibrosi e legno di un cittadino nordamericano medio era, nel 2001, di 3 ettari globali, più di tre volte la media mondiale; quella di un medio africano o asiatico era inferiore a 0,7 ettari globali. La domanda di prodotti animali sta crescendo a un ritmo particolarmente rapido, come si vede dall'aumento delle aree dedicate a pascolo. Anche una notevole quota di raccolti viene dedicata ai mangimi animali, con una perdita secca di calorie disponibili (giacché, ad esempio, un kg di carne di maiale nutrito a cereali ha una impronta quattro volte superiore a quella di un kg degli stessi cereali). L'Impronta dell'energia L'Impronta dell'energia di un paese è calcolata come l'area necessaria a fornire - o ad assorbire - i rifiuti di: . combustibili fossili (carbone, petrolio, gas naturale), . legna da ardere, . energia nucleare, . energia idroelettrica. L'impronta dei combustibili fossili viene calcolata come l'area necessaria a sequestrare la corrispondente CO2; quella della legna da ardere come l'area necessaria alla ricrescita degli alberi corrispondenti al consumo di legna. L'impronta dell'energia nucleare (circa il 4% dell'uso energetico globale), poiché questa non genera CO2, viene calcolata come l'area necessaria ad assorbire l'equivalente in CO2 dell'energia usata. Non viene calcolata impronta per l'energia solare e eolica, giacché è assolutamente trascurabile (le infrastrutture sono già calcolate nell'area edificata). Le impronte nazionali sono calcolate in modo da riflettere l'energia incorporata nei prodotti commercializzati. L'energia utilizzata per una merce prodotta in un paese e consumata in un altro viene sottratta dall' impronta del paese produttore e sommata all'impronta del paese consumatore. L'Impronta dell'energia è quella che mostra la più ampia disparità pro capite tra i paesi ad alto e a basso reddito. Ciò è dovuto in parte al fatto che la gente non può mangiare più di tanto, mentre l'uso di energia è condizionato solo dalle possibilità economiche del consumatore. L'Impronta del territorio costruito L'area necessaria a ospitare le infrastrutture abitative, di trasporto, di produzione industriale ed elettrica occupa una notevole porzione dell'area produttiva del mondo. Nel 2001 l'impronta del territorio costruito era di 0,44 miliardi di ettari, ma l'accuratezza di questo calcolo è limitata dalle incertezze dei dati a disposizione. Ad esempio: nelle aree urbane il verde viene distinto dal cementificato? Come vengono conteggiati i percorsi stradali? Nemmeno le immagini dei satelliti riescono a dare distinzioni accurate tra questi diversi tipi di superficie. Poiché le città storiche sono state fondate su aree agricole fertili, con climi moderati e accesso all'acqua, l'Impronta Ecologica assume che il territorio costruito occupi terreni equiparabili mediamente ad aree coltivabili di media produttività. Ciò potrebbe sottostimare l'impronta, in quanto molte città si estendono su terreni ad alta produttività. Ma il dato si ribilancia, perché è vero anche il contrario, cioè molte città e infrastrutture si estendono su terreni di bassa qualità. La compattezza fisica delle infrastrutture influenza anche altre componenti dell'Impronta Ecologica. Ad esempio, grandi costruzioni isolate richiedono maggiori quantità di energia per uso domestico e maggior utilizzo delle auto. Prelievi d'acqua dolce Meno dell'1% dell'acqua dolce mondiale è disponibile come risorsa rinnovabile. Il resto è ingabbiato nei ghiacci, nelle falde fossili, o comunque è inaccessibile o scarsamente accessibile. Si stima che più della metà dell'acqua disponibile venga utilizzata dall'uomo. Se l'utilizzo d'acqua eccede certe soglie percentuali delle risorse d'acqua dolce rinnovabili (variabili secondo le condizioni ecologiche, ma indicate dagli esperti tra il 20 e il 40%) gli ecosistemi sono a rischio. Molti paesi superano già queste soglie e alcuni estraggono già più del 100% delle risorse d'acqua rinnovabili, il che indica che stanno intaccando le acque degli acquiferi fossili. L'uso globale d'acqua è raddoppiato dal 1961 al 2001, con un aumento medio annuo del 1,7%. L'utilizzo medio pro capite è stato, nel 2001, di 650 metri cubi. L'acqua è presa in esame solo indirettamente nei conteggi dell'Impronta Ecologica. Sono invece direttamente conteggiati i consumi di energia necessari a fornire e trattare l'acqua, nonché le aree destinate ai serbatoi. Grandi passi avanti Siamo piacevolmente sorpresi di come l'Italia ha risposto all'Impronta Ecologica. Quindici anni fa non avremmo neanche immaginato questa possibilità. Allora eravamo emozionati dall'improvviso interesse suscitato a livello globale dai temi della sostenibilità: il dibattito sull'ambiente, sulla giustizia sociale e sullo sviluppo si sono velocemente estesi da alcuni giornali marginali, sporadici libri accademici e piccole ONG alla scena mondiale. Dal seme gettato dal Rapporto Brundtland del 1987 (Our Common Future), alla Conferenza di Rio del 1992 - che riuniva il maggior numero di capi di stato mai verificatori nella storia - la sostenibilità è diventata un tema serio e pienamente riconosciuto. Eravamo contemporaneamente preoccupati che il dibattito potesse mancare di chiarezza e di obiettivi specifici. E in particolare che si perdesse l' esplicito riconoscimento del fatto che viviamo su un solo pianeta e che superare continuamente i limiti della carrying capacity non era né ecologicamente possibile né socialmente auspicabile. Abbiamo sviluppato l'Impronta Ecologica proprio per rendere misurabile la semplice realtà dell'unico pianeta e mettere a disposizione questo concetto nell'assunzione di decisioni a qualunque livello: acquisti familiari, pianificazione urbana, politiche nazionale e governance globale. L'Impronta Ecologica si pone una domanda disarmante (Quanta natura abbiamo a disposizione e quanta ne usiamo?) e offre risposte di grande efficacia, che hanno aiutato le collettività, le aziende e i governi a pianificare un futuro coerente con la realtà di un piccolo pianeta. Che cosa ha reso così efficace l'Impronta Ecologica? Essa utilizza metafore di forte effetto e facili da capire, sostenute da analisi rigorosamente scientifiche. La partnership con organizzazioni come il WWF, la BBC e Earth Day ci ha aiutato a diffondere ampiamente il messaggio. Ciò ha dato il via a interessanti dibattiti sul tema, spesso evitato, dei limiti ecologici e ha fatto segnare un punto a favore della comprensione che il pianeta è uno solo e che la sostenibilità dipende dal vivere nella consapevolezza che ci deve bastare. (.) Sulla base di questi risultati, stiamo preparando un vero salto di qualità, grazie alla creazione del Global Foorprint Netwwork (www.footprintnetwork.org). Questa rete lavora con le proprie organizzazioni partner per trasformare i successi in maggiore incisività a livello dei governi locali, degli accademici, del mondo delle aziende e della società civile. Per rendere i metodi dell'Impronta sempre più scientificamente inattaccabili e politicamente utili è necessario infatti compattare la comunità dell'Impronta, sviluppare gli standard applicativi, rafforzare la voce comune e predisporre i meccanismi utili ad un continuo miglioramento dello strumento. A questo scopo bisogna garantire la pertinenza dei conteggi nazionali per i calcoli dell'Impronta, che sono il motore di qualsiasi applicazione dell' indicatore. Aiutando la comunità degli operatori a usare questi conti in modo corretto si creano le premesse per renderli paragonabili tra loro, da città a città, da cittadino a cittadino. E rendendoli più trasparenti e particolareggiati, si favorirà la loro capacità di utilizzo da parte delle agenzie di governo per meglio valutare i beni ecologici, i trend principali e le performance di settore. ( di Mathis Wackernagel, William E. Rees ) Piccole impronte crescono È ormai qualche anno che la Rete Lilliput, una delle realtà del movimento "altermondialista", si è affiancata al WWF nella diffusione e nell'utilizzo dell'Impronta Ecologica poiché, a nostro parere, essa rappresenta un immediato e comprensibile indicatore dell'insostenibilità di questo sviluppo economico e sociale. Il cammino della Rete Lilliput prende avvio nel 1999 sulla spinta di un "Manifesto di intenti" elaborato dal Tavolo delle Campagne, un gruppo di coordinamento formato dalle principali Associazioni e Campagne nazionali a carattere sociale. Obiettivo della "strategia lillipuziana" è quello di cercare di bloccare il gigante disumano del liberismo sfrenato servendosi di piccoli fili, piccole azioni quotidiane, mirate e concrete, da intessere insieme. All'interno di questa strategia è stato costituito un Gruppo di Lavoro Tematico (GLT) sull'impronta ecologica e sociale, al fine di far interagire e collaborare le miriadi di esperienze locali che nel nostro paese cercano di combattere le disuguaglianze nel mondo e lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali. Le forme della democrazia e della politica che tradizionalmente abbiamo conosciuto fino a oggi risultano, così come sono, largamente inadeguate a governare i processi di esclusione sociale, impoverimento, distruzione delle risorse naturali. La politica che governa oggi i nostri stati non sembra in grado di comprendere interamente la portata di tali processi; e, non per qualche perversa volontà ma perché gli strumenti che utilizza, i suoi codici di interpretazione della realtà, risultano ormai in larga misura inadeguati a progettare una prospettiva di futuro. La coscienza della nuova cittadinanza, che sta crescendo, ha reagito con nuove forme di partecipazione, assorbendo le passioni e le inquietudini del cambiamento, naturale e sociale, che sta coinvolgendo il nostro pianeta. Migliaia di associazioni in tutto il mondo si battono per riaffermare diritti antichi e nuovi, con l'intelligenza di coloro che guardano al proprio territorio in una prospettiva globale. Cittadini e associazioni possono - in modo analogo a quello della favola I viaggi di Gulliver - utilizzare le fonti di potere relativamente piccole di cui dispongono e combinarle con quelle in possesso di altri movimenti in altri luoghi. Sappiamo che dobbiamo riscrivere le regole dell'economia, perché la ricerca dell'equità fa cadere i presupposti di fondo su cui funziona questa economia che ha come riferimento la globalizzazione e il neoliberismo. È una sfida che si potrà vincere solo se saremo capaci di introdurre cambiamenti profondi nel modo di gestire le risorse, di concepire il lavoro, di organizzare la produzione, di contribuire ai servizi pubblici, di garantire la sicurezza sociale: in una parola, potrà essere vinta solo se sapremo costruire un'economia di giustizia, riducendo il nostro peso sulla Terra e migliorando le condizioni sociali di tutti. Le persone, gli attivisti, le associazioni, i gruppi che animano Rete Lilliput credono che il cambiamento dell'attuale società, basato su un sistema economico iniquo e che privilegia il profitto al rispetto della dignità della persona, debba necessariamente passare dalla messa in discussione dell'attuale stile di vita perpetuato dalla parte più ricca del mondo a scapito della più povera. Per questo le campagne che Rete Lilliput promuove e sostiene prevedono azioni che collocano al centro dell'interesse i comportamenti quotidiani delle singole persone, naturalmente legati a forme di pressione nonviolenta, verso obiettivi tangibili in grado di influenzare il cambiamento. Questo è lo stile di lavoro lillipuziano. Partire da noi stessi per promuovere e dare impulso al cambiamento sostenibile della società; battersi contro le principali storture del sistema ma anche cercare le alternative eque e sostenibili a questo assetto economico che genera esclusioni, ingiustizie e distruzione del pianeta. I tratti fondamentali dell'alternativa che Rete Lilliput è impegnata a costruire si basano sulla sobrietà, sulla riduzione dell'impronta ecologica e sociale, sulla valorizzazione dell'economia locale e sul riconoscimento che i bisogni fondamentali sono diritti da garantire a tutti gli abitanti del pianeta Terra. Rete Lilliput sta lavorando in questa prospettiva attraverso l'attività dei nodi, dei gruppi di lavoro tematici e la promozione di campagne per: . riaffermare la dignità del lavoro e la democrazia economica, costringendo le multinazionali alla trasparenza e alla responsabilità sociale e ambientale; . l'annullamento del debito economico e il riconoscimento del debito ecologico dei paesi del Nord verso quelli del Sud; . ridurre la nostra impronta ecologica e sociale, proponendo un diverso modo di consumare e sollecitando gli enti locali e le istituzioni alla costruzione di filiere produttive alternative; . la costruzione di una economia 'altra', rafforzando e sviluppando le realtà di economia solidale attraverso la creazione di circuiti economici, in cui le diverse realtà attive in Italia si sostengono a vicenda creando insieme spazi di mercato finalizzato al benessere di tutti. In particolare, l'obiettivo strategico di uno dei gruppi di lavoro tematici in cui è organizzata l'attività di Rete Lilliput è quello di diffondere il concetto di impronta ecologica e sociale per indurre i cittadini italiani a modificare concretamente il loro stile di vita. Tale obiettivo viene perseguito attraverso molteplici attività, in collegamento con le altre realtà della Rete Lilliput e più in generale con chi si muove su questi temi (istituzioni ed enti locali compresi). Quest'anno, sempre a uso e consumo dei lillipuziani e dei soggetti interessati, il gruppo di lavoro "impronta ecologica e sociale" ha messo a punto una semplificazione del calcolo dell'impronta ecologica personale e dell'efficienza energetica della propria casa, con la finalità di rendere più amichevoli, e quindi di più facile accesso, i complessi fogli di calcolo originali. Entrambe le metodologie di calcolo sono scaricabili dal sito di Rete Lilliput (www.retelilliput.net/Gruppi/GLTIES). Oltre che il nome di un gruppo di lavoro, l'impronta ecologica è anche argomento di una delle Campagne su cui in questi anni si è strutturata l' attività della Rete, dal titolo "Riduciamo la nostra impronta". L'obiettivo di questa campagna è quello di portare sul terreno pratico della proposta il lavoro fatto sull'impronta ecologica. È arrivata l'ora di dare risposte tecniche e comportamentali sulla costruzione del 'mondo diverso che vogliamo', nella convinzione che l'impronta ecologica sia un indicatore di sostenibilità da cui partire per proporre interventi in più campi: dal consumo critico al risparmio energetico, all'acqua come bene comune, e più in generale a reti di economia solidale. Infatti le altre Campagne promosse dal GLT "impronta ecologica e sociale" di Rete Lilliput, insieme ai nodi locali e a singoli e associazioni vicine, sono: "Distretti di economia solidale", un percorso da tracciare verso un'economia 'altra'; "Kyotopocomakyoto", ovvero come possiamo dare il nostro contributo al rispetto degli impegni presi a Kyoto, prendendo coscienza dei consumi energetici e delle conseguenze delle nostre abitudini sul cambiamento climatico; "Acqua: conoscenza e riappropriazione del proprio territorio", ovvero acqua bene comune, tutela delle acque e del territorio, coinvolgimento della gente nella gestione pubblica. ( Gabriele Bollini) Che cos'è l'Impronta Ecologica? L'analisi dell'Impronta Ecologica è uno strumento di calcolo che ci permette di stimare il consumo di risorse e la richiesta di assimilazione di rifiuti da parte di una determinata popolazione umana o di una certa economia e di esprimere queste grandezze in termini di superficie di territorio produttivo corrispondente. Con questo strumento cerchiamo di dare risposta ad alcune domande tipiche, come ad esempio: quanto la popolazione considerata dipende dall'importazione di risorse da "altrove" e dalla capacità di assorbimento di rifiuti dei "sistemi ecologici comuni"? Nel prossimo secolo la produttività della natura sarà sufficiente per soddisfare le crescenti aspettative materiali di una popolazione umana in aumento? Il concetto base dell'Impronta Ecologica - insegnato da vent'anni nei corsi di pianificazione da William Rees - è stato sviluppato a partire dal 1990 da Mathis Wackernagel e altri studenti che lavorano con Rees nella Healthy and Sustainable Communities Task Force della University of British Columbia. Per spiegare l'idea alla base dell'analisi dell'Impronta Ecologica, esaminiamo come la nostra società percepisce "la città", l'apice stesso delle realizzazioni umane. Se chiediamo alla gente una definizione, per lo più sentiremo parlare di una popolazione molto concentrata, oppure di un' area dominata dalla presenza di edifici, strade e altri manufatti di origine umana (è quello che un architetto definisce "ambiente urbanizzato"). Alcuni faranno riferimento alla città come a un'entità politica dotata di un confine definito che delinea l'area entro la quale l'amministrazione municipale esercita la propria giurisdizione. Altri ancora vedranno la città soprattutto come una concentrazione di quei servizi culturali, sociali ed educativi che, semplicemente, non sarebbero possibili in un insediamento più piccolo. Infine, chi ragiona in termini economici descriverà la città come un nodo di intensi scambi tra individui e aziende, vero motore dello sviluppo produttivo ed economico. Senza dubbio le città costituiscono una delle realizzazioni più grandiose della civiltà umana. In ogni paese, le città rappresentano il centro sociale, culturale e di comunicazione della vita nazionale. Ma c'è qualcosa di fondamentale che manca nella percezione comune della città, qualcosa che finora è stato dato per scontato ed è semplicemente sfuggito alla consapevolezza. Possiamo arrivare a questo elemento mancante facendo un esperimento mentale basato su due semplici domande che hanno lo scopo di costringerci a guardare al di là dei limiti della percezione comune. Per prima cosa, immaginiamo cosa accadrebbe a una qualunque città o regione metropolitana moderna (definita dai suoi confini amministrativi, oppure come area urbanizzata, oppure come concentrato di attività socio-economiche), sia essa Vancouver, Philadelphia o Londra, se fosse chiusa in una cupola emisferica di vetro o plastica che lasciasse entrare la luce ma impedisse alle cose materiali di qualunque genere di entrare e uscire: più o meno come accade nel progetto "Biosphera II" in Arizona. La salute e l'integrità dell'intero sistema umano contenuto all'interno di questa cupola dipenderebbe interamente da ciò che vi fosse rimasto intrappolato all'inizio dell'esperimento. Quasi tutti capiscono che una città così configurata cesserebbe di funzionare e i suoi abitanti perirebbero entro pochi giorni. La popolazione e l'economia contenute nella cupola, tagliate fuori dalle risorse vitali e dagli essenziali sistemi di assorbimento dei rifiuti, potrebbero solo morire di fame e soffocare. In altri termini, gli ecosistemi contenuti entro l'immaginario "terrario" umano non avrebbero una sufficiente carrying capacity per sostenere il peso ecologico imposto dalla popolazione umana in esso contenuta. Questo modello mentale della cupola di vetro ci rammenta, in modo abbastanza brutale, la vulnerabilità ecologica del genere umano. La seconda domanda ci spinge a considerare in termini più concreti questa realtà nascosta. Supponiamo che la nostra città sperimentale sia circondata da un paesaggio diversificato, nel quale terre coltivate e pascoli, foreste e bacini idrici - cioè tutti i tipi di territorio ecologicamente produttivi - siano rappresentati in proporzione alla loro attuale presenza sulla Terra e che la città abbia a disposizione una quantità di energia da combustibili fossili adeguata a sostenere gli attuali livelli di consumo e le sue tecnologie prevalenti. Supponiamo inoltre che la nostra immaginaria copertura di vetro sia elasticamente espandibile. La domanda è dunque la seguente: quanto deve diventare grande la cupola perché la città al suo centro possa sostenersi indefinitamente soltanto grazie agli ecosistemi terrestri e acquatici e alle risorse energetiche contenute all'interno della cupola stessa? In altri termini, qual è la superficie totale di ecosistemi terrestri necessaria per sostenere continuativamente tutte le attività sociali ed economiche degli abitanti di quella città? Si tenga presente che va calcolata la superficie di territorio necessaria per produrre risorse, ma anche per assimilare i rifiuti e per garantire varie funzioni non visibili ma essenziali per la sopravvivenza. Si tenga anche presente che, per semplicità, la domanda così posta non prevede nel calcolo il territorio ecologicamente produttivo necessario a sostenere altre specie, indipendentemente dai servizi che esse possono fornire agli umani. Per ogni serie di circostanze specifiche - questo esempio, infatti, presuppone una certa popolazione, un certo standard di vita materiale, l' esistenza di certe tecnologie ecc. - è possibile calcolare una stima ragionevole della superficie di terra/acqua necessaria perché la città in esame si mantenga. Per definizione, la superficie totale di ecosistema indispensabile all' esistenza continuativa della città costituisce di fatto la sua Impronta Ecologica sulla Terra. ( di Mathis Wackernagel, William E. Rees ) Sostenibilità e sviluppo sostenibile: qualche chiarimento La necessità, per il genere umano, di vivere in modo equo secondo le possibilità offerte dalla natura è l'idea alla base della maggior parte delle definizioni di sviluppo sostenibile, a cominciare da quella contenuta nell'appello della Commissione Brundtland, della quale è stato generalmente recepito il richiamo a soddisfare le necessità del presente senza compromettere le necessità delle generazioni future. In ogni caso, a dispetto di una diffusa consapevolezza degli aspetti ecologici e sociali del problema, le interpretazioni del concetto di sviluppo sostenibile e delle sue implicazioni entrano spesso in contraddizione, persino all'interno dello stesso rapporto Brundtland. Una prima, ovvia spiegazione delle interpretazioni divergenti dell'idea fondamentale di sostenibilità si basa sull'ambiguità insita nella formula "sviluppo sostenibile". C'è chi recepisce con più facilità o urgenza l' istanza della "sostenibilità" e invoca un cambiamento ecologico e sociale, e un mondo caratterizzato da stabilità ambientale e giustizia sociale. Altri invece attribuiscono preminenza alla causa dello "sviluppo", che interpretano come crescita ragionata e consapevole: un adeguamento illuminato dello status quo. Sharachchandra Lèlè sostiene che le differenti interpretazioni di sviluppo sostenibile non sono causate da un'insufficiente comprensione, ma piuttosto dalle diverse matrici ideologiche di chi vi si accosta, nonché dalla generale riluttanza rispetto alle implicazioni del messaggio di fondo. La deliberata mancanza di precisione del concetto, anche nella definizione data dalla Commissione Brundtland, è espressione dell'approccio del potere politico e del suo tipico linguaggio di compromesso, più che il sintomo di insormontabili difficoltà intellettuali. In un suo commento, Michael Redelitt avverte che "se non saremo disposti a chiarire a noi stessi le nostre ipotesi di fondo su sviluppo e ambiente e a dare effetto politico alle conclusioni raggiunte, allora la realtà dello sviluppo insostenibile rimarrà immutata". Come abbiamo già suggerito, buona parte della confusione attorno al concetto di "sviluppo sostenibile" è strettamente legata alla generale incapacità di distinguere tra vero e proprio sviluppo e semplice crescita. Secondo l' economista Herman Daly, la differenza può essere individuata definendo come "crescita" un aumento quantitativo materiale, mentre lo "sviluppo" coincide con la realizzazione di un più ampio e pieno potenziale. In breve, crescita significa diventare più grandi mentre sviluppo significa diventare migliori. La tesi di Daly, quindi, è che "sviluppo sostenibile" indica un progressivo miglioramento sociale senza una crescita che superi la carrying capacity ecologica. In effetti, Daly ritiene che nel concetto di "crescita sostenibile" vi sia una contraddizione interna ai limiti dell'assurdo. Per giungere alla sostenibilità si può anche dover ridurre l'aggregato della produzione economica, pur cercando di mettere i meno abbienti nella condizione di consumare in misura maggiore. Vi sono altre ambiguità che si nascondono nello "sviluppo sostenibile". Esso potrebbe essere riferito: a) alle condizioni necessarie per un'esistenza sostenibile (intese, in questo caso, come le basi per una meta da raggiungere o di un modo di vivere); b) ai mezzi socio-politici per conseguire tale meta (e, dunque, un processo di pianificazione); c) a strategie particolari per risolvere problemi che si presentono di volta in volta (soluzioni ad hoc). Se non si chiarisce con sufficiente precisione in quale accezione si sta utilizzando il concetto in un determinato contesto, si possono generare malintesi tali da complicare, se non addirittura pregiudicare, l'intero lavoro. Per questo motivo, alcuni ritengono che si debba preferire "sostenibilità dello sviluppo", in quanto termine meno ambiguo di "sviluppo sostenibile". ( di Mathis Wackernagel, William E. Rees ) Determinare quanta popolazione umana una certa regione può sostenere è problematico per due ragioni principali. Prima di tutto il peso ecologico totale di qualsiasi popolazione varia al variare di fattori quali il reddito medio pro capite, le aspettative di consumo, il livello della tecnologia (cioè l'efficienza energetica e dei materiali): in pratica, la carrying capacity dipende tanto dai fattori culturali quanto dalla produttività ecologica. In secondo luogo, l'economia globale fa sì che nessuna regione sia più isolabile: tutti hanno accesso alle risorse di tutto il mondo. Anzi, molti osservatori sottolineano che il commercio è in grado di far superare qualsiasi limite di crescita imposto dalla penuria di risorse a livello locale. Vi sono altri fattori che complicano ulteriormente il problema: diversamente dai consumi di altri animali, i consumi umani non sono determinati esclusivamente dalla biologia. A causa della tecnologia, il peso imposto dal nostro metabolismo biologico viene accresciuto enormemente dal metabolismo industriale. Mentre la maggior parte delle specie consuma ben poco oltre al cibo, il grosso dei consumi umani è fatto di merci prodotte (energia, abiti, auto e una infinità di altri beni). Nei paesi industrializzati questo stile di vita è incoraggiato dalla cultura del consumismo ed è limitato solo dal potere d'acquisto dei vari soggetti. Naturalmente, se si guarda al fenomeno globalmente, coesistono livelli di consumo individuale assai diversi: il bracciante agricolo indiano può rappresentare il punto più basso della scala; lo staff dirigente di una compagnia transnazionale il punto più alto. L'analisi dell'Impronta Ecologica supera alcune delle difficoltà del concetto "tradizionale" di carrying capacity invertendo semplicemente i termini del problema. L'Impronta Ecologica parte dal presupposto che ogni categoria di consumo di energia e di materia e ogni emissione di scarti ha bisogno della capacità produttiva o di assorbimento di una determinata superficie di terra o di acqua. Se sommiamo i territori richiesti da ogni tipo di consumo e di scarto di una popolazione definita, la superficie totale che otteniamo rappresenta l'Impronta Ecologica di quella popolazione sulla Terra, indipendentemente dal fatto che questa superficie coincida con il territorio su cui quella popolazione vive. In breve, il modello dell' Impronta Ecologica misura la superficie di territorio richiesta da ogni persona (o popolazione), anziché la popolazione possibile per ogni unità di territorio. Come si vedrà, tale semplice inversione si dimostra assai più istruttiva della tradizionale carrying capacity nel delineare il dilemma della sostenibilità. Più specificamente, l'analisi dell'Impronta Ecologica di una data popolazione o economia può essere definita come la superficie di territorio (terra e acqua) ecologicamente produttivo nelle diverse categorie (terreni agricoli, pascoli, foreste ecc.) che è necessaria per: 1) fornire tutte le risorse di energia e materia consumate; 2) assorbire tutti gli scarti di quella popolazione, data la sua attuale tecnologia indipendentemente da dove tale territorio sia situato. Sono compresi nel conteggio i consumi domestici, i consumi del mondo produttivo e quelli delle istituzioni amministrative. Si noti che, poiché l' analisi dell'Impronta Ecologica è basata sui flussi di reddito naturale, essa è in grado di fornire su base territoriale una stima delle esigenze di capitale naturale di una certa popolazione. Come già ricordato, la dimensione dell'Impronta Ecologica non è fissa, ma dipende dai redditi medi, dai valori prevalenti, dalla tecnologia e da altri fattori socio-culturali. Quali che siano le variabili, bisogna ricordare che l'Impronta Ecologica di una certa popolazione rappresenta la superficie di territorio necessaria esclusivamente per quella popolazione: i flussi e gli stock utilizzati non saranno più a disposizione di altri. Un'analisi completa dovrebbe includere sia le esigenze dirette di territorio, sia gli effetti indiretti di ogni tipo di consumo di materia e energia. Cioè, non dovrebbe tener conto solo della superficie dei vari ecosistemi (capitale naturale) necessari a produrre risorse rinnovabili e servizi vitali (forme diverse di reddito naturale), ma anche della superficie biologicamente perduta a causa di contaminazioni, radiazioni, erosioni, salinizzazione e urbanizzazione, che rendono il terreno improduttivo. Dovrebbe conteggiare, inoltre, l'uso di risorse non rinnovabili, esaminando i processi energetici e i relativi effetti inquinanti. Al momento, però, l'analisi si basa su un numero limitato di tipi di consumo e di flussi di scarto. Ogni elemento aggiuntivo aumenterà quindi le nostre stime attuali. Inoltre, i nostri calcoli partono dal presupposto che il territorio necessario (ad esempio, foreste o terreni agricoli) venga utilizzato in modo sostenibile. Purtroppo di solito non è così: i terreni agricoli, ad esempio, vengono degradati dieci volte più velocemente di quanto non possano ricostituirsi biologicamente. Ciò significa che, nonostante l'Impronta Ecologica delle regioni industrializzate sia terribilmente alta, essa è certamente sottostimata. È probabile che le nostre valutazioni attuali debbano essere incrementate di un cospicuo "fattore sostenibilità" che corregga tale semplificazione. Rovesciare il concetto di carrying capacity consente di fare piazza pulita di molte obiezioni mosse a questo tipo di analisi applicata agli esseri umani. È vero, infatti, che cercare di misurare la carrying capacity umana come il massimo peso sopportabile regionalmente è un esercizio futile: le popolazioni locali sono talmente influenzate da cultura, tecnologia e commerci da rendere oscuro il loro rapporto con i limiti biofisici del territorio di appartenenza. Hong Kong, ad esempio, è densamente popolata ed estremamente prospera, eppure ha una carrying capacity naturale estremamente limitata, mentre alcuni paesi africani con possibilità biofisiche maggiori soffrono la fame. L'analisi dell'Impronta Ecologica evita questi problemi e misura il peso ecologico totale della popolazione anziché il numero di persone. Ci dice che, seppure confuso dalla tecnologia e dai commerci, il peso della popolazione si fa sentire da qualche parte: se il commercio sembra aumentare la carrying capacity locale, certamente la riduce in qualche altro posto. Il nostro metodo mostra gli impatti di una data popolazione analizzando i consumi aggregati (cioè: carico totale = popolazione x consumi pro capite) e convertendo questo dato in una superficie di territorio corrispondente. È così possibile esprimere la domanda ecologica con un unico dato (necessità di capitale naturale) che - diversamente dalla carrying capacity tradizionale - riflette anche le variabili del commercio netto, della tecnologia prevalente e dei redditi medi. L'impronta ecologica così calcolata può essere messa a confronto con l'area su cui vive la popolazione e mostrare di quanto è stata superata la carrying capacity locale e, quindi, la dipendenza di quella popolazione dal commercio (vi possono essere piccoli pezzi di Impronta di una certa popolazione sparsi un po' su tutto il mondo). Questa analisi, inoltre, facilita il confronto tra regioni, rivelando l'effetto delle diverse tecnologie e dei diversi livelli di reddito sull'impatto ecologico. Scopriremo co- sì che l'Impronta media di ogni residente a Hong Kong è enormemente superiore a quella di un agricoltore etiope. Lo scenario dell'Impronta Ecologica può essere adattato ad altre analisi di sostenibilità. Ad esempio, potremmo calcolare l'impronta ecologica del commercio per rivelare quanta carrying capacity è racchiusa nelle importazioni di una regione e a quanta carrying capacity essa rinuncia per produrre le esportazioni necessarie a pagare ciò che importa. Inoltre, l'Impronta Ecologica media procapite può essere paragonata con una suddivisione equa della Terra, cioè quella fetta di terra produttiva del nostro pianeta oggi teoricamente a disposizione di ogni persona (con tante scuse alle altre specie!). Oggi questa porzione è di 1,5 ettari (corrispondenti a un quadrato di 122 metri di lato), di cui solo 0,25 ettari sono terreno arabile. L'analisi dell'Impronta Ecologica ci consente di stimare il sovraccarico globale e il deficit ecologico di qualsiasi regione o paese. Il "sovraccarico" è la parte di Impronta Ecologica complessiva dell'umanità che supera la carrying capacity complessiva. Oltre un certo punto, la crescita materiale dell'economia mondiale può essere ottenuta solo attraverso l'impoverimento del capitale naturale e minando i servizi naturali vitali da cui noi tutti dipendiamo. In altre parole, siamo in sovraccarico quando i consumi dell'economia eccedono i redditi naturali e creano declino ecologico. Il deficit ecologico (o di sostenibilità) è invece la misura del sovraccarico "locale": stima la differenza tra la capacità ecologica di una data regione o nazione e la sua effettiva Impronta Ecologica, svelando così quanto la regione sia dipendente da capacità produttive extra-territoriali, attraverso il commercio o l'appropriazione dei flussi naturali. Già oggi è evidente che l'Impronta Ecologica umana supera la carrying capacity globale. Tale sovraccarico è possibile. solo temporaneamente e farà pagare gravi prezzi alle generazioni future. Senza uno sforzo concertato per ridurre il flusso di materia e energia, i nostri figli si troveranno a dover soddisfare le necessità biologiche di una popolazione più numerosa avendo a disposizione degli stock di capitale naturale (la vera ricchezza) assai diminuiti. ( di Mathis Wackernagel, William E. Rees )
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