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sviluppo sostenibile una teoria controversa
- Subject: sviluppo sostenibile una teoria controversa
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 26 Nov 2004 06:56:57 +0100
da altronovecento.it "Sviluppo sostenibile". Riflessioni attorno ad una teoria controversa. Marino Ruzzenenti 1."SVILUPPO SOSTENIBILE" E TEORIA ECONOMICA. Anche l'economia, nella recente fase dell'insorgenza dell'allarme ecologico, ha dovuto in qualche modo fare i conti con la questione ambientale. Molto spesso male, in verità, ed in modo alquanto affannoso. D'altronde il concetto di "sviluppo sostenibile", ormai largamente usato nell'ultimo decennio, rinvia innanzitutto al discorso sull'economia e pone in discussione alcuni fondamenti della stessa teoria economica. L'avvio di un rovesciamento concettuale nella teoria economica va collegato alla pubblicazione, nel 1971, di The Entropy Law and the Economic Process di Georgescu-Roegen. In realtà, come ha puntigliosamente ricostruito nelle sue ricerche l'economista spagnolo Juan Martinez-Alier, da oltre un secolo numerosi studiosi si sono occupati delle relazioni tra la teoria economica e lo studio dei flussi di energia nelle società umane. Il grande problema che autori come Podolinskij, Clausius, Popper-Lyncheus, Neurath e altri hanno cercato di affrontare è quello delle fonti esauribili di energia, nel tentativo di elaborare una teoria economica dell'uso di questo tipo di risorse. Il caso delle risorse energetiche esauribili è infatti esemplare per rivelare i limiti epistemologici dell'economia classica. Questa teoria economica dimostra clamorosamente di non essere attrezzata per affrontare il problema della loro allocazione intergenerazionale. Infatti, ogni modello di uso di combustibili fossili e altre risorse non rinnovabili implica una scelta distributiva tra la generazione presente e le generazioni future (se si ritiene non accettabile che l'umanità attuale si appropri in esclusiva dell'intero patrimonio di risorse esauribili!). Il mercato, invece, come regolatore dei prezzi e dei flussi delle merci presuppone un radicale individualismo metodologico che prescinde da ogni principio morale. "Lo sforzo uniforme ed ininterrotto di ogni uomo per migliorare la propria condizione, questo principio dal quale scaturisce la ricchezza pubblica e nazionale come quella privata, è spesso abbastanza forte per dirigere il naturale corso delle cose verso il progresso...", scriveva nel 1776 Adam Smith nella sua Inchiesta sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni. L'individualismo egoistico del consumatore viene così posto a fondamento di un mercato autoregolantesi e capace di rispondere contemporaneamente sia agli interessi del singolo che dell'intera umanità. In questo contesto anche l'allocazione delle risorse è l'esclusiva risultante di transazioni fra individui. Ma "quando si tratta di risorse esauribili, il principio secondo il quale l'allocazione delle risorse deve corrispondere alle preferenze degli agenti economici si scontra con una difficoltà ontologica: molti degli agenti economici interessati non sono ancora nati, per cui non possono esprimere le loro preferenze e la loro disponibilità a pagare" ( Ma questo assunto potrebbe valere anche per tutti quegli uomini e quelle donne che sono oggi fuori dal mercato, perché non solvibili essendo sostanzialmente privi di reddito). E' evidente che per dare a queste domande future una loro ponderazione (pesante? leggera?) è necessario fuoriuscire dalla teoria economica classica ed ancorarsi a principi morali per stabilire ad esempio se la domanda futura di risorse esauribili debba essere sopravvalutata piuttosto che sottovalutata (e quindi debba essere fortemente limitata la domanda attuale). Il limite della teoria classica è che considera l'economia un sistema chiuso in sé, di cui ignora del tutto le implicazioni sul lungo periodo (le generazioni future), perché sostanzialmente incapace di previsione: i bisogni delle generazioni future (sia in termini di risorse esauribili che di quantità di rifiuti per loro accettabili, ad es. scorie radioattive) sono del tutto incommensurabili perché sono esterni al mercato e quindi non possono rientrare nel conto economico . Ma l'economia classica era un sistema chiuso anche perché non considerava il fattore natura come decisivo non solo per il funzionamento, ma per la stessa sopravvivenza di un'economia umana. L'economia classica ha considerato la produzione della ricchezza come un fattore esclusivo dell'attività umana per cui l'unica preoccupazione era l'incremento della produttività di quello che era ritenuto il fattore limitante (capitale costante e capitale variabile). La natura, a cui si attingevano risorse e materie prime, era ritenuta una fonte inesauribile e quindi non rientrava nelle preoccupazioni e nella contabilità degli economisti. L'economia era una scienza esclusivamente sociale del tutto separata dalle scienze naturali. Anche per questo dal punto di vista epistemologico l'economia classica era incapace di comprendere nei propri calcoli il fattore natura. In questo senso e' significativo notare come molti dei precursori dell'economia ecologica provenissero dall'area delle scienze naturali (Podolinskij, Clausius, Popper-Lynkeus...). Tuttavia gli effetti dell'economia umana sulla natura (sia in termini di prelievo di risorse che di scarico di rifiuti), chiamati dagli ecologisti esternalità, sono spesso difficilmente valutabili anche con il supporto delle scienze naturali. Emblematico è l'esempio dell'effetto serra e dei calcoli sul riscaldamento globale: gli scienziati sono stati a lungo divisi, sia sulle previsioni climatiche, sia sui possibili effetti positivi o negativi dei fenomeni descritti . E' anche per questo che il punto di vista ecologico ha accentuato i temi della complessità, della casualità, della non linearità e non prevedibilità di alcuni fenomeni naturali, ponendo anche seri interrogativi di epistemologia delle scienze. In conclusione, molti elementi dell'economia che un punto di vista ecologico evidenzia come centrali (allocazione intergenerazionale delle risorse esauribili, esternalità) risultano difficilmente commensurabili . "L'economia di mercato da sola non è in grado di essere la chiave di volta razionale per la distribuzione intertemporale di risorse e rifiuti" . L'economia ecologica, allora, non può che chiedere soccorso alle scienze naturali, ma anche all'etica e soprattutto alla politica, nel cui ambito si possono definire scelte dalle implicazioni estremamente complesse, non sempre prevedibili con certezza e tuttavia di straordinaria rilevanza per il futuro dell'umanità. Il compito è particolarmente complesso perché sembra non possa essere di grande aiuto neppure la critica all'economia classica e neoclassica che ha segnato l'intero novecento e che si è proposta come alternativa di sistema al capitalismo: il marxismo e l'economia socialista. Anche il marxismo in ultima analisi considera l'economia come un sistema chiuso i cui attori fondamentali sono gli uomini e i prodotti del loro lavoro. E' pur vero che Marx ha scritto che i fattori elementari del processo di lavoro sono: l'attività personale dell'uomo, ossia il lavoro in sé, l'oggetto di questo lavoro e i suoi strumenti. Tuttavia di questi tre poli del processo produttivo (uomo, natura e attrezzi), l'analisi di Marx considera quasi esclusivamente il primo e l'ultimo. La natura è sostanzialmente ignorata e la sua esistenza è sempre considerata come un dato elementare e invariabile. Il pensiero marxista è incentrato sulla forza lavoro umana come merce soggetta alle leggi del mercato e sul produttore come soggetto dello sfruttamento . In sostanza la contraddizione principale del modo di produzione capitalistico era individuata da Marx fra forze produttive e rapporti sociali di produzione, cioè fra la progressiva socializzazione della vita economica e la spinta di massa al consumo e alla produzione da un canto e la proprietà privata della terra, delle industrie e dei profitti da esse ricavati dall'altro. Lo sfruttamento dell'ambiente naturale e la sua appropriazione da parte dei privati o dello stato non ha ricevuto uguale attenzione. Questo limite teorico del marxismo appare evidente nell'esperienza dei paesi del socialismo reale e nei disastri ecologici provocati da quei sistemi economici (Cernobyl e non solo): la proprietà statale dei mezzi di produzione non ha per nulla rappresentato una garanzia contro lo spreco delle risorse e la distruzione della natura. In verità vi sono stati anche alcuni "eretici" del marxismo che hanno messo in guardia da una lettura linearmente progressista ed evoluzionista della teoria di Marx. Walter Benjamin, in particolare, cogliendo alla radice la tragedia del nazismo e della seconda guerra mondiale, non come "stato d' eccezione" ma come "regola", irride agli oppositori che la affrontavano "in nome del progresso". E aggiungeva: "Non c'è nulla che abbia corrotto i lavoratori tedeschi quanto la persuasione di nuotare con la corrente. Per loro lo sviluppo tecnico era il favore della corrente con cui pensavano di nuotare. Di qui era breve il passo all'illusione che il lavoro di fabbrica, che si troverebbe nel solco del progresso tecnico, rappresenti un risultato politico.Questo concetto volgarmarxistico di ciò che è il lavoro, non si sofferma sulla questione di come il prodotto del lavoro agisca sui lavoratori stessi finché essi non possono disporne: vuol tener conto solo dei progressi del dominio della natura, non dei regressi della società. Esso mostra già i tratti tecnocratici che più tardi s'incontreranno nel fascismo. A questi tratti appartiene anche un concetto di natura che contrasta malauguratamente con quello delle utopie socialiste prequarantottesche. Il lavoro, come ormai viene inteso, ha per sbocco lo sfruttamento della natura, che viene contrapposto, con ingenua soddisfazione, allo sfruttamento del proletariato. Al concetto corrotto di lavoro appartiene, come suo complemento, quella natura che, come ha detto Dietzgen, <è là gratuitamente>" . Riflessioni profetiche, quanto ampiamente ignorate. Più recentemente, alcuni studiosi di formazione marxista hanno cercato di superare questo limite teorico. Da questo sforzo, condotto in particolare da James O'Connor, è nato l'ecomarxismo. Il punto di partenza di questa elaborazione teorica è la contraddizione tra i rapporti di produzione (e le forze produttive) capitalistici e le condizioni della produzione stessa. La cosiddetta "seconda contraddizione" ( la prima è quella classica della teoria marxista poco sopra richiamata). Marx stesso aveva definito tre tipi di condizioni di produzione, senza peraltro svilupparne l'analisi e approfondirne le implicazioni. Il primo tipo riguardava le "condizioni fisiche esterne" o gli elementi naturali, il secondo la "forza lavoro", il terzo le "condizioni comunitarie". Oggi le "condizioni fisiche esterne" emergono sotto forma di variabilità degli ecosistemi, adeguatezza dei livelli atmosferici di ozono, qualità del suolo, dell'aria e dell'acqua ecc.. La "forza lavoro" emerge sotto forma di benessere fisico e mentale dei lavoratori, tipo e livello di socializzazione, tossicità dei rapporti di lavoro. Le "condizioni comunitarie" emergono sotto forma di servizi sociali, infrastrutture . In questo contesto una trasformazione ecologica dell'economia e della società richiede di aggredire come nodo centrale i rapporti sociali di riproduzione delle condizioni di produzione (e cioè lo stato e le istituzioni sovranazionali come strutture responsabili dei rapporti sociali e quindi delle condizioni di produzione; ma anche gli stessi rapporti di produzione in quanto influenti sulla salute mentale e fisica della forza lavoro). Dunque anche per questa via si ritorna comunque alla politica come luogo privilegiato in cui forse è possibile superare i limiti di tutte le teorie economiche rispetto alle tematiche ecologiche, limiti che appaiono ancor più invalicabili quando l'economia si suppone scienza autosufficiente e si rinchiude in un orizzonte crematistico (studio della ricchezza). Da questo punto di vista si avverte allora quanto mai stonato il coro pressoché unanime che negli ultimi tempi si leva da tutte le parti (da Ovest a Est, dal Sud al Nord) ad esaltare il Mercato e le sue mirabili leggi finalmente riconosciute anche dai più riottosi. Mentre, invece, appare su questo punto significativa la riflessione del filosofo Emmanuele Severino che in diversi suoi saggi rileva come il capitalismo si starebbe avviando verso il tramonto proprio perché costretto a darsi un fine diverso dal profitto che è la sua ragion d'essere. E ciò deriva dal fatto che si sta diffondendo nel mondo la consapevolezza che la produzione capitalistica della ricchezza potrebbe portare in breve tempo alla distruzione delle condizioni della vita umana sulla terra. In questa direzione va considerata la ricerca dell'economista italiana Mercedes Bresso che ha tentato, dopo anni di lavoro, una prima formulazione sistematica di un progetto di economia ecologica che raccogliesse i diversi contributi prodotti in giro per il mondo, facendo il punto sullo stato dell'opera e cercando di delineare una prospettiva . Viene qui ripreso il rapporto tra economia ecologica e bioeconomia su cui ha portato per primo l'attenzione il già citato Georgescu-Roegen: applicando all'economia i principi della termodinamica, in particolare il secondo principio, la legge dell'entropia (processo irreversibile della materia/energia da uno stato di ordine ad uno di disordine degradato), viene evidenziato come l'uso di risorse energetiche fossili e minerarie ordinate (ed in generale di risorse non rinnovabili) riduca irreversibilmente le risorse disponibili per il futuro, aumenti cioè l'entropia della terra. Ebbene, l'economia umana dell'era industriale è esattamente nata e fondata sull'uso di energia concentrata, prodotta in milioni di anni dalla terra, cioè di stock di energia, per definizione finiti e che dovrebbero appartenere a tutte le generazioni, non solo degli ultimi due secoli, ma anche dei prossimi millenni. E' un'economia ad alta entropia a differenza di quella preindustriale che utilizzava sostanzialmente un flusso di energia (sole) e che era a bassa entropia. Viene qui posto sul piano teorico il grande problema, che come abbiamo visto, scardina i paradigmi di tutto il pensiero economico precedente. Quindi, rifacendosi all'impostazione dei fondatori della rivista "Ecological Economics", (Costanza, 1989) tre sarebbero le questioni principali su cui occorre lavorare nel rapporto fra sapere economico, sapere scientifico e sapere ecologico: il concetto di limite, la considerazione dell'incertezza, il trattamento della complessità. La Bresso, però, non si sofferma solo sui fondamenti dell'economia ecologica: utilizzando in particolare gli studi di H.E. Daly , cerca di costruire una nuova contabilità economica-ecologica che tenga conto di tutte le "esternalità" da sottrarre in negativo al PIL (ma la questione verrà ripresa in dettaglio più avanti). Bresso conclude con una suggestiva "riflessione per un nuovo inizio": qualità, lentezza e contemplazione sono le nuove parole d'ordine, in particolare "l'economia dello sviluppo sostenibile deve riscoprire e valorizzare la dimensione contemplativa delle relazioni tra gli esseri umani e il mondo" . Sul piano delle proposte concrete vengono offerte alcune indicazioni operative per una politica ecologica, che oggi potremmo definire classiche: le tasse ambientali, diverse forme di incentivi, le ecoetichette o ecolabel, gli ecobilanci e l'Audit o autocertificazione di conformità ambientale...
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