Indicatori del benessere della popolazione: PIL o Capacità di Acquisto?



Vi invio una descrizione del PIL e dell'indicatore alternativo per la misura
del benessere della popolazione, secondo Sarkar.

Saluti

T.Bonotto
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Il PIL Secondo Sarkar.
Domanda: E' più desiderabile un incremento del reddito pro-capite o della
capacità di acquisto?

Risposta: La teoria socio-economica PROUT (Teoria della Utilizzazione
PROgressiva) suggerisce che l'incremento del reddito pro-capite non è un
indice sufficientemente attendibile e scientifico per determinare lo
standard ed il progresso di una particolare unità socioeconomica. Questo
approccio, anzi, è ingannevole e fallace poiché si riferisce ad un semplice
calcolo matematico: il totale delle entrate nazionali divise per il totale
della popolazione. Questo non dà la corretta figura dello standard di vita
della popolazione, di una particolare zona socioeconomica, poiché si
nascondono le disparità economiche. Il reddito pro-capite mostra la media e
non le variazioni della distribuzione della ricchezza. Se si considera anche
l'inflazione, l'attendibilità del reddito pro-capite si riduce
ulteriormente.

Dall'altra invece la 'capacità di acquisto' è l'indice della reale capacità
di una persona di far fronte alle proprie minime necessità. Tutti i
programmi e piani di sviluppo del PROUT devono essere formulati in funzione
dell'aumento della capacità di acquisto della popolazione. II PROUT
sottolinea la necessità di au-mentare la capacità di acquisto della gente.
II PROUT sottolinea l'aumento della capacità di acquisto e non del reddito
pro-capite.
Il reddito pro-capite non è un adeguato indicatore dell'aumento dello
standard di vita della popolazione poiché la gente potrà avere anche un
reddito molto alto ma non necessariamente sufficiente ad acquistare le
minime necessità per vivere. Dall'altra anche se il reddito pro-capite è
basso ma la popolazione ha una capacità di acquisto elevata vive molto
meglio. Perciò la capacità di acquisto e non il reddito pro-capite è il vero
indicatore della prosperità economica. Le necessità di ognuno, devono essere
soddisfatte all'interno del perimetro delle proprie capacità finanziarie o
capacità di acquisto.

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-----Messaggio originale-----
Da: economia-request at peacelink.it
[mailto:economia-request at peacelink.it]Per conto di Andrea Agostini
Inviato: mercoledì 10 novembre 2004 6.48
A: ECONOMIA
Oggetto: la suicida ossessione della crescita


il manifesto - 04 Novembre 2004

.
La suicida ossessione della crescita

Limiti Nessuna crescita del Pil può allargare il benessere globale
ELISABETTA MAGNANI*

L'ipotesi che la crescita economica abbia, prima o poi, un effetto benefico
sull'ambiente, ipotesi ribattezzata tra gli addetti ai lavori come la
«Environmental Kuznets Curve», è di grande interesse per coloro (non ultimi
i nostri politici) che sfruttano l'idea di un'economia in crescita per
nutrire l'immaginario di un mondo trasformato in un'oasi di pulizia. Una
rassegna di recente pubblicata su Ecological Economics (Agosto, 2004, Volume
49, numero 4) rivede questa ipotesi in modo critico. E di spirito critico
c'è effettivamente bisogno visto le recenti esperienze in cui crescita non
ha coinciso né con crescita dell'occupazione (la jobless economy), né
tantomeno con crescita della stabilità dell'occupazione (la diffusione del
precariato), né con mobilità sociale per molte fascie della popolazione
(vista la crescente disuguaglianza economica che ha caratterizzato molte
delle nazioni ricche del pianeta negli ultimi decenni), e neppure con un
miglioramento della qualità della vita, come sostenuto di recente da Daniel
Kahneman, premio Nobel per l'economia nel 2002. Di fatto, alla luce
dell'abbondanza di studi sugli effetti della crescita economica (misurata
sempre e solo in termini di crescita del Pil) sulla qualità ambientale,
questa complessa rassegna di S. Dinda risponde all'esigenza di chiarire i
termini di una questione come quella ambientale che è da tempo entrata nel
dibattito politico (si veda ad esempio la promessa elettorale di firmare il
protocollo di Kyoto del perdente Latham in Australia, e le differenze
annunciate in materia da Kerry e Bush nella campagna elettorale
statunitense). Che crescita economica si accompagni a combiamenti
strutturali tali da migliorare lo stato dell'ambiente, si è incominciato a
parlare nei primi anni '90 in aperta critica a quel Club di Roma che con il
suo «Limits to Growth» aveva espresso, nei primi anni `70, un atteggiamento
fortemente scettico nei confronti di una politica dello sviluppo incentrato
sul concetto di crescita anziché sul concetto di sostenibilità. Di fatto
l'idea di una Environmental Kuznets Curve (EKC), che ipotizza una relazione
tra crescita economica e degrado ambientale crescente prima, ossia per
livelli di Pil relativamente bassi, e decrescente poi, ossia per livelli di
reddito procapite relativamente alti, è stata usata nel corso degli ultimi
anni per sostenere che la crescita economica può essere una cura anziché una
causa dei mali ambientali. Non c'è dubbio che la EKC sia apparentemente un
innocuo artifatto statistico che funziona collassando in una relazione
bidimensionale (appunto quella tra crescita del Pil e emissione di agente
inquinante) un insieme di effetti e contro-effetti tra aspetti diversi sia
del comportamento umano sia dei meccanismi biologici e biopolitici, non per
ultimi la crescita della popolazione. E tuttavia per sfruttare tutte le sue
implicazioni normative, questo risultato statistico, ottenuto applicando
tecniche econometriche su cross sections di paesi diversi osservati in un
medesimo istante temporale, fa uso di assunti a dir poco controversi. Tra
questi l'idea di un sentiero temporale di sviluppo degna dello storicismo
più ortodosso, secondo cui l'esperienza di paesi ricchi (e virtuosi) sarà
seguita dai paesi poveri (e viziosi) non appena questi ultimi raggiungeranno
i livelli di Pil dei primi.

Non c'è bisogno di essere economisti per sostenere che la qualità ambientale
genericamente intesa migliorerà solo se una serie di fattori, non per ultimo
di natura economica, opereranno insieme in modo sinergico. Così non si
tratta solo dell'effetto di composizione del Pil, in altre parole il
passaggio da un'economia agricola (limitatamente inquinante) a una
industriale (fortemente inquinante) a una basata sui servizi (limitatamente
inquinante), ma anche dell'effetto tecnologico della crescita che con
l'utilizzo di tecnologie meno inquinanti vede limitare i danni
potentialmente ingenti dell'aumentato uso di risorse naturali necessario per
aumentare il Pil (l'effetto di scala). Sul trasferimento di tecnologie
pulite dai paesi ricchi ai paesi poveri si concentrano quegli studi che
analizzano l'effetto delle politiche commerciali sull'ambiente. Soumyananda
Dinda efficacemente riassume una serie di contributi su come politiche
commerciali di apertura al commercio estero possono incidere limitando
l'impatto negativo della crescita economica sull'ambiente (appunto il
trasferimento di tecnologie pulite operato per esempio dalle multinazionali)
o esacerbando tale effetto, nei paesi poveri mediante l'effetto di
spiazzamento di attività inquinanti dai paesi ricchi ai paesi in via di
sviluppo, o globalmente, mediante una «race to the bottom» incoraggiata
dalla deregolamentazione dei mercati finalizzata a mantenere sul territorio
nazionale la presenza di attività produttive che seppure inquinanti
producono occupazione. Non meno importanti nello spiegare come all'aumentare
del Pil si possano raggiungere livelli più elevati di qualità ambientale
sono la domanda di qualità ambientale e quegli aspetti instituzionali (ad
esempio la trasparenza sugli effetti degli agenti inquinanti), politici
(regimi effettivamente democratici) e giuridici (l'esistenza di leggi che
limitano la corruzione e sanzionano pene per coloro, persone o imprese, che
inquinano). E visto che siamo noi che domandiamo qualità ambientale (ad
esempio offrendo contributi finanziari a organizzazioni che si occupano
dell'ambiente, o comprando azioni di imprese che non inquinano) il discorso
torna su come, e se, questa domanda aumenti di intensità a mano a mano che
il Pil procapite aumenta, e venga percepito e manipolato dal regime politico
per giustificare o cambiare una data politica di sviluppo.

Purtroppo, e qui sta uno dei limiti concettuali più evidenti dell'ipotesi
della EKC, quali fattori sono veramente in grado di rendere la crescita
economica sostenibile con un miglioramento della qualità dell'ambiente non è
chiaro. Soprattutto non convince l'approccio a problemi ambientali in cui
l'unità di analisi è l'economia nazionale anziché quella globale. Ad esempio
è lecito chiedersi se una EKC davvero esiste per i paesi poveri,
intrappolati dalle regole dell'economia globale nella produzione di prodotti
industriali inquinanti che i paesi ricchi hanno da tempo smesso di produrre
ma non di consumare. Come non è chiaro quanto efficace possa essere una
politica ambientale propinata da un regime politico nazionale, anziché da un
coordinamento di politiche ambientali a livello sovranazionale, quando
l'agente inquinante è, come nel caso del biossido di carbonio (CO2, l'agente
maggiormente responsabile dell'effetto serra), un agente globale. In questi
casi il ruolo di protocolli, quali quello di Kyoto, sono assolutamente
necessari (quando non si limitano a soluzioni basate sulle solite regole di
mercato come i carbon credits) e nessuna crescita economica per se sarà
sufficiente a salvare il pianeta da disastri ecologici.

E se poi dopo tanti casi studiati (con diversi agenti inquinanti, diversi
paesi, diversi regimi politico-istituzionali) ci rendiamo conto che una
svolta virtuosa verso il tratto decrescente della EKC puòessere troppo
lontano o addirittura non esistere, forse sarebbe bene cominciare a
immaginare un modo di governare la società liberato dall'assillo
dell'espansione, della crescita, dell'aumento del Pil.

*School of Economics, University of New South Wales, Sydney




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