i diritti che hanno cambiato il mondo



da repubblica.it
27 Ottobre 2004

I nuovi diritti che hanno cambiato il mondo
di Stefano Rodotà

Questa è una convinta e dichiarata apologia dei diritti in un tempo in cui
l´allungamento del loro catalogo suscita pure diffidenze, e persino ripulse:
perché di essi potrebbe farsi un uso imperialistico, imponendo ad altri una
cultura dominante; perché l´irrigidimento di dinamiche sociali nello schema
dei diritti potrebbe tradursi in un ostacolo alla libera azione politica;
perché non dovrebbero chiudersi in gabbie giuridiche prorompenti esigenze di
vita; o perché, al contrario, il riconoscimento di un diritto potrebbe
contrastare inviolabili leggi di natura. Ma la realtà, la cronaca d´ogni
giorno parlano piuttosto di violazioni gravi e continue di diritti, e di
invocazioni dei diritti come strumenti di liberazione individuale e
collettiva. Proprio da qui partono le mie considerazioni apologetiche,
temperate dal necessario spirito critico.
Così, un´espressione come «nuovi diritti» dev´essere considerata, a un
tempo, accattivante e ambigua. Ci seduce con la promessa di una dimensione
dei diritti sempre capace di rinnovarsi, di incontrare in ogni momento una
realtà in continuo movimento. Al tempo stesso, però, lascia intravedere una
contrapposizione tra diritti vecchi e diritti nuovi, come se il tempo
dovesse consumare quelli più lontani, lasciando poi il campo libero ad un
prodotto più aggiornato e scintillante. Si parla di «generazioni» dei
diritti, e questa terminologia, identica a quella in uso nel mondo dei
computer, potrebbe indurre a ritenere che ogni nuova generazione di
strumenti condanna all´obsolescenza e all´abbandono definitivo tutte le
precedenti.
Ma il mondo dei diritti vive di accumulazione, non di sostituzioni, anche se
la storia e l´attualità sono fitte di esempi che mostrano come programmi
deliberati di mortificazione della libertà passino proprio attraverso la
contrapposizione tra diverse categorie di diritti. Se ne enfatizzano alcune,
per cancellare tutte le altre. Le dittature concedono vantaggi materiali e
sopprimono diritti civili e politici, prospettano uno scambio tra qualche
«nuovo» diritto sociale e i «vecchi» diritti di libertà: questi sarebbero un
insostenibile lusso quando vi sono bisogni elementari da soddisfare.
E così i regimi autoritari si trincerano dietro la logica cinica, e
disperata, che nell´Opera da tre soldi di Bertolt Brecht fa dire a Mackie
Messer «prima la pancia, poi vien la morale».
Ai diritti, vecchi o nuovi che siano, non si può dunque guardare senza una
continua attenzione per le condizioni storiche che ne condizionano il
riconoscimento e l´attuazione. Norberto Bobbio ce lo ha ricordato infinite
volte, con parole forti, perché ai diritti si addice il linguaggio della
passione civile. «L´attuazione di una maggiore protezione dei diritti
dell´uomo è connessa con lo sviluppo globale della civiltà umana. E´ un
problema che non può essere isolato sotto pena non dico di non risolverlo,
ma neppure di comprenderlo nella sua reale portata. Chi lo isola lo ha già
perduto. Non si può porre il problema dei diritti dell´uomo astraendolo dai
due grandi problemi del nostro tempo, che sono i problemi della guerra e
della miseria, dell´assurdo contrasto tra l´eccesso di potenza che ha creato
le condizioni per una guerra sterminatrice e l´eccesso d´impotenza che
condanna grandi masse umane alla fame».
Questa è ancora oggi la condizione nella quale guardiamo ai diritti. La
guerra è sempre stata considerata come una situazione che legittima
sospensioni di molti diritti. Ma che cosa accade quando la guerra si fa
«infinita»? Diventano infinite anche le limitazioni dei diritti? La miseria
è sempre stata percepita come l´impedimento maggiore all´effettivo godimento
dei diritti. Ma che cosa accade quando essa non è più intesa come un
ostacolo da rimuovere, bensì come la giustificazione della negazione di un
diritto - del bambino a non lavorare, del lavoratore a non essere
sfruttato - con l´argomento che, altrimenti, si colpirebbe la competitività
dei paesi in via di sviluppo? Non a caso si è parlato polemicamente di un
«imperialismo dei diritti umani», al quale i paesi avanzati farebbero
ricorso proprio per limitare la forza economica dei concorrenti.
Mentre parliamo di nuovi diritti, dobbiamo fare i conti con una
contraddizione inedita. Guerra e povertà ci parlano di un consolidamento
della negazione dei diritti. Le pacifiche rivoluzioni di questi anni - delle
donne, degli ecologisti, della scienza e della tecnica - ci mettono di
fronte ad una fortissima espansione della categoria dei diritti, ad un
allungamento del loro catalogo.
Come si compongono queste spinte? Quale età dei diritti ci avviamo a vivere?
Non sempre i nuovi diritti sono benvenuti. Ad alcuni si guarda come ad una
inammissibile violazione della natura. Ad altri come ad un intollerabile
intralcio al libero funzionamento del mercato. Il campo di battaglia, che lo
sguardo presago di Alexis de Tocqueville aveva individuato nel diritto di
proprietà ancor prima di Marx, si estende oggi fino a comprendere l´intero
ambiente e la stessa vita, in un mondo che esige sempre più d´essere
considerato come uno. Davanti a noi si prospettano alternative radicali.
Globalizzazione attraverso il mercato o attraverso i diritti? Quali sono i
diritti destinati ad unificare il mondo, e che devono essere considerati
patrimonio inalienabile della persona, quale che sia il suo sesso, la sua
nazionalità, religione, origine etnica?
Il millennio si è aperto con un fatto che può essere considerato simbolico -
la proclamazione della Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea,
il primo documento dove diritti vecchi e nuovi convivono senza gerarchie.
Nella Carta non si riflette soltanto la forte tensione che in questi anni ha
attribuito ai diritti fondamentali una rilevanza senza precedenti. Si
manifesta soprattutto la convinzione della impossibilità di una costruzione
istituzionale che prescinda dalla dimensione dei diritti. Lo dice con
chiarezza la motivazione con la quale l´Unione europea ha deciso di darsi
una dichiarazione dei diritti: «la protezione di diritti fondamentali è un
principio fondativo dell´Unione e il presupposto indispensabile della sua
legittimità» E´ una affermazione impegnativa. Si dice che l´Unione europea
non soffre soltanto di un deficit di democrazia, ma addirittura di
legittimità, che può essere colmato soltanto da un documento che segni
esplicitamente il passaggio da un´Europa fondata soprattutto sul mercato ad
una in primo luogo ancorata ai diritti (?)
Forse bisogna partire proprio da qui, dai modelli di organizzazione sociale
dei diritti , per cogliere le ragioni di dissonanze che, nel tempo, si sono
fatte più marcate ed evidenti. Si è via via delineato un modello europeo,
reso possibile dalla presenza di un nuovo soggetto storico, la classe
operaia, che ha completato la rivoluzione dei diritti realizzata tra ´700 e
?800 dalla borghesia, aprendo la strada a una visione dei diritti che,
soprattutto nei rapporti economici, incorporava anche una funzione sociale.
La diversa vicenda storica degli Stati Uniti, dove il peso della classe
operaia non è stato certo paragonabile a quello europeo, ha fatto sì che
l´idea individualistica dei diritti rimanesse l´unica o, comunque, quella
prevalente. Con due conseguenze. Considerati come strumenti da usare nel
proprio esclusivo interesse, senza considerare esplicitamente quello altrui
o quello collettivo, i diritti vengono sempre più adoperati in modo
aggressivo, determinando una loro «insularità». Ciascuno si separa dagli
altri, si ritira nella propria isola, impugna i diritti come una clava: e
questo spinge più d´uno negli Stati Uniti, con qualche scimmiottatura
europea, ad affermare che non nei diritti, ma nella comunità, risiede
l´unica salvezza per le persone. Inoltre, le crescenti pressioni del mercato
hanno spinto verso una considerazione dei diritti come puri titoli da
scambiare, indebolendo il profilo della loro inviolabilità. Tener fermo il
modello europeo, quindi, significa proporre un´idea più ricca dei diritti
sia nella dimensione individuale che in quella sociale.
La seconda rottura, altrettanto radicale, è determinata dalle pacifiche
rivoluzioni del Novecento - delle donne, degli ecologisti, della scienza e
della tecnica. La libertà concreta s´incarna nella differenza sessuale,
nell´attenzione per il corpo, nel rispetto per la biosfera, nell´uso non
aggressivo delle innovazioni scientifiche e tecnologiche. Tutto questo ha
prodotto la più intensa esplosione di richieste di riconoscimento di diritti
che mai sia stata conosciuta. Essi coprono tutto l´arco della vita - la
nascita, l´esistenza, la morte - e, anzi, si spingono al prima e al dopo.
Si parla di un diritto di procreare o di un diritto al figlio; del diritto
di nascere e del diritto di non nascere; del diritto di nascere sano e del
diritto di avere una famiglia composta da due genitori di sesso diverso; del
diritto all´unicità e del diritto ad un patrimonio genetico non manipolato.
Andando avanti ci si imbatte nel diritto a conoscere la propria origine
biologica e nel diritto all´integrità fisica e psichica; nel diritto di
sapere e di non sapere; nel diritto alla salute e alla cura, e nel diritto
alla malattia o nel diritto a non essere perfetto, con i quali si vuole
sottolineare l´inaccettabilità di parametri di normalità, l´illegittimità di
discriminazioni o di stigmatizzazione legate alle condizioni fisiche o
psichiche. Infine, diritti dei morenti, diritto di morire con dignità,
diritto al suicidio assistito. Se, poi, si guarda alla fase precedente alla
nascita, si trovano i diritti sui gameti, i diritti dell´embrione, i diritti
del feto. E, dopo la morte, rimane aperta la questione dei diritti sul corpo
del defunto, soprattutto nella prospettiva dell´espianto di organi.
Sulla scena del mondo compare così una nuova rappresentazione dei diritti,
nella quale la vita vera fa sentire le sue ragioni e il corpo irrompe con
tutta la sua fisicità, facendo apparire sbiadita una dimensione dei diritti
riferita unicamente ad un soggetto astratto, ad un individuo disincarnato.
Ma queste due diverse visioni possono comporsi se si guarda alla persona
nella sua realtà e integralità, come fa la Carta dei diritti fondamentali
dell´Unione europea. Nel suo Preambolo si afferma appunto che l´Unione «pone
la persona al centro della sua azione». (?)
Questo processo ha via via fatto emergere una persona «inviolabile», da
rispettare in ogni momento e in qualsiasi luogo. I diritti penetrano anche
nelle istituzioni «totali», - il manicomio, il carcere - e non solo
restituiscono almeno un brandello di dignità a chi è costretto a vivere in
quei luoghi, ma riescono addirittura a metterne in discussione l´esistenza.
I diritti dei folli scardinano la logica della separazione che giustificava
i manicomi, e la predicazione e l´azione di un tenace visionario, lo
psichiatra Franco Basaglia, sono all´origine di una legge che ne decreta
l´abolizione.
I diritti, prima distribuiti tra le «generazioni» che ne scandivano
l´origine storica, si riunificato così intorno alla persona e si presentano
come indivisibili: non si possono riconoscere i diritti civili o politici e
negare quelli sociali o quelli «nuovi», e viceversa. Se si seguono i titoli
delle diverse parti della Carta dei diritti fondamentali dell´Unione
europea, si può cogliere il filo che li lega tutti: dignità, libertà,
eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia. Sono i valori che
definiscono la posizione di ciascuno, ma pure le modalità del processo
democratico. Neppure questo può essere indifferente alla concreta situazione
delle persone. Il riconoscimento per tutti del diritto di voto libero ed
eguale non può fare astrazione dalle condizioni materiali in cui viene
esercitato. Istruzione, lavoro, abitazione diventano così precondizioni
della partecipazione effettiva dei cittadini, dunque della stessa qualità
della democrazia.
Ma accanto ai diritti dei singoli compaiono con forza crescente grandi
diritti collettivi e, con essi, nuovi soggetti ai quali far riferimento. Qui
il catalogo si arricchisce con inediti tratti di novità. Incontriamo i
diritti dei popoli all´autodeterminazione, alla loro lingua, alla libera
gestione delle loro risorse; il diritto alla tutela dell´ambiente, che
richiama la necessità di uno sviluppo sostenibile; il diritto al cibo, che
diventa diritto alla vita per intere popolazione prigioniere del dramma
della fame; il diritto alla conoscenza, che mette radicalmente in
discussione la logica proprietaria, il copyright e il brevetto, si tratti di
assicurare le medicine agli africani malati di Aids o scaricare liberamente
musica da Internet. Compare il diritto di ingerenza umanitaria, suscitando
il timore che si tratti di un nuovo travestimento del diritto del più forte.
Su tutti si staglia, difficilissimo ma ineludibile, il diritto alla pace.
Sono tutti diritti fortemente «oppositivi» rispetto all´ordine ed alle
logiche prevalenti, proiettati verso il futuro e nei quali si coglie una
deliberata, e persino smisurata, ambizione di ridisegnare le coordinate del
mondo. Indicano la necessità di creare spazi e beni comuni, ai quali tutti
possano liberamente accedere, ponendo il tema delle modalità di
distribuzione dei beni: attraverso il mercato o attraverso i diritti? E
danno così evidenza anche a contraddizioni profonde: come risolvere, ad
esempio, il conflitto tra un paese che, esercitando insieme il diritto alla
libera gestione delle proprie risorse e quello alla sopravvivenza dei
cittadini, distrugge risorse naturali che, come le grandi foreste,
contribuiscono all´equilibrio ecologico dell´intero pianeta?
A quali soggetti sono riferibili questi diversi diritti? Tornano qui entità
astratte e disincarnate: l´umanità, le generazioni future, la natura, il
mercato. Ma chi parla in nome dell´umanità e delle generazioni future? Quale
peso dev´essere attribuito alle leggi della natura e del mercato? Dopo che
la conquistata concretezza della persona aveva reso immediatamente
identificabili gli attori della vicenda dei diritti, si fa concreto il
rischio di lasciar spazio a logiche autoritarie, a soggetti che si
appropriano del potere di rappresentare l´umanità o la natura.
Il riferimento alle generazioni future non è una invenzione dei tempi
nostri. Nella Costituzione francese del 1793 si dice esplicitamente che «una
generazione non ha il potere di assoggettare alle proprie leggi le
generazioni future». Questa limitazione di potere si traduce in una più
diretta assunzione di responsabilità verso il futuro nel suggestivo detto
degli indiani d´America: «non abbiamo ricevuto la terra in eredità dai
nostri padri, ma in prestito dai nostri nipoti».