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utopia e sviluppo sostenibile
- Subject: utopia e sviluppo sostenibile
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Wed, 7 Jul 2004 07:17:31 +0200
da avvenire.it 12 SETTEMBRE 2002 LUIGI DELL'AGLIO L'utopia al naturale La salute del pianeta Terra: molti gli interrogativi ancora aperti dopo la conclusione del vertice delle Nazioni Unite. "Serve uno spirito di solidarietà nei confronti degli altri Deve crescere in tutti la consapevolezza del limite". Parla Giorgio Nebbia "Uno sviluppo sostenibile, che pensi realmente alle generazioni future, è davvero difficile da attuare. Più che dei consumi la nostra è una società dei rifiuti" "Non date retta a chi vi dice che le cose importanti sono i soldi", scrive Giorgio Nebbia aprendo il suo saggio dal titolo Le merci e i valori. Per una critica ecologica al capitalismo, edito da Jaca Book, con il sostegno di Alce nero e della fondazione Luigi Micheletti. Nel libro, l'autore smonta alcune idee radicate nella cultura di transizione tra i due secoli, e che lui - invece - ritiene pie illusioni, anzi: sfacciate finzioni. Ma soprattutto combatte una distorta definizione di sviluppo, che non è stata corretta neanche dalla recente conferenza dell'Onu a Johannesburg. Per quante ragioni è deluso dal vertice? "Per tante. Sono decenni che l'Onu ripete: occorre cambiare i modelli di produzione e di sviluppo. E aggiunge: ci vogliono acqua, alimenti, salute, invece di alluvioni e siccità. La conferenza di Johannesburg doveva tracciare le strade giuste per arrivare. Non è avvenuto. Ma, se si continua così non solo non avremo sviluppo economico o umano. Non potremo evitare violenza e conflitti. Altro che "sviluppo sostenibile"!". Lei contesta anche questo concetto di sviluppo. "Nel gran chiacchiericcio, non si è tenuto conto della definizione data dalla Populorum progressio: "Il fine ultimo e fondamentale dello sviluppo non consiste nel solo aumento dei beni prodotti; economia e tecnica non hanno senso che in rapporto all'uomo che esse devono servire". Un'altra ragione di scontentezza? Abbiamo detto sempre che è la pace il vero nome dello sviluppo. A Johannesburg non si è fatto nessun passo, neanche piccolo, neanche a parole, sulla via della pace e del disarmo (specialmente nucleare)". Ma perché lei stronca lo sviluppo sostenibile? "Non prendiamoci in giro. Uno sviluppo sostenibile non esiste. Come non esiste l'altro traguardo c he viene sempre sbandierato: l'automobile, il bus o l'impianto industriale a emissioni zero". Pura utopia? "No, grandissima ipocrisia. Sostenibile è uno sviluppo che pensi realmente alle generazioni future: ma lo sviluppo sostenibile, così come viene inteso oggi, non può portarci da nessuna parte. Semmai bisognerebbe parlare di sviluppo "non insostenibile"". Le case automobilistiche giurano che una vettura di oggi è cento volte meno inquinante di una vettura degli anni '60. "Ci sono due considerazioni da fare. Prima: il numero delle auto cresce a dismisura, e perciò è pura chimera pensare a un parco mondiale delle auto che sia pulito. Seconda: l'industria non fa che alimentare il desiderio di auto sempre più dotate e costose, trasformandolo in un bisogno primario". E allora? "Bisogna eliminare la confusione tra sviluppo e crescita. Sono due cose diverse. Sviluppo umano significa certamente liberazione dai bisogni, salute, maggiore realizzazione, libertà. I beni materiali servono: non c'è dignità se si vive in promiscuità, non si è liberi se si muore di fame". Lei abbatte anche il concetto della "società dei consumi"... "Non siamo una società dei consumi. Noi prendiamo dalla natura materie prime, oggetti, merci, ma non le consumiamo affatto, le usiamo e poco dopo le rispediamo alla natura. Ma alla natura i beni non tornano così com'erano in partenza. Questo è il problema. Ogni bene torna modificato chimicamente e finisce per modificare la natura che lo riceve. Esempio: gli esseri viventi prendono ossigeno dall'atmosfera e glielo restituiscono trasformato in anidride carbonica. Se aggiungiamo tutta l'anidride carbonica prodotta dai motori e dalle industrie, alla fine la natura che la riceve risulta profondamente modificata, talvolta in maniera molto grave. Al punto che avvengono mutamenti climatici come quelli cui assistiamo. Siamo dunque una società di rifiuti, non di consumi". In una società dei rifiuti regna la violenza delle merci, come lei la chiama. "Violenza nei confronti della natura ma anche degli altri esseri umani. La natura è la fonte della vita per il prossimo. Se, con l'anidride carbonica modifico la composizione chimica dell'atmosfera, uso violenza anche a chi verrà su questo pianeta fra 50 o 100 anni, cioè al mio prossimo del futuro. L'economia non violenta è un'altra cosa. Io sostengo che ci si possa nutrire tutti attingendo al paniere della natura. Ma in quale misura possiamo usare quei beni (che sono limitati), per soddisfare i bisogni dei Paesi industrializzati, di quelli emergenti e di quelli che non hanno nulla? Tutti prendiamo dallo stesso canestro di pane; se io porto via dieci pezzi e agli altri ne lascio uno, compio una violenza. Allora non posso dire che amo lo sviluppo sostenibile". Asia e Africa, per stare un po' meglio, dovranno necessariamente sacrificare beni naturali allo sviluppo di quella che lei chiama la tecnosfera. Come conciliare il diritto allo sviluppo con la salvezza del pianeta? "Non è detto che la somma felicità sia possedere due frigoriferi". Ma i cinesi, per esempio, vorranno averne almeno uno, giustamente. E per darglielo, sottolinea qualcuno, bisognerà produrre e inquinare. "Ma dobbiamo rivedere tutti i modelli di consumo, di smaltimento dei rifiuti, le tecnologie. Tenendo conto che le risorse della natura non sono infinite". Circola una domanda odiosa: è giusto dare le costosissime super-auto del XXI secolo a ognuno degli abitanti della Cina che sono già oggi un miliardo 300 mila? "Dobbiamo rispondere a un'altra domanda che riguarda non solo il mercato cinese ma quello di tutto il mondo. E la risposta è il technology assessment. La tecnologia può tirarci fuori da tante strettoie. Qui si tratta di esaminare la realtà caso per caso. Faccio un esempio. È proprio necessario produrre più acciaio per produrre più autovetture? Ed è necessario produrlo nella stessa maniera in cui noi l'abbiamo prodotto finora? Si possono riciclare materiali. Da 60 anni si riutilizzano i rottami di ferro. Ora si dovrebbe riciclare benissimo la plastica. E non è tutto. Oggi, se va in frantumi il cristallo anteriore della mia vettura, debbo avere la fortuna di trovare un'altra vettura uguale alla mia: nessun parabrezza si adatta a una macchina di tipo diverso. Ecco, si potrebbe introdurre una standardizzazione: produrrebbe enormi economie di scala e avrebbe una motivazione etica". Che cosa suggerisce alfine? "Il coraggio, la visione, e (anche se l'espressione può oggi apparire obsoleta) uno spirito di solidarietà con gli altri. Quando mi assicuro certi consumi, anche essenziali, debbo ricordarmi che sono legato a un numero infinito di persone. Deve crescere la consapevolezza del limite".
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