urbanistica il grattacielo che sepellì gli idealisti



il manifesto - 12 Giugno 2004


POBLE NOU
Il grattacielo seppellì gli idealisti
«Barcellona fatti bella» è la parola d'ordine con cui si trasforma la città
Cancellando luoghi, storie e memoria di un vecchio quartiere che sognava una
nuova società

STEFANO PORTELLI

«Nella parte del distretto di Sant Martí più vicina al mare, fondarono un
quartiere degli idealisti che aspiravano a creare una nuova società. Il nome
'Pueblo Nuevo' quindi non si riferisce a un nuovo nucleo urbano bensí a una
nuova società» (J. Amadés, Escursione leggendaria per la piana di
Barcellona, 1935). Il quartiere chiamato «Poble Nou», sul litorale nord di
Barcellona, visse i suoi momenti di gloria tra fine `800 e inizio `900,
quando la Catalogna e Barcellona in particolare erano referenti
internazionali delle «nuove idee» del socialismo utopico e dell'anarchismo.
Era un quartiere operaio e industriale, soprattutto tessile. Venne chiamato
la «Manchester catalana» e fu centro nevralgico insieme
dell'anarco-sindacalismo della Cnt e dell'indipendentismo catalano, due
tendenze da sempre opposte ma che trovarono nel franchismo un nemico comune.
Per questo, durante la guerra, il Poble Nou fu duramente castigato, con
pesanti bombardamenti e ondate repressive, che però ebbero l'effetto
collaterale di far crescere ancora di più il senso di identità ribelle del
quartiere.

Utopia in laguna

In alcuni nomi di strade o di piazze rimangono delle tracce di quando in
questa zona non c'erano che paludi malariche (c'è una fermata della
metropolitana che si chiama Llacuna); in una zona così malsana e
inabitabile, le autorità cittadine lasciarono che gruppi di utopisti
fondassero le loro comunità sperimentali. Una strada porta il nome di
Avenida Icària, dall'Icaria utopica immaginata da Etienne Cabet a metà
Ottocento: così avrebbe dovuto essere il Poble Nou, «una società
egualitaria, dove libertà, uguaglianza e fraternità non vigevano solo
nell'ambito politico, ma anche nell'ambito economico. Una società in cui
nessuno viveva oziosamente o di rendita, in cui tutti contribuivano alla
comunità a partire dalle abilità di ciascuno, in cui non esistevano servi,
in cui il lavoro era piacevole e tutti avevano abbastanza tempo libero per
dedicarsi ai propri interessi; il tutto grazie alla bontà umana e
all'applicazione delle nuove tecnologie».

Poi, però, le fabbriche cominciarono a spostarsi più lontano; soprattutto
nei paesini del circondario, che crebbero fino a cingere Barcellona con un
cinturone industriale tra i più attivi e produttivi di Spagna. E gli
scheletri della Manchester catalana di inizio secolo rimasero abbandonati
lì, nel Poble Nou, per decenni, con le loro ciminiere di mattoni ancora
solide, a poche centinaia di metri dal mare. Nessuna riabilitazione, nessun
recupero, solo degrado. Di tanto in tanto qualche gruppo di gitani o
immigrati occupavano gli spazi abbandonati per ripararsi o per fermarcisi a
vivere. Il Poble Nou sopravviveva con officine, imprese di trasporti e
magazzini; un'epoca di discoteche underground durante gli anni Ottanta
ravvivò per un po' la vita dei vecchi abitanti del quartiere, che
convivevano con i relitti delle fabbriche in cui la maggior parte di loro
aveva lavorato per una vita.

Venne il `92, le Olimpiadi e il recupero del litorale. Spuntarono due
grattacieli, due torri gemelle proprio al limite del quartiere e nel giro di
pochi anni, il porto di Barcellona si trasformò: da una zona malfamata e
pericolosa, che la maggior parte dei barcellonesi stentano quasi a
ricordare, diventò Maremagnum (un centro commerciale), spiagge alla moda,
discoteche per turisti e porto sportivo per gli yacht.

Poble Nou, a pochi chilometri di distanza, rimaneva in attesa, silenzioso,
come se le ombre dei due nuovi grattacieli che si stagliavano scintillanti
di fronte al mare già stessero avvisando che non sarebbe durato ancora per
molto.

Si sapeva che il progresso sarebbe arrivato anche lì; ma nessuno immaginava
che l'impatto della «riqualificazione» sarebbe stato così duro. Più che di
una riqualificazione si trattava di una colonizzazione. Un recupero, ma non
per gli abitanti del quartiere: la riqualificazione del Poble Nou fu il
recupero, da parte delle classi dirigenti e degli speculatori urbanistici,
di un'enorme zona ancora «popolare» accanto al centro della città.

Il comune decise di trasformare radicalmente il quartiere, abbattere le
fabbriche, espellere gli abitanti e fare del Poble Nou una zona di rilancio
della città come centro nevralgico delle nuove tecnologie, monopolizzando i
terreni, privatizzandoli e vendendo il quartiere a multinazionali straniere.
Senza alcuna preoccupazione per i suoi abitanti, abbandonati al loro destino
nelle mani invisibili del liberalismo.

Il simbolo fallico

All'inizio del 2002, in plaza de les Glòries comincia a sorgere un nuovo
grattacielo. Man mano che prende forma, con l'avvento del 2004, è sempre più
chiaro il valore simbolico della sua forma. La gente dice che sembra un
missile, una supposta, un razzo, o che è un progetto innovativo; ma tutti
vedono che è un fallo, eretto in mezzo ai palazzi, simbolo del potere che si
dispiega vittorioso finalmente anche su questa parte della città. Come
funghi cominciano a sorgere i nuovi edifici: bianchi, squadrati, puliti,
alberghi a quattro stelle o sedi di multinazionali tecnologiche. Indra,
T-Systems, General Electrics, una a una comprano i territori che erano le
fabbriche del Poble Nou, trasformando il quartiere in una sorta di Silicon
Valley mal pianificata, in cui tra un edificio nuovo e l'altro spuntano una
vecchia ciminiera di mattoni, o un palazzo cadente abitato da gitani. C'è
chi regge qualche mese in più, chi riesce ad arrivare a un anno: ma poco a
poco migliaia di famiglie del Poble Nou sono costrette a vendere, o a
rinunciare ai loro affitti bloccati e accettare in fretta e furia condizioni
che il comune non mette mai in chiaro del tutto.

Chissà se qualcuno un giorno riuscirà a mettere insieme i pezzi e
ricostruire le storie nascoste dietro questa «riqualificazione»,
raccogliendo le testimonianze sparse delle oltre 1200 famiglie costrette ad
abbandonare le loro case e degli oltre 1000 piccoli esercizi commerciali
costretti a chiudere o a vendere. Basta fare un giro per il quartiere,
cercare di uscire dai circuiti «ripuliti» che già sono stati tracciati in
mezzo al Poble Nou, lasciare la grande avenida Diagonal che scende giù fino
al mare, attorniata di centri commerciali rilucenti e alberghi appena
inaugurati, e infilarsi per le vecchie strade del quartiere; in cui dietro
ai pannelli propagandistici delle imprese immobiliari, si vedono i cumuli di
macerie o le scavatrici all'opera. A volte si stenta a credere alle storie
che racconta la gente: le scavatrici che arrivano la mattina senza avvisare,
gli agenti immobiliari che si presentano con il contratto in mano
accompagnati dalla Guardia Urbana, pressioni e intimidazioni in stile
mafioso, accampamenti gitani smantellati dalla sera alla mattina, fabbriche
abbattute con gli immigrati che ancora ci vivono dentro, case occupate
sgomberate senza ordine di sgombero. Tutto è dettato dalla fretta, il Poble
Nou è l'ultima fetta di torta che rimane in città, non c'è tempo da perdere.

L'ultima beffa

Presto non si chiamerà più neanche Poble Nou: il nuovo nome, e il nuovo
volto del litorale nord di Barcellona, avrà un nome che sembra un insulto
alla storia della città. Si chiamerà - se questo sarà mai un nome - 22@.
Sembra un'ultima beffa, dopo la repressione militare e il franchismo; ora
tocca all'amministrazione progressista spazzare via gli ultimi residui di
vita del quartiere, dare il colpo di grazia storico alle utopie della «Nuova
Icaria». E' il progresso.

Speculazione di sinistra

Il comune, di sinistra (Partido socialista, Esquerra republicana de
Catalunya, Iniciativa-Verds), non solo non difende gli abitanti del
quartiere, ma specula anch'esso sulla riqualificazione. Moltiplica i
benefici che ricava da soldi pubblici, da terreni pubblici, dalla
privatizzazione, dalla vendita all'asta del quartiere. La Rambla del Poble
Nou è tappezzata di cartelli come «Vogliamo continuare a vivere in Poble
Nou» o «No al 22@». La lotta contro la speculazione urbanistica diventa una
lotta contro l'amministrazione comunale, nella quale stanno unendosi gli
indipendentisti catalani, gli anarchici delle case occupate e dei sindacati;
per una volta, sembrano coincidere le proteste degli anziani, costretti a
passare una vecchiaia sotto ipoteca dopo una vita di lavoro e di lotte, e
dei giovani, che cercano l'indipendenza dalla famiglia in un contesto in cui
gli affitti sono cresciuti di 5 volte in 5 anni, mentre terreni e edifici
del loro quartiere sono comprati dalle stesse multinazionali che
riforniscono l'esercito statunitense in Iraq. E intanto, il comune insiste
con la promozione del fastoso «Forum universale delle Culture», sei mesi di
spettacoli e dibattiti proprio al confine con il Poble Nou. Miliardi
pubblici per un evento che la maggior parte dei barcellonesi ancora non ha
capito cosa sia.

Un'enorme area di costa chiusa da un recinto; un'isola artificiale con un
nuovo porto sportivo, a pochi chilometri dal porto vecchio; edifici
avanguardistici tirati su in fretta e furia; un enorme dispiegamento
pubblicitario, il tutto ammantato di grandi discorsi sulla pace e il dialogo
che non riescono a nascondere la realtà: l'unica cosa che conta è la
speculazione urbanistica - e il prezzo del biglietto d'accesso al Forum,
impraticabile per le famiglie del Poble Nou.

Quello che spesso non si dice è che la zona che da quest'anno si chiamerà
Forum 2004 (fino al prossimo grande evento), prima si chiamava in un altro
modo. Era il Camp de la Bota, dove venivano fucilati i condannati a morte
durante il franchismo. Dal `39 al `54, qui vennero uccise 1619 persone,
principalmente repubblicani e oppositori politici. Fino all'anno scorso
c'era una lapide, datata 1992, che diceva: «Che i miei anni di gioia
ricomincino/ senza cancellare le cicatrici dello spirito/ O padre della
notte, del mare e del silenzio/ io voglio la pace, ma non voglio l'oblio».
Per celebrare il Forum delle Culture, hanno dovuto togliere la lapide.