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come salvare il capitalismo dagli economisti
- Subject: come salvare il capitalismo dagli economisti
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Thu, 17 Jun 2004 06:56:05 +0200
dal corriere.it lunedi 8 giugno 2004 Salvare il capitalismo dagli economisti Smettiamola di scimmiottare modelli altrui. Nell'industria italiana la famiglia ha un futuro, il familismo no. Vedi Fiat Si vanno moltiplicando i libri che si prefiggono di «salvare» il capitalismo. Ma dopo Braudel e Cipolla bisognerebbe avere un po' di cautela nell'uso di questo termine così ambiguo e indefinito. Così come bisognerebbe fare qualche distinzione tra capitalismo, economia di mercato, sistema della libera impresa che, invece, vengono normalmente utilizzati come sinonimi. Non so se il moltiplicarsi di questi libri sia un segnale buono o cattivo. Ma certamente, anche quando sono criticabili, ci aiutano a riflettere sullo stato di salute della nostra economia. Tra questi un libro certamente vivo, schietto, tagliente e gradevole da leggere è quello di Claude Bébéar , il creatore del grande gruppo assicurativo Axa, dal titolo: «Uccideranno il capitalismo». Chi sono questi sabotatori del capitalismo? L'elenco è lungo: gli imprenditori senza scrupoli; i manager ossessionati dall'arricchimento personale e da un sistema che premia i risultati a breve; le banche d'affari interessate solo alle provvigioni e che propongono operazioni industrialmente insensate; gli istituti di credito soffocati da inestricabili conflitti di interesse, privi di rispetto per il mercato e per i loro clienti risparmiatori; le società di revisione appiattite su una revisione meccanica e formalistica; le società di rating campioni di inaffidabilità; i gestori di fondi schiacciati su impropri modelli statistico-matematici; gli avvocati d'affari «professionisti dell'assillo e del ricatto giuridico»; i presidenti superstar, veri e propri soldati di ventura. Responsabilità e fiducia Insomma tutti coloro che agiscono senza responsabilità perché «senza responsabilità non c'è fiducia». Bébéar è uomo di grande esperienza che conosce dall'interno la vita economia e delle imprese. Per questo si ribella, con ragionevole spregiudicatezza, ad alcune pericolose formule alla moda, che tutti ripetono meccanicamente sino a farle diventare giaculatorie. Sul mercato, ad esempio: «Io non credo per niente al mercato; il mercato ragiona a breve. Quando si realizza un'operazione, raramente il mercato ha una reazione positiva. Di solito si dice che il mercato ha sempre ragione, ma è falso. Il mercato ha praticamente sempre torto». E sulle società di rating: «Sono profondamente scioccato dalla cieca fiducia di cui godono le agenzie di rating. In fondo la comunità finanziaria subappalta loro una parte consistente del lavoro tradizionale del banchiere che un tempo si svolgeva attorno a questa domanda fondamentale: si può o no prestare denaro a questa impresa e a quale prezzo?». E sul mito dell'amministratore indipendente: «Il concetto di "amministratore indipendente" mi sembra piuttosto ideale. Un amministratore dev'essere competente, coscienzioso, e coraggioso. E' questo che conta, non altro». Bébéar ritiene che per il capitalismo sia giunto uno di quei momenti in cui è necessario ripulire i meccanismi principali. Se l'analisi è corretta, la terapia suggerita è, però, debole. Non solo perché la terapia è sempre, almeno in economia, più difficile dell'analisi. Ma anche perché Bébéar non ha la profondità culturale necessaria per affrontare la questione centrale delle ragioni di fondo di tutte queste degenerazioni. Un libro di grandi ed esagerate pretese intellettuali è invece: «Salvare il capitalismo dai capitalisti» di Raghuran G. Rajan (indiano) e Luigi Zingales (italiano), entrambi docenti alla Graduate School of Business dell'Università di Chicago. Questo libro, accattivante solo nel titolo, contiene una tesi abbastanza antica e sperimentata: l'establishment e le élite (sono questi i termini non meglio definiti usati nel libro) non amano l'economia di mercato, la concorrenza, la libera competizione. Di norma premono sulle forze politiche per soffocare i mercati e soprattutto, con i politici, i sindacati, le categorie socialmente protette, sono tendenzialmente ostili ai mercati finanziari liberi, aperti ed evoluti, istituzione questa fondamentale per un'economia basata sulla libera impresa. Un vero peccato Peccato che questa tesi, non nuova, e che poteva essere efficacemente illustrata in cinquanta pagine, sia dispersa in trecentosettantun noiosissime e pretenziose pagine, per molti aspetti molto discutibili, ricche di esempi, storici, anche se non credo che si tratti di un libro di storia ma di un libro che si serve di spezzoni di storia per cercare di dimostrare le proprie tesi. La tesi centrale del libro non è ignota ai grandi economisti liberali come Von Mises , Roepke , Einaudi e altri, totalmente ignorati dai due autori. Così già nel 1922 von Mises, in quel pilastro del pensiero liberale che è Socialism; An Economic and Sociological Analysis , scriveva: «L'intero scopo dell'imprenditore è di adattarsi alle contingenze economiche del momento. Il suo scopo non è di combattere il socialismo, ma di adattarsi alle condizioni create da una politica che tende alla socializzazione... Né le associazioni degli imprenditori né quelle organizzazioni in cui ha importanza il sostegno degli imprenditori, sono inclini a combattere di principio contro il socialismo. L'imprenditore, l'uomo che coglie l'opportunità del momento, ha poco interesse verso il problema di una lotta secolare, di durata indefinita. Il suo interesse è di adattarsi alle circostanze in cui egli al momento si trova...». L'ostilità dei grandi imprenditori e dei grandi banchieri e delle rispettive associazioni verso un mercato finanziario libero, aperto ed evoluto l'abbiamo sperimentata in Italia a partire dal fascismo e senza sostanziali soluzioni di continuità, per tutta la seconda metà del '900. Solo negli ultimi dieci-quindici anni, sotto la spinta del processo di integrazione europea, della globalizzazione e dell'impegno delle minoranze modernizzatrici, questa tendenza all'ostilità verso un mercato finanziario autonomo e funzionante secondo regole proprie, sganciato dalle manipolazioni dello Stato banchiere e inserito nel mercato internazionale, è stata rovesciata. Ma, come bene avvertono Rajan e Zingales, questi processi non sono irreversibili. Anzi, i rischi di una «macchina indietro a tutta forza» sono elevati, come conseguenza di una coincidenza di fattori diversi ma collegati: la gravità degli scandali finanziari internazionali e nazionali (che Rajan e Zingales sottovalutano) e il disgusto dagli stessi originato sia negli imprenditori per bene che nei risparmiatori-investitori; la mancanza di reazione appropriata e tempestiva all'esplosione delle frodi finanziarie; un processo di concentrazione bancaria molto criticabile che ha impoverito la strumentazione finanziaria disponibile per le imprese concentrando indebitamente il potere finanziario in pochissime mani; un mercato borsistico formalisticamente rigido e sostanzialmente lassista, organi di sorveglianza dominati da una cultura profondamente burocratica sempre forti con i deboli e deboli con i forti; la crisi economica e di competitività internazionale che esige importanti operazioni di ristrutturazione aziendali e settoriali, senza enti finanziari specializzati capaci di assistere la media impresa in questo difficile processo. Indietro non si torna Ma indietro non si può tornare, senza il suicidio. La media impresa italiana di qualità, che è l'ossatura del Paese, ne è ben consapevole, anche se è un po' confusa sulle vie da seguire. Quale capitalismo allora? Quello anglosassone, con le sue orrende degenerazioni così sottovalutate da Rajan e Zingales? Quello renano che, forse, non esiste più? Quello di relazioni, come lo chiamano gli autori, tipico di Paesi come l'Italia e il Giappone, con le sue collusioni e manipolazioni? E se abbandonassimo questa ricerca di modelli stranieri e queste patetiche discussioni sui massimi sistemi e su una cosa così indefinibile - come ci ha insegnato Braudel - come il capitalismo, e ci limitassimo a vedere le cose che vanno o quelle che non vanno da noi oggi? Scopriremmo allora, tra i tanti, tre temi fondamentali. Il primo è quello degli errori micidiali che un certo tipo di management delle grandi imprese, con nome e cognome - e non un generico, misterioso e anonimo capitalismo - ha posto in essere, con gravi e in parte irreversibili danni per l'economia e la società italiane. E su questo tema ci possono essere molto più utili libri come quelli di Massimo Mucchetti («Licenziare i padroni?», uscito in edizione economica con una nuova postfazione sullo scandalo Parmalat) e di Luciano Gallino («La scomparsa dell'Italia industriale»), libri concreti e precisi per capire gli errori fatti, per non ripeterli e, possibilmente, per rimediare dove è rimediabile. Il secondo è quello di scoprire che lo spessore e l'articolazione dell'apparato produttivo italiano è, nonostante tutto e nonostante la crisi di tante (ma non tutte) le grandi imprese, di assoluto rilievo e che tante partite che sembrano definitivamente perse sono ancora da giocare. In questo senso la scoperta delle qualità professionali, intellettuali e morali di buona parte della media impresa familiare italiana sarà sempre tardiva. Ma il vuoto e la distanza che si sono nuovamente venuti a creare tra questa media impresa e il mercato mobiliare e finanziario va colmato con un nuovo pensiero, con nuovi progetti, con un ripensamento globale dei nostri meccanismi di mercato, che vanno ridisegnati sulle nostre esigenze e sulle nostre caratteristiche, e non scimmiottando gli americani come abbiamo fatto, malamente, sino ad oggi. Il capitalismo italiano è e resterà familiare e se saprà, come in gran parte già è, essere familiare-professionale e non familiare-familista, farà ancora una lunga strada. In fondo anche nella recente vicenda Fiat, questo scatto di orgoglio e di unione della colpita famiglia Agnelli rimane l'aspetto più positivo ed incoraggiante. Il terzo tema è che nella nostra economia il pubblico e il privato resteranno sempre intrecciati tra loro come sono sempre stati sia nel primo capitalismo dei Comuni e delle Signorie che in quello della moderna industrializzazione. Intrecci Ma questo rapporto può essere corretto, trasparente e costruttivo o essere collusivo, confuso, corrotto, strumentale al potere. La verità è che sul fronte dell'intreccio perverso tra economia pubblica e privata stiamo facendo grandi passi indietro, riproponendo, con rinnovata intensità, anche se con volti nuovi, i nostri più antichi vizi e riportando così i conti pubblici fuori controllo. E allora, forse, vale la pena di riprendere e rimeditare, le parole pronunciate da un grande maestro come Paolo Baffi , nel suo commiato come Governatore della Banca d'Italia il 31 maggio 1979: «...La cronaca recente lascerebbe negli assetti economici e nelle persone solo guasti e lacerazioni se non ne venisse colto il significato profondo di crisi dei criteri e delle istituzioni attraverso i quali si è manifestato in Italia l'intervento pubblico nell'economia, e se non se ne traesse impulso per lo studio e la realizzazione di assetti migliori e più coerenti... Da questa crisi di criteri operativi, l'economia italiana non potrà uscire senza una riflessione nuova e sistematica sulle sue regole fondamentali di economia mista; senza un riesame che miri a definire la qualità e i modi dell'intervento pubblico nell'economia, non meno della sua dimensione; senza il contributo dell'intelligenza economica come di quella giuridica». Da una riflessione seria su queste parole e non dalla retorica caccia ai comunisti (che non esistono più) dobbiamo ricominciare a pensare. Obiettivo sviluppo Aziende familiari, il 50% ha un capo esterno Ricerca Bocconi per Corriere Economia sulle prime 45 imprese di famiglia. Ancora pochi i comitati nei Cda. Il 30% ha consiglieri indipendenti B icchiere mezzo pieno o mezzo vuoto? Guido Corbetta, docente dell' Università Bocconi, è sostenitore della prima linea. E per questo giudica positivamente il risultato di una indagine realizzata dalla sua cattedra (la Aidaf-Alberto Falck, sulle aziende di famiglia) per Corriere Economia sulle 45 imprese familiari quotate di maggior dimensione. E dalla quale risulta che la metà delle società esaminate ha come amministratore delegato un membro esterno alla famiglia. Su 34 imprese il cui controllo è saldamente nelle mani di una famiglia (nelle altre 11 la quota di controllo è di minoranza), infatti, in 17 l'amministratore delegato è un «terzo». «Certo - dice il docente - si potrà obiettare che nell'altra metà non lo è, ma il fatto che il 50% delle famiglie abbia deciso di affidarsi a una persona esterna è un messaggio da non trascurare, significa che questa transizione è stata affrontata». L'indagine Aidaf-Bocconi mirava in primo luogo a capire quanto era diffuso nelle aziende familiari il fenomeno della somma della carica presidente-amministratore delegato. Il risultato è che, considerando le sole imprese il cui controllo familiare è di maggioranza, la sovrapposizione è presente in un terzo dei casi, cioè 11 su 34. Tra queste ci sono nomi come Italmobiliare, Danieli, It holding e Brembo, ma anche casi come Recordati, Zucchi o Tod's dove però gli amministratori delegati sono più d'uno. Più facile che l'azionista sia il presidente (26 casi su 34). Nelle società in cui le famiglie hanno il controllo con una quota di minoranza del capitale, invece, esiste una netta separazione tra le due cariche e in nessun caso presidente e amministratore delegato sono la stessa persona. Lo studio prende le mosse dalle vicende accadute alla Fiat, con la nomina di Luca Cordero di Montezemolo alla presidenza del gruppo torinese dopo la scomparsa di Umberto Agnelli, l'uscita di Giuseppe Morchio che avrebbe voluto cumulare i poteri del presidente a quelli dell'amministratore delegato e la successiva nomina di Sergio Marchionne a nuovo ceo. Cambiamenti decisi dalla famiglia Agnelli che hanno anche determinato reazioni diverse e hanno riaperto la discussione sul capitalismo familiare. «Non si può parlare di capitalismo familiare in generale, ne esistono tanti tipi diversi - dice Corbetta -. C'è quello chiuso in se stesso e incapace di trasformazioni, ma ne esiste un altro che ha saputo rinnovarsi. Ci sono società quotate come Italcementi, Buzzi, Merloni, Autogrill, per citarne alcune, che hanno saputo fare belle operazioni anche all'estero. Ci sono casi come Campari, Bulgari, Brembo che dimostrano un'evoluzione molto positiva. Ci sarà una selezione e sarà il mercato a sanzionare chi non evolve». Se tutti auspicano un maggior apporto di manager alle aziende familiari, va detto che per un dirigente di alto livello non è sempre facile lavorare in realtà che sono considerate dagli imprenditori «parte di se stessi», come ricorda Mario Consiglio, fondatore di Gea e consulente di alcune delle più importanti famiglie italiane. Claudio Ceper, partner di una delle maggiori società mondiali di cacciatori di teste, la Egon Zehnder, ricorda che «spesso l'inserimento di un ceo avviene in concomitanza del passaggio generazionale» e sottolinea come l'intervento di un amministratore delegato «che abbia idee e poteri» vada a rompere equilibri e abitudini dell'azienda di famiglia, creando di conseguenza dei traumi. Ora, se tutte e due le parti hanno fiducia e comprensione reciproca, il processo funziona. Ma se la famiglia ha paura di perdere potere e il manager teme di non poter incidere sui risultati, il meccanismo si inceppa. «A oggi - dice Ceper - direi che ci sono ancora molte resistenze, anche se il tempo giocherà a favore dell' ingresso dei manager in azienda». Tra gli elementi positivi che emergono dall'indagine Aidaf-Bocconi (alla quale ha collaborato Alessandro Minichilli), Corbetta cita poi il fatto «che, in definitiva, i casi in cui le famiglie controllano le società attraverso scatole cinesi sono numericamente pochi, anche se riguardano gruppi influenti dell'economia e della finanza. Ma la grande maggioranza delle imprese fa capo a famiglie che sostengono la maggior parte del rischio dell'azienda. Cosa che risulta ancora più vera se andiamo a vedere le grandi realtà familiari non quotate. D'altro canto - conclude -, si dice sempre che le aziende devono andare in Borsa: il primo passo è farlo, diventare contendibili sarà il successivo». Tra gli elementi positivi anche la buona presenza di consiglieri (almeno formalmente), indipendenti, la cui incidenza è attorno al 30% (ma vi sono quattro casi Brembo, Campari, Impregilo e Recordati in cui supera il 63%). «Dipende molto dal consigliere - dice Corbetta - anche se Parmalat ha suggerito a molti indipendenti di essere più presenti». Complessivamente, 16 imprese sulle 34 a controllo familiare di maggioranza hanno una presenza di azionisti in consiglio tra il 30 e il 50% e 2 oltre il 50%. Tra i risultati negativi, invece, il fatto che i consigli di amministrazione siano eccessivamente affollati (mediamente hanno 11,33 consiglieri) e per questo meno facilmente operativi. E soprattutto la scarsa presenza di comitati (il comitato per le nomine, per esempio, esiste solo in Marzotto, Campari e Pininfarina). La fotografia che esce, come si vede, non è univoca. E d'altra parte rispecchia un universo che ha molti elementi anche in contraddizione tra di loro. Così, per esempio una recente ricerca di Newsweek ha messo in evidenza come i titoli delle società familiari quotate abbiano registrato tra il 1993 e il 2003 performance migliori degli altri titoli in Francia, Germania e Italia (sostanzialmente uguali in Spagna e Svizzera, leggermente inferiori in Gran Bretagna). Ma allo stesso modo esiste per queste imprese un problema di dimensione. Mario Boselli, neo presidente dell'Aidaf, racconta di come sia rimasto sorpreso scoprendo che con i suoi 50 milioni di euro di fatturato sia non tra le aziende più piccole, bensì tra le prime 10 delle 32 imprese familiari ultracentenarie del mondo. «È su questo che dobbiamo interrogarci: fino a quando la famiglia è un vantaggio competitivo e quando invece non sia un freno alla crescita». Ed è proprio il crescere delle dimensioni l'elemento che «forza le decisioni», come dice Mario Consiglio. Che cita Merloni - dove Vittorio Merloni rappresenta il riferimento per il controllo, la governance e la visione strategica, mentre Andrea Guerra è a tutti gli effetti un amministratore delegato - per sostenere come la complessità raggiunta dal gruppo imponga la capacità di delegare. Semmai, conclude, il problema è che «di imprese familiari che superano il miliardo di euro ce ne sono pochissime». Maria Silvia Sacchi
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