la tigre cinese vuol frenare



dal corriere.it

martedi 4 maggio 2004

Credito facile e grattacieli vuoti La tigre cinese ora vuole frenare

Stretta sulle banche statali. Ma anche l'America teme la fine del boom

SHANGHAI - Il sole tramonta nella foschia di Shanghai, ma il cantiere nel
quale si costruisce la seconda torre dell'hotel Shangri-la non si ferma.
Dalla mia camera nella prima torre, lo spettacolo è impressionante: le gru
continuano a girare nell'oscurità, gli operai montano le travi d'acciaio
sotto la luce dei riflettori.
All'una di notte conto ancora quattro cascate di scintille, le squadre dei
saldatori. Ma l'albergo non è pieno. Il giorno dopo chiedo al manager il
perché di tutta questa fretta. «Sa, anche quest'anno l'economia deve
crescere al 9%» è la disarmante risposta.
Fino a qualche settimana fa la Cina preoccupava l'Occidente per la rapidità
della sua crescita che sottrae lavoro a molti Paesi industrializzati e
sconvolge i mercati delle materie prime, a cominciare da petrolio, acciaio e
carbon-coke.
Si chiedeva al governo guidato da Wen Jiabao di azionare la leva del freno,
anche per ridurre il surriscaldamento del sistema finanziario, e di
rivalutare il renmimbi, anche per rendere le merci cinesi un po' meno
competitive. Gli economisti americani ed europei studiavano le mosse del
governo soprattutto per capire fino a che punto fossero sinceri gli impegni
presi per rallentare il ritmo di crescita e guidare la trasformazione di un'
economia pianificata in un vero sistema di mercato.
Quando, alla fine del primo trimestre 2004, i dati hanno mostrato che il Pil
cinese continua a crescere a una velocità poco inferiore al 10% annuo,
furono in molti a concludere che il governo aveva mentito, dato che un'
economia pianificata e centralizzata non può finire fuori controllo. Ma il
governo ribadì il suo impegno e la banca centrale iniziò a intervenire sul
sistema creditizio. In pochi giorni il clima è mutato: le Borse asiatiche (e
non solo) hanno reagito con forti ribassi all'ipotesi di una frenata cinese;
gli esperti hanno cominciato a temere un rallentamento troppo brusco che
potrebbe togliere carburante alla ripresa internazionale fin qui alimentata
proprio da Pechino, e in parte dagli Usa.
Cosa sta accadendo? La sensazione è che la tecnocrazia al governo abbia
chiara la percezione dei rischi che corre l'economia cinese e stia cercando
di pilotare una sorta di «atterraggio morbido», che però non è detto che
riesca pienamente. Anche perché, se il potere centrale è effettivamente
molto forte, il controllo dei venti o trenta dirigenti di Pechino che
davvero «contano» su un Paese sterminato e sovrappopolato, non può essere
così capillare. Non è, del resto, storia recente: un antico proverbio dice
che il dragone (cioè l'impero) è potente, ma i serpenti (i feudatari al
potere nelle varie province) sanno come sopravvivere ai suoi artigli.
Qualche giorno fa, il passaggio-chiave: la banca centrale, verificato che
gli istituti - che col loro credito facile sono stati i veri «fuochisti»
dell'economia cinese - anche a marzo avevano incrementato i prestiti
addirittura del 20%, ha invitato tutti a voltare pagina. E la Commissione
che controlla il sistema creditizio ha deciso di inviare squadre di
ispettori in tutte le sette province del Paese per controllare che la
disposizione venga realmente eseguita e che l'esposizione si riduca, in
particolare nei settori più esposti: acciaio, industria automobilista e
settore immobiliare, il cui boom, soprattutto a Shanghai e nelle zone di
nuova urbanizzazione, sta producendo molta inflazione.
Insomma, la volontà di frenare sicuramente c'è: il governo teme davvero un
surriscaldamento dell'economia, comincia a calcolare anche i danni
ambientali prodotti da un'industrializzazione «selvaggia» e capisce che il
disordine creato nel mercato mondiale delle materie prime danneggia i suoi
stessi partner commerciali. Ma la frenata non può essere troppo pronunciata
perché il Paese ha comunque bisogno di un certo livello di crescita per
creare i nuovi posti di lavoro (circa 15 milioni l'anno) necessari per
fronteggiare l'incremento demografico e i flussi migratori dalle campagne.
Che la manovra riesca è però tutto da vedere: alcune riforme sono state
impostate, ma si procede a zig-zag, come dice il governatore della Banca
centrale, Zhou Xiaochuan. Dal mercato del lavoro vengono flebili segnali che
possono far sperare in qualche forma di riequilibrio tra Cina e Paesi
avanzati, nel lungo periodo. Oggi il salario di un operaio di Shanghai in
media è otto volte più basso rispetto all'Occidente. E, soprattutto in
alcuni settori come le costruzioni, vige una sorta di «caporalato» che rende
il lavoro tanto «flessibile» quanto privo delle più elementari garanzie. Ora
qualcosa sta cambiando. A esempio a Pechino, dove tre milioni di lavoratori
emigrati dalle campagne ricevono incarichi precari, è stato vietato il
subappalto dei lavori a società che non garantiscono i requisiti minimi di
sicurezza e spesso non pagano nemmeno i loro dipendenti. E gli operai che
oggi vengono pagati una volta l'anno, dovranno ricevere il salario
mensilmente. Non molto, visto dall'Europa, ma un cambiamento significativo
per la Cina. Dove per alcune professionalità (a esempio gli ingegneri
laureati in America che tornano in patria) si cominciano a pagare
retribuzioni comparabili con quelle di altri Paesi industrializzati.
Se nel mondo del lavoro qualcosa si muove, dalle banche per ora non vengono
indicazioni incoraggianti. Abituate a operare come rami della pubblica
amministrazione che garantisce tutti i loro crediti, le quattro grandi
banche cinesi hanno continuato per anni a erogare cifre enormi ai clienti,
prevalentemente aziende di Stato, senza curarsi della redditività dei
progetti finanziati. Cinque anni fa lo Stato destinò il 3% del reddito
nazionale a un loro massiccio rifinanziamento (270 miliardi di yuan, circa
27 miliardi di euro, al cambio di oggi). Dovevano entrare nel sistema
finanziario internazionale con un adeguato grado di patrimonializzazione. Ma
la musica non è cambiata: pressate anche dai governi delle singole province,
desiderosi di sostenere lo sviluppo, queste banche hanno continuato a
finanziare di tutto. Così Pechino ha appena dovuto spendere ben 45 miliardi
di dollari per rifinanziare due di queste banche. Ora, però, il sentiero si
è fatto stretto: l'elevato livello dei crediti «in sofferenza» o già
inesigibili - ufficialmente il 21% del totale, ma c'è chi ritiene che siano
più del doppio - richiederebbe infatti una frenata brusca che verrebbe
pagata a caro prezzo dall'economia cinese e da quella internazionale. Una
frenata troppo morbida rischia invece di non allontanare il pericolo di un
« meltdown » finanziario.
E così ieri sul «New York Times» Thomas Friedman ha trasformato la sua
corrispondenza sulla Cina in una preghiera (ironica fino a un certo punto)
al Padre Celeste, affinché mantenga i governanti cinesi forti e in buona
salute fino all'età di 120 anni, capaci di governare con saggezza un
processo di riforme economiche che consenta alla Cina di crescere per sempre
al 9 per cento l'anno. Scavalcando, uno alla volta, tutti gli altri grandi
protagonisti dell'economia mondiale, America compresa.


Massimo Gaggi