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la tigre cinese vuol frenare
- Subject: la tigre cinese vuol frenare
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Tue, 15 Jun 2004 06:52:45 +0200
dal corriere.it martedi 4 maggio 2004 Credito facile e grattacieli vuoti La tigre cinese ora vuole frenare Stretta sulle banche statali. Ma anche l'America teme la fine del boom SHANGHAI - Il sole tramonta nella foschia di Shanghai, ma il cantiere nel quale si costruisce la seconda torre dell'hotel Shangri-la non si ferma. Dalla mia camera nella prima torre, lo spettacolo è impressionante: le gru continuano a girare nell'oscurità, gli operai montano le travi d'acciaio sotto la luce dei riflettori. All'una di notte conto ancora quattro cascate di scintille, le squadre dei saldatori. Ma l'albergo non è pieno. Il giorno dopo chiedo al manager il perché di tutta questa fretta. «Sa, anche quest'anno l'economia deve crescere al 9%» è la disarmante risposta. Fino a qualche settimana fa la Cina preoccupava l'Occidente per la rapidità della sua crescita che sottrae lavoro a molti Paesi industrializzati e sconvolge i mercati delle materie prime, a cominciare da petrolio, acciaio e carbon-coke. Si chiedeva al governo guidato da Wen Jiabao di azionare la leva del freno, anche per ridurre il surriscaldamento del sistema finanziario, e di rivalutare il renmimbi, anche per rendere le merci cinesi un po' meno competitive. Gli economisti americani ed europei studiavano le mosse del governo soprattutto per capire fino a che punto fossero sinceri gli impegni presi per rallentare il ritmo di crescita e guidare la trasformazione di un' economia pianificata in un vero sistema di mercato. Quando, alla fine del primo trimestre 2004, i dati hanno mostrato che il Pil cinese continua a crescere a una velocità poco inferiore al 10% annuo, furono in molti a concludere che il governo aveva mentito, dato che un' economia pianificata e centralizzata non può finire fuori controllo. Ma il governo ribadì il suo impegno e la banca centrale iniziò a intervenire sul sistema creditizio. In pochi giorni il clima è mutato: le Borse asiatiche (e non solo) hanno reagito con forti ribassi all'ipotesi di una frenata cinese; gli esperti hanno cominciato a temere un rallentamento troppo brusco che potrebbe togliere carburante alla ripresa internazionale fin qui alimentata proprio da Pechino, e in parte dagli Usa. Cosa sta accadendo? La sensazione è che la tecnocrazia al governo abbia chiara la percezione dei rischi che corre l'economia cinese e stia cercando di pilotare una sorta di «atterraggio morbido», che però non è detto che riesca pienamente. Anche perché, se il potere centrale è effettivamente molto forte, il controllo dei venti o trenta dirigenti di Pechino che davvero «contano» su un Paese sterminato e sovrappopolato, non può essere così capillare. Non è, del resto, storia recente: un antico proverbio dice che il dragone (cioè l'impero) è potente, ma i serpenti (i feudatari al potere nelle varie province) sanno come sopravvivere ai suoi artigli. Qualche giorno fa, il passaggio-chiave: la banca centrale, verificato che gli istituti - che col loro credito facile sono stati i veri «fuochisti» dell'economia cinese - anche a marzo avevano incrementato i prestiti addirittura del 20%, ha invitato tutti a voltare pagina. E la Commissione che controlla il sistema creditizio ha deciso di inviare squadre di ispettori in tutte le sette province del Paese per controllare che la disposizione venga realmente eseguita e che l'esposizione si riduca, in particolare nei settori più esposti: acciaio, industria automobilista e settore immobiliare, il cui boom, soprattutto a Shanghai e nelle zone di nuova urbanizzazione, sta producendo molta inflazione. Insomma, la volontà di frenare sicuramente c'è: il governo teme davvero un surriscaldamento dell'economia, comincia a calcolare anche i danni ambientali prodotti da un'industrializzazione «selvaggia» e capisce che il disordine creato nel mercato mondiale delle materie prime danneggia i suoi stessi partner commerciali. Ma la frenata non può essere troppo pronunciata perché il Paese ha comunque bisogno di un certo livello di crescita per creare i nuovi posti di lavoro (circa 15 milioni l'anno) necessari per fronteggiare l'incremento demografico e i flussi migratori dalle campagne. Che la manovra riesca è però tutto da vedere: alcune riforme sono state impostate, ma si procede a zig-zag, come dice il governatore della Banca centrale, Zhou Xiaochuan. Dal mercato del lavoro vengono flebili segnali che possono far sperare in qualche forma di riequilibrio tra Cina e Paesi avanzati, nel lungo periodo. Oggi il salario di un operaio di Shanghai in media è otto volte più basso rispetto all'Occidente. E, soprattutto in alcuni settori come le costruzioni, vige una sorta di «caporalato» che rende il lavoro tanto «flessibile» quanto privo delle più elementari garanzie. Ora qualcosa sta cambiando. A esempio a Pechino, dove tre milioni di lavoratori emigrati dalle campagne ricevono incarichi precari, è stato vietato il subappalto dei lavori a società che non garantiscono i requisiti minimi di sicurezza e spesso non pagano nemmeno i loro dipendenti. E gli operai che oggi vengono pagati una volta l'anno, dovranno ricevere il salario mensilmente. Non molto, visto dall'Europa, ma un cambiamento significativo per la Cina. Dove per alcune professionalità (a esempio gli ingegneri laureati in America che tornano in patria) si cominciano a pagare retribuzioni comparabili con quelle di altri Paesi industrializzati. Se nel mondo del lavoro qualcosa si muove, dalle banche per ora non vengono indicazioni incoraggianti. Abituate a operare come rami della pubblica amministrazione che garantisce tutti i loro crediti, le quattro grandi banche cinesi hanno continuato per anni a erogare cifre enormi ai clienti, prevalentemente aziende di Stato, senza curarsi della redditività dei progetti finanziati. Cinque anni fa lo Stato destinò il 3% del reddito nazionale a un loro massiccio rifinanziamento (270 miliardi di yuan, circa 27 miliardi di euro, al cambio di oggi). Dovevano entrare nel sistema finanziario internazionale con un adeguato grado di patrimonializzazione. Ma la musica non è cambiata: pressate anche dai governi delle singole province, desiderosi di sostenere lo sviluppo, queste banche hanno continuato a finanziare di tutto. Così Pechino ha appena dovuto spendere ben 45 miliardi di dollari per rifinanziare due di queste banche. Ora, però, il sentiero si è fatto stretto: l'elevato livello dei crediti «in sofferenza» o già inesigibili - ufficialmente il 21% del totale, ma c'è chi ritiene che siano più del doppio - richiederebbe infatti una frenata brusca che verrebbe pagata a caro prezzo dall'economia cinese e da quella internazionale. Una frenata troppo morbida rischia invece di non allontanare il pericolo di un « meltdown » finanziario. E così ieri sul «New York Times» Thomas Friedman ha trasformato la sua corrispondenza sulla Cina in una preghiera (ironica fino a un certo punto) al Padre Celeste, affinché mantenga i governanti cinesi forti e in buona salute fino all'età di 120 anni, capaci di governare con saggezza un processo di riforme economiche che consenta alla Cina di crescere per sempre al 9 per cento l'anno. Scavalcando, uno alla volta, tutti gli altri grandi protagonisti dell'economia mondiale, America compresa. Massimo Gaggi
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