bio o non bio? costi ambientali e bilanci



da Slow Food

 Italia - 15/03/2004

Bio o non bio? I costi ambientali iscritti nei bilanci

Carlo Petrini

Un articolo apparso la scorsa settimana sul settimanale Diario riporta
alcuni interrogativi sull'agricoltura biologica, insinuando nel lettore -
nonostante l'autore mantenga una professionale obiettività - il dubbio che i
prodotti ottenuti con questa pratica non sempre siano più sani, più buoni e
migliori per l'ambiente rispetto a quelli dell'agricoltura "convenzionale".
Il boom del biologico non è più una novità, l'Italia si pone come massimo
produttore europeo e il fatturato che genera ha così tanta rilevanza che
addirittura fa storcere il naso ai suoi detrattori, i quali proprio non
riescono a giustificare i prezzi maggiori dei prodotti biologici. Io
consiglierei di aggiungere al prezzo del cibo da agricoltura convenzionale i
costi ambientali che esso provoca: in realtà ci accorgeremmo di pagarlo
molto di più. Questo però è un altro discorso: l'articolo in questione cita
fonti altisonanti e molto scettiche sul biologico in sé, dipinto da alcuni
come un'ideologia, più che una pratica agricola.

Il più "caldo" è Antony Trewavas, ad esempio, professore di Biochimica dell'
Università di Edimburgo, il quale è uno che teorizza la necessità degli Ogm
per un'agricoltura sostenibile, dice che a fronte dell'utilizzo massiccio di
pesticidi l'incidenza del cancro è diminuita del 15% negli ultimi cinquant'
anni e svende continuamente una nota tesi secondo cui il 99,99 per cento
delle tossine che ingeriamo è contenuta naturalmente negli alimenti stessi
ed è potenzialmente molto più pericolosa dell'irrisorio 0,01 di tossine
dovute ai prodotti chimici. Ma allora il cibo non sarebbe sano di per sé:
biologico o non biologico. Questa è bella. Ed è bella anche la tesi secondo
cui il letame e i liquami usati come fertilizzanti sono un concentrato di
batteri, contengono alte concentrazioni di azoto, diffondono ammoniaca e
sono pericolosi per il suolo. Anch'io sono convinto che se sono liquami
provenienti da allevamenti intensivi non fanno bene al suolo. Lasciate stare
il letame, perché c'è letame e letame. I miei amici produttori di Langa si
sono dovuti aprire una stalla e alimentare le mucche senza la frenesia di
ingrassarle per ottenere un fertilizzante naturale che funzionasse davvero.
Quello che trovavano in giro, di bestie allevate con l'acceleratore, quasi
quasi creava più danni che benefici. Nell'articolo poi si riporta quanto
sostiene Enrico Sala, professore dell'Università Statale di Milano:
«Prendiamo il mais: viene assalito da funghi che frequentemente producono
aflatossine, sostanze cancerogene per il fegato. Il mais biologico arriva a
contenere 20 volte più aflatossine di quello da agricoltura convenzionale»
perché non si utilizzano pesticidi e fungicidi. Ma il professore non spiega
che le pericolose aflatossine si sviluppano soprattutto quando si stocca il
mais per produrre gli insilati a uso e beneficio dell'allevamento intensivo.

A che serve fare un insilato biologico? Il problema secondo me non è se il
biologico sia più sano o sia più buono: non so quanto facciano bene cinque
porzioni di finanziera con ingredienti da agricoltura biologica; ed è anche
vero che ci sono dei prodotti biologici che dal punto di vista organolettico
sono un disastro. Ma abitudini alimentari e qualità gustativa non dipendono
dal tipo d'etichetta che si mette all'agricoltura: dipendono da scelte
personali, da quanto bene si vuole a se stessi e dalla sensibilità
gastronomica del produttore. Dal biologico (e dalle scelte più o meno
produttivistiche: una monocoltura biologica su centinaia di ettari è dannosa
per l'ambiente, esattamente come tutte le grandi monocolture) dipendono gli
equilibri ambientali: non ci farà grossi danni quello 0,01 per cento di
chimica che ingeriamo? Chiediamoci quanta di quella chimica è finita nelle
falde acquifere, quanto ha ucciso per sempre dell'humus di un terreno,
quanto ha contribuito a tenere in piedi l'economia di quei colossi che
promuovono un'agricoltura insostenibile e pensano prima di tutto al
profitto.

La questione non è di sperare (citando il titolo del pezzo su Diario) «che
Bio ce la mandi buona»: la questione è di capire finalmente che i costi
ambientali vanno messi a bilancio e che la scienza deve mettersi anche al
servizio delle alternative produttive (Trewavas: chi ti paga?). Bisogna
capire che se scegliamo il biologico non dobbiamo farlo da pecoroni in virtù
dell'ennesima etichetta vuota di significato. La questione, ancora, è
chiederci con raziocinio informato: è sostenibile?

Tratto da La Stampa 14/03/2004