lacrime d'amianto e processi



da panorama.it

STRAGI DIMENTICATE: GLI STABILIMENTI FINCANTIERI DI TRIESTE E MONFALCONE

Lacrime d'amianto

di  Antonio Rossitto
19/3/2004

Le vedove degli operai morti per mesotelioma davanti al monumento di
Monfalcone che ricorda le vittime dell'amianto
Ogni giovedì decine di vedove presidiano il tribunale di Gorizia. I mariti
lavoravano nei cantieri navali e sono morti per le sostanze tossiche.
Chiedono giustizia per almeno 430 vittime. Una di loro l'ha avuta. Con un
risarcimento di 1 milione di euro.

Aveva scritto tutto con dovizia di particolari: in bella grafia, nel suo
corsivo senza fronzoli. Dopo, una mattinata di aprile del 1997, Aldo
Damiani, operaio alla Fincantieri di Trieste fino al 1997, aveva preso da
parte la moglie Albina. Sapeva di stare per morire: lo stomaco gli si era
gonfiato come un pallone e non riusciva quasi più a respirare. Serio e
sofferente, l'aveva guardata fissa. Le aveva dato quel foglio: ogni parola
era perfettamente leggibile, dando quasi l'impressione di poter diventare
sonora da un momento all'altro: «Morirò per lavoro, perché ho respirato
amianto. Quando sarà finita, chiedi la mia scheda personale alla società e
la cartella clinica all'ospedale. Poi vai all'Inail e fatti dare tutti i
certificati di malattia professionale. Prendi il libretto di lavoro. Porta
tutto a un bravo avvocato. Abbi fiducia». Poi, prima di affidarle
definitivamente il suo testamento morale, l'aveva firmato. Da quel giorno,
Albina ha cercato quella giustizia che il marito Aldo non aveva visto in
vita. Fino a tre settimane fa: quando il tribunale di Trieste ha emesso una
sentenza clamorosa che, per la prima volta, condanna la Fincantieri a
pagarle un milione di euro «per danni biologici e morali». In pratica,
l'azienda statale, che costruisce navi da un secolo, dovrà risarcire la
signora Damiani.

Basta però percorrere 30 chilometri a est e raggiungere Monfalcone, la città
che ha i cantieri più grandi d'Italia, per trovare decine di altre vedove
assetate di giustizia. Alla procura di Gorizia, la prima denuncia per
omicidio colposo è arrivata cinque anni fa. Ne sono seguite una cinquantina,
ma l'inchiesta è ancora in fase preliminare.
Così è cominciata la protesta: ogni giovedì mattina circa 30 vedove, assieme
ai volontari dell'Associazione esposti amianto, partono da Monfalcone e
arrivano a Gorizia. Si piazzano davanti al tribunale e restano impalate
dalle 10 a mezzogiorno: vanno avanti così da più di un mese. Come a Buenos
Aires le madri di plaza de Mayo sfilavano silenziose di fronte alla Casa
Rosada, così le vedove dell'amianto di Monfalcone srotolano senza parlare i
loro striscioni. Alzano gli occhi verso quel palazzo grigio: lo guardano due
ore filate, impettite e severe. Poi tornano a casa.

Tornano a Monfalcone: 30 mila abitanti, operai navali in ogni famiglia. E
centinaia di morti. I conti li ha fatti meticolosamente Claudio Bianchi, ex
direttore dell'Istituto di anatomia patologica della città, oggi presidente
della Lega tumori della provincia.
Spiega che, da queste parti, c'è ancora il retaggio asburgico di fare le
autopsie su ogni morte sospetta: le diagnosi sono quindi inconfutabili. Dal
1979 al 2002 ha visto 215 casi di mesotelioma, il tumore dell'amianto: 152
erano cantieristi. «La zona di Monfalcone è un'area di circa 60 mila
abitanti» argomenta. «Dovremmo aspettarci un caso ogni 17 anni. Invece, solo
nel 2003, ce ne sono stati una ventina: 340 volte più di quelli attesi».
Precisa: «Questo tipo di tumore è solo la causa più lampante di morte per
l'amianto e non è nemmeno la più frequente. La letteratura medica ormai ha
confermato che, per ogni mesotelioma, ci sono almeno due carcinomi
polmonari». Seguendo il ragionamento si arriva, solo considerando chi ha
lavorato alla Fincantieri, a 430 vittime.
A Trieste, dove c'è un altro glorioso cantiere navale, le cose sono andate
peggio: «In trent'anni abbiamo scoperto quasi 500 mesoteliomi» dice Bianchi.
«Due terzi si è ammalato nei cantieri triestini. Ma la zona ha 250 mila
abitanti. Metà dei monfalconesi, invece, ha lavorato per la Fincantieri».
Per questo in città si parla della società con rispetto reverenziale e
timore. Ha dato pane e lustro: ha fatto lavorare migliaia di persone e
riempito gli occhi della gente con quelle navi sfavillanti che tagliavano in
due il mare. Quelle navi, ancora oggi, sono un vanto per tutti. Ma nessuno
riesce a dimenticare la tragedia. «Mio marito, mia suocera, una zia: tutti
morti per mesotelioma» racconta con gli occhi lucidi Annamaria Bottegaro,
vedova di Ezio, ex operaio morto nel '96. «E anche un nostro cugino è
spacciato. Una strage. È stata una strage».
Bastava appena entrarci in quel cantiere. Mirella Bigot è una bella signora
d'aspetto giovanile: ha i capelli biondi corti e un paio di occhialoni neri
che le coprono il viso. Era sposata con Stanislao Stanic, scomparso nel '95,
ad appena 52 anni. «Ha fatto l'operaio solo 24 mesi» si dispera. «Poi ha
lavorato sempre in ospedale. Io nemmeno sapevo che aveva maneggiato
l'amianto. Appena due anni! Era un ragazzino».
L'ex tubista Gualtiero Nardi, invece, ha scoperto di essere ammalato tre
giorni dopo la pensione. Ha combattuto quattro anni con il tumore, fino al
'98. La moglie Rita è stata la prima a denunciare la Fincantieri alla
procura: «Era nauseato da quel posto, da come venivano trattati, dai soprusi
che vedeva. "Mascalzoni": ogni volta che ne parlava, non aggiungeva una
parola di più». Non si dà pace: «Voglio giustizia: è l'unico scopo della mia
vita. Solo se penso a questo trovo la forza per alzarmi. Ormai viviamo nel
terrore: ogni mattina la gente si fa il segno della croce e spera che non
gli capiti niente. Ma qualcuno deve pagare. I saveva e no ga fato niente».
«I saveva», loro sapevano: dopo anni di silenzio, a Monfalcone, nei bar e
nelle piazze, basta accennare all'argomento: «I saveva» riponde la gente a
testa bassa. Ma è vero? I dirigenti conoscevano veramente i rischi a cui
andavano incontro ogni giorno i lavoratori?
Alcuni documenti inediti permettono di ricostruire pezzi di verità. Il 12
novembre del 1977 è la data fondamentale. Quel giorno, il professor
Ferdinando Gobbato, consegna all'azienda la «relazione sui controlli di
inquinamento da polveri e da fumi nei reparti "Marina militare"». Il punto 6
delle conclusioni rivela: «L'uso delle fasce di amianto per operazioni di
preriscaldo è causa di inquinamento ambientale». La Fincantieri del resto si
era già impegnata a intervenire. Un accordo con il consiglio di fabbrica del
24 ottobre dello stesso anno aveva previsto «la totale sostituzione del
materiale, salvo i casi in cui la tecnologia non lo permetta», cioè per le
le riparazioni. È andata veramente così? Il 22 luglio 1981, un verbale del
comitato sindacale di sicurezza riferisce delle attività di coibentazione:
«Si stanno ultimando le prove anche per la sostituzione del rivestimento dei
tubi».
Quattro anni dopo, quindi, almeno in alcuni reparti, «si stanno ultimando le
prove». Anche gli ex operai smentiscono la solerzia con cui si sarebbe mossa
la società. L'ex isolatore termico Duilio Castelli, 72 anni, è il presidente
dell'Associazione esposti amianto di Monfalcone: «Un'azienda statale non
poteva pensare solo al profitto come una fabbrica qualsiasi. Era un dovere
morale occuparsi per prima cosa della salute dei lavoratori. Invece hanno
continuato a usare amianto senza problemi». Tira fuori le fotocopie di
alcune bolle: 600 chili d'amianto consegnati all'azienda nel 1985.
C'è un documento che conferma i ricordi dei cantieristi. La relazione
dell'Inail sul riconoscimento dei benefici previdenziali ai lavoratori
esposti: l'amianto, a Monfalcone, sancisce l'Istituto, c'è stato «fino a
settembre 1985», data di «ultimazione della Garibaldi», l'ammiraglia della
marina militare. Fino al 1985, quindi. Anche se molti operai riferiscono di
aver costruito sottomarini coibentati con il materiale fino all'89.
E qualcosa dev'essere sfuggito anche dopo quella data. Il 18 giugno del 1996
il ministero della Difesa scrive alla Fincantieri: era stato segnalato che
alcune guarnizioni consegnate a Monfalcone «contengono amianto, il cui
utilizzo è stato vietato dalla legge 257 del '92, e quindi sono
inutilizzabili». L'azienda il 7 luglio risponde assicurando che interverrà
al più presto. Conclusione: consapevolmente o meno, l'amianto alla
Fincantieri c'è stato fino al '96. L'azienda per il momento non commenta,
riservandosi di farlo più avanti. L'ex meccanico di bordo Renzo Tripodi, 63
anni, baffoni grigi allungati fino al mento, al lavoro era uno scrupoloso
fino alla nausea. Del resto, è sempre stato un tipo precisissimo. Tira fuori
quattro foglietti: «Queste sono le navi che mi ricordo di aver costruito:
sono 79. E in tutte e 79 c'era amianto. Ovunque c'era amianto. L'aria era
irrespirabile e noi non abbiamo avuto nessuna precauzione. Iera de morir.
Come fanno a dire che l'hanno usato solo fino al '77? Sono andati avanti per
anni». Mostra di nuovo i foglietti. Li agita in aria: «Questa è storia,
questa è storia. Non è che possono dire: sono balle. No, non sono balle. È
la storia di 14 mila operai. I saveva, i saveva».

BOMBA A OROLOGERIA PER I CONTI PUBBLICI

Giuliano Cazzola, esperto di previdenza, lancia l'allarme sull'onere dei
prepensionamenti

«La lobby dell'amianto ha una capacità di pressione politica fortissima, del
tutto bipartisan, ed è riuscita a ottenere nel tempo una delle più massicce
operazioni di prepensionamento della storia, che ha inciso non poco sui
conti dell'Inps». Giuliano Cazzola, per incarico del ministro del Welfare
Roberto Maroni, ha coordinato nel 2002 un gruppo di studio sugli effetti
previdenziali della lavorazione dell'amianto. Da quella ricerca sono
scaturite alcune norme che, inserite nella Finanziaria 2004, hanno limitato
per il futuro la ricaduta sui conti pubblici della questione amianto.

Qual è la situazione che il governo di centrodestra ha trovato in questo
settore della previdenza?
Una leggina maligna del 1993 aveva partorito con il tempo un vero e proprio
mostro previdenziale. Diceva: se un lavoratore riesce a dimostrare di avere
lavorato per oltre un decennio in un ambiente esposto a una particolare
concentrazione di amianto (100 fibre/litro), pur senza essere ammalato,
ottiene dall'Inps un buono pensionistico in virtù del quale ogni anno di
esposizione viene moltiplicato per 1,5 ai fini dell'anzianità contributiva.
In sostanza, un forte impulso al prepensionamento, che riguardava non solo i
lavoratori impegnati nella produzione vera e propria dell'amianto, ma anche
altre categorie. Tra queste, la Consulta ha inserito anche i ferrovieri.

Con quale risultato, sul piano dei conti?
Quello di una bomba a orologeria. Le domande di pensione sono salite da 94
mila nel 1999 a 210 mila nel 2003. Quelle accolte sono molte meno: nel 2003
risultavano 51.400 pensionati, con un onere di 798 milioni di euro. Ma c'è
un contenzioso molto elevato, con 13 mila giudizi pendenti. E le proiezioni
al 2015 sono pari a un onere cumulato di 13,4 miliardi di euro. Il governo
precedente aveva allentato le maglie, tanto che per rispettarne gli impegni
il governo attuale ha dovuto impiegare risorse finanziarie che erano state
destinate all'operazione pensioni minime per tutti a 516 euro al mese. Un
andazzo francamente inaccettabile.

È stato cambiato qualcosa?
Con la manovra 2004 il governo ha impresso per il futuro una svolta
razionale ed equa. Le posizioni pregresse non si toccano. Ma il coefficiente
che gonfiava il periodo contributivo è stato ridotto da 1,5 a 1,25. Inoltre
sono state introdotte altre norme che disboscano i benefici pensionistici,
impedendo tra l'altro di sommare quelli derivanti dall'esposizione
all'amianto con quelli dovuti ad altra causa. Insomma, si è fatto il giusto
e il possibile. Anche se, purtroppo, partiti e sindacati continuano a
privilegiare le pensioni di anzianità rispetto all'assistenza dei lavoratori
che per l'amianto hanno preso il cancro.
Tino Oldani

UN'EMERGENZA DA NON SOTTOVALUTARE

Secondo Paolo Crosignani, epidemiologo, i tumori professionali sono oltre 6
mila ogni anno

Amianto, un'emergenza molto più grave di quanto si pensi, ma finora
sottovalutata dal ministero della Salute. Parola di Paolo Crosignani,
direttore dell'unità Epidemiologia ambientale dell'Istituto dei tumori di
Milano. E tra i relatori al convegno organizzato il 18 marzo a Bologna dalla
Fondazione Ramazzini, uno dei principali istituti per lo studio dei tumori
sul lavoro, per discutere del caso amianto come problema sociale e
sanitario.

Il quadro dei contagi è destinato ad aumentare?
Sì. L'amianto è stato bandito nel '92, ma il periodo di latenza e sviluppo
della malattia è lungo, può durare fino a 30 anni. E finora sono venute
fuori solo le storie più eclatanti.

Ci sono cifre?
Secondo stime prudenti, in Italia le neoplasie professionali sono 6.400
l'anno. Per l'Inail sono solo 390, di cui 374 per l'amianto. E vengono
trascurati dalle statistiche ufficiali altri fattori di rischio, come
benzene o idrocarburi.

Soluzioni?
Intanto il monitoraggio. Con l'Ispels, l'ente per la sicurezza sul lavoro,
stiamo compilando un registro dei tumori professionali incrociando gli
archivi Inps con i dati ospedalieri: solo in Lombardia e Toscana, per l'anno
2000, sono emersi 380 casi. Speriamo di poter estendere la ricerca in
tutt'Italia.

Perplessità?
Manca un impegno continuativo, anche finanziario, da parte del ministero
della Salute a favore di chi fa prevenzione dei tumori professionali. Con la
mappa nazionale si potrebbe verificare, caso per caso, se esistono ancora
situazioni lavorative a rischio.
Donatella Marino

BASTA CON I TRIBUNALI, È UNA QUESTIONE POLITICA

L'avvocato che difende le imprese suggerisce l'istituzione di un fondo
previdenziale

L'avvocato milanese Franco Tofacchi è uno dei legali italiani più esperti
d'amianto. Difende le grandi aziende nelle cause di risarcimento intentate
dagli ex operai. «Ormai sarò già arrivato a un centinaio di procedimenti»
racconta «e posso dire una cosa: per il momento ci hanno quasi sempre dato
ragione».

Perché è così difficile acclarare responsabilità apparentemente così
lampanti?
Perché non lo sono. I mesoteliomi vengono scoperti negli anni Sessanta,
mentre prima si conosceva l'asbestosi come malattia professionale. Ma è solo
dal '78 in poi che ci si rende conto di come l'amianto non sia più
gestibile.

Le aziende però hanno continuato a usare il materiale.
Del resto, per anni la legge ne ha addirittura imposto l'uso in alcuni
campi. E poi la sensibilità generale sui temi della salute dei lavoratori
era minore.

Non si può raccontare questo alle vedove e ai malati.
Ovviamente no. Ma è difficile pensare che il problema possa risolversi in un
tribunale.

Quindi?
Quindi deve intervenire la politica. Basterebbe costituire un fondo
previdenziale per le vittime dell'amianto pagato da Inail e aziende.

È più o meno quello che prevede un disegno di legge del 2002 della
commissione Lavoro del Senato.
Più o meno. Quella proposta prevede che gli oneri per i primi due anni siano
a carico dello Stato, dopo passerebbero a carico degli enti assicurativi.

Le aziende si libererebbero dalle responsabilità penali.
No, resta la responsabilità per chi ha violato le norme dopo il 1983, dopo
le prime direttive comunitarie. Sarebbe l'unico modo per fare giustizia
evitando la caccia alle streghe.


La fabbrica di San Filippo del Mela, a 30 chilometri da Messina, dove dal
1958 al 1993 hanno lavorato 212 operai. Oggi è diventata un deposito di
generi alimentari.
Su 212 operai, 77 sono deceduti e altri 119 si sono ammalati. Tutti per
colpa dell'amianto. È la storia di un'industria in provincia di Messina che
ha provocato (e provoca ancora oggi) lutti e dolore. Si potevano evitare?
Panorama ha ricostruito i fatti. Scoprendo verità sconvolgenti.

«Il 24 ottobre 1961»: Salvatore Santoro, classe '38, se lo ricorda come
fosse ieri il giorno in cui firmò il suo contratto di assunzione alla
Sacelit. «Operaio addetto ai pezzi speciali» enuncia ancora orgoglioso,
mentre per un attimo fa scattare in alto la testa con fierezza. Sì, se lo
ricorda ancora bene quel giorno. Fu proprio quello l'attimo in cui siglò il
patto scellerato: un lavoro al posto della salute, le sue mani in cambio dei
suoi polmoni. Per metà della vita ha respirato amianto dalla mattina alla
sera. Adesso vive attaccato a una bombola d'ossigeno alta un metro che è
costretto a trascinare per tutta la casa. «Se avessi saputo come mi sarebbe
finita, manco ammazzato ci sarei entrato in quella fabbrica» dice
digrignando i denti per la rabbia.

Ma quella mattina d'autunno di 43 anni fa nessuno gli aveva detto niente:
non c'erano rischi, niente pericoli. Solo un impiego: e in Sicilia un posto
così non si poteva rifiutare. L'hanno pensata come lui anche gli altri 211
colleghi che, nel tempo, hanno lavorato nello stabilimento di San Filippo
del Mela, a pochi passi dalle colonne di fumi che continua a esalare la
raffineria di Milazzo. Di questi, 77 sono morti per malattie direttamente
correlate all'amianto; 77 su 212: più di un terzo. Le cartelle cliniche
sembrano bollettini di guerra: 30 li ha spazzati via il mesotelioma; due il
carcinoma; 45 l'insufficienza respiratoria o il collasso cardiocircolatorio.
Ad altri 119 ex dipendenti l'Inail ha riconosciuto la malattia
professionale: quasi sempre si tratta di asbestosi, la patologia dei
lavoratori delle miniere d'amianto, che accorcia il respiro e strema dopo
una rampa di scale.

Alla Sacelit facevano materiale per l'idraulica e l'edilizia in
cemento-amianto: tubi, pareti, rivestimenti e le classiche lastre ondulate
che ancora oggi campeggiano come reliquie sui tetti della fabbrica. I
capannoni grigio scuro sono ancora lì: rinchiusi da una cancellata alta più
di 2 metri nella zona industriale di contrada Archi, a una trentina di
chilometri da Messina. Gli ex operai non ci mettono più piede dal luglio del
1993, quando anche gli ultimi 47 furono mandati a casa. Sedici mesi prima la
legge 257 aveva bandito la produzione e la vendita della fibra killer in
tutt'Italia.
Tardi, troppo tardi per chi aveva mangiato pane e amianto per una vita.
Letteralmente. Anche nella mente di Salvatore Nania, 56 anni d'età e gli
ultimi dieci trascorsi in compagnia dell'asbestosi, i ricordi del primo
giorno di lavoro sono stampati indelebilmente: «Quella che mi è rimasta
maggiormente impressa è la sala di disintegrazione: lì le varie fibre
vengono prima polverizzati, poi mescolate insieme. Fino a fare un'unica
miscela». Nania si ferma un attimo: tossisce. È un uomo piccolo e dinamico,
porta degli occhiali spessi e indossa un maglione di lana beige che gli
casca sulle spalle. Tossisce nuovamente. Riprende il racconto: «Il rumore e
la polvere erano impressionanti. L'operaio addetto a quel reparto era seduto
su una panchina rudimentale: in una mano aveva una paletta con cui lavorava
l'amianto, nell'altra un panino. Restai impressionato. Ma all'azienda
interessava solo la produzione: quasi tutti mangiavano sul posto di lavoro,
in mezzo a quell'inferno. E anch'io, non appena iniziai i turni, mi trovai
sulla panchina del reparto di disintegrazione. Accanto a me c'era l'operaio
che avevo visto il primo giorno: con una mano continuava a raccogliere le
fibre, con l'altra mangiava un panino. È stato uno dei primi a morire: un
tumore lo ha fulminato 15 anni fa».

Pane e amianto. «Gli addetti alle pulizie si lamentavano con i dirigenti per
la polvere che li faceva tossire continuamente» ripensa oggi Santoro. «Loro
rispondevano: "Ma che dite! L'amianto ve lo potete pure mangiare". Io questa
frase non la dimenticherò mai».

Il primo a denunciare i rischi che stavano correndo fu Nania: «Nel 1979
lessi un articolo in cui si diceva chiaramente che il materiale provocava il
cancro. Così iniziai a collegare il fatto con la morte per tumore di qualche
mio collega avvenuta in quel periodo». Gli operai lo elessero nel consiglio
di fabbrica e lui cominciò la sua battaglia. «Domandammo quelle mascherine e
tute di protezione che non ci avevano mai dato, anche se la legge le
imponeva dal 1955. Esigemmo visite mediche e più controlli». Ma la Sacelit,
dice l'ex dipendente, non era sempre corretta: «Nel 1983» semplifica
«l'Ispettorato del lavoro di Messina diede una multa all'azienda e indicò
una serie di lavori da fare entro tre mesi, tra cui l'installazione di un
impianto d'aerazione e una serie di misure per la sicurezza. L'unica cosa
che hanno fatto è stato di ridipingere la mensa. E gli ispettori non si sono
più visti».

Un punto va subito chiarito: l'azienda conosceva i rischi che si correvano
dentro i capannoni di contrada Archi? Gli ex operai non tentennano un
secondo: sì, ne sono tutti certi. La Sacelit smentisce. Oggi si chiama Nuova
Sacelit, produce tubi ed è ancora in mano a uno dei gruppi italiani più
importanti: la Italcementi, multinazionale bergamasca del cemento guidata da
Giampiero Pesenti, 4,2 miliardi di euro di fatturato annuo e 17 mila
dipendenti sparsi in tutto il mondo. La nota inviata a Panorama dalla Nuova
Sacelit è perentoria: «Sono sempre state applicate le leggi e le norme del
contratto collettivo nazionale relative all'igiene dell'ambiente di lavoro.
Sulla base di quelle disposizioni, non vi sono stati comportamenti
negligenti da parte della società o dei suoi dirigenti».
Alcuni documenti di cui è entrato in possesso Panorama smentiscono però
questa versione: sono due lettere inviate nel 1976 dalla Medicina del lavoro
dell'università di Bari alla direzione. Contengono i risultati delle visite
mediche fatte quell'anno agli operai. Il primo documento è di febbraio (la
data è illeggibile). Individua 12 dipendenti malati di asbestosi: per sei di
questi, l'istituto consiglia di «non adibirli a mansioni lavorative che
espongano a polveri». Sul secondo documento c'è anche il timbro di
ricevimento: 24 maggio 1976. Anche qui c'è un elenco di lavoratori «non
idonei a lavoro specifico e generico»: seguono quattro nomi.

FIBRA CHE NON LASCIA SCAMPO

La parola amianto deriva dal greco asbestos. Significa inestinguibile,
indistruttibile. Proprio per questa sua resistenza il materiale (che ricorda
il cotone) è stato impiegato in Italia dal dopoguerra. Ci si è costruito di
tutto: dalle ormai famose coperture in Eternit alle piastre isolanti per i
ferri da stiro, dagli schermi cinematografici alle carrozze ferroviarie. Una
produzione vastissima che ha coinvolto almeno 1.300.000 lavoratori.
Dei danni provocati dall'amianto si parla già nel 1907. Ma è solo negli anni
Sessanta che la comunità scientifica riconosce che il materiale può
provocare il cancro.
Le malattie collegate all'inalazione della fibra killer sono tre:
l'asbestosi, che riduce le capacità polmonari e può portare anche alla
morte; il mesotelioma, un tumore che può colpire il rivestimento dei polmoni
(pleura) e degli organi addominali (peritoneo); il carcinoma polmonare,
forma di cancro molto diffusa.

Comunque, nonostante queste correlazioni fossero note da tempo,
l'estrazione, l'importazione e la produzione continuano fino al 1992, anno
in cui la legge 257 mette al bando l'amianto. La norma, però, è stata
attuata solo in parte. Se dal 1994 è cessato il commercio, stessa efficacia
non hanno avuto le attività di bonifica. Nel 2000 la commissione
parlamentare d'inchiesta sul circolo dei rifiuti ha confermato: su tutto il
territorio nazionale ci sono 23 milioni di tonnellate d'amianto. Rimangono
ancora ad altissimo rischio: gli abitanti di case inquinate dalle fibre, i
familiari degli ex lavoratori esposti e le case accanto ai numerosi siti
dove si aspetta lo smaltimento.
Ogni anno muoiono per l'amianto tra le 4 mila e le 5 mila persone. Il tempo
di latenza delle malattie è molto lungo: dai 20 ai 50 anni. Per questo, il
picco della mortalità è atteso nel 2010. Gli epidemiologi hanno già fatto il
conto finale: nei prossimi vent'anni, nei sei paesi europei più importanti,
250 mila persone moriranno solo per mesotelioma.

SCANDALI: UNA CHERNOBYL SICILIANA

La fabbrica della morte
di  Antonio Rossitto
5/3/2004

Già nel 1976 la Sacelit sa quindi che 16 dipendenti soffrono di asbestosi,
la malattia dell'amianto. Già nel '76 sa che chi entra a contatto con il
materiale è a rischio. Oggi, a meno di 30 anni da quelle visite, di quei 16
lavoratori ne sono rimasti in vita solo quattro. Giovanni Saporita e Franco
La Spada sono due dei superstiti. «Quelli di Bari» racconta il primo «mi
avevano detto che con la mia malattia mi dovevo fare cambiare di posto. Ma
fino all'ultimo giorno di lavoro sono rimasto sempre lì: a fare la
manutenzione dei serbatoi». A La Spada è capitato lo stesso: «Ero il
capomacchina e capomacchina sono rimasto».
Sapevano, quindi? Il tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto è convinto di
sì: conoscevano i rischi o perlomeno dovevano conoscerli. Lo confermano le
18 sentenze che hanno obbligato la Nuova Sacelit a risarcire altrettanti ex
operai per il «danno biologico subito». Tutti ripagati con una somma che
varia da 50 a 190 mila euro. Solo una richiesta è stata rifiutata:
praticamente il tribunale ha sempre ritenuto colpevole la società.

Le motivazioni delle sentenze non lasciano dubbi: «Le argomentazioni
difensive (della Sacelit, ndr) inerenti le scarse conoscenze scientifiche
sulla pericolosità dell'amianto» non possono essere accolte. «L'associazione
amianto-mesotelioma è stata unanimemente riconosciuta già dal 1965» e «già
dal 1943 il legislatore dimostra di conoscere l'asbestosi come malattia
fondata sulla correlazione con lavorazioni d'amianto». L'azienda ha inoltre
«inequivocabilmente» violato le «norme dirette a prevenire gli infortuni e
le malattie sul lavoro». Infine, conclude il tribunale, la società non ha
mai «messo a conoscenza i lavoratori sui rischi specifici cui erano
esposti».

Nessun dubbio, quindi: la Sacelit ha violato le leggi. Ma la procura della
Repubblica di Barcellona è andata oltre. Sulla morte di due lavoratori, il
sostituto procuratore Olindo Canali, un anno fa, ha aperto un'inchiesta per
omicidio colposo. Indagati, i quattro dirigenti che, negli anni, hanno
guidato lo stabilimento di San Filippo del Mela.
Oggi, di quell'inferno, restano solo morte e malattia. Francesco Saraò
adesso è un vecchietto di 79 anni che parla a fatica e indossa sempre un
cappello nero a tese larghe. È rimasto alla Sacelit dal 1961 al 1984:
produceva tubi idraulici. Gli avevano diagnosticato l'asbestosi già nel
1967. Oggi vive tutto il giorno con l'ossigeno. Di mattina si scarrozza per
tutta la casa una bombola portatile collegata alle narici con dei tubicini;
di sera usa un ventilatore polmonare attaccato a una maschera che gli copre
interamente il viso. «Avevo due passatempi: la caccia e la campagna» si
lamenta. «Da 20 anni, a stento posso uscire per una passeggiata».

Giovanni Foti, invece, era un carrellista. È bassino e rotondo, con i
capelli grigi tirati all'indietro e le mani grosse scorticate da anni di
lavoro. Ha 64 anni ma ne dimostra dieci di più. «Vado avanti solo con gli
spray. La sera mi sento soffocare. Devo alzarmi per prendere aria. Che vita
è questa?». Il tribunale, nel 2002, gli ha assegnato 150 mila euro di
risarcimento. «Ma che me ne devo fare dei soldi? Chi me la restituisce la
salute?».
C'è pure la storia che racconta Domenico Mancuso. Davanti alla scrivania
dell'ufficetto nella sua autofficina mostra una foto: il padre e la madre
che sorridono.

Santo Mancuso, ex addetto alle produzioni, scomparso nel 1998 per
insufficienza polmonare. Qualche giorno dopo il funerale, anche la moglie ha
cominciato a stare male: «Le mancava l'aria, era sempre stanca e affaticata»
racconta il figlio. «A Milano i medici non sapevano come dirmelo: soffriva
della stessa malattia di mio padre». Per anni aveva respirato amianto pure
lei. Non era mai entrata nello stabilimento, ma le era bastato buttarsi al
collo del coniuge quando rientrava a casa dal lavoro, scuotere i vestiti e
la tuta con ancora addosso quelle maledette fibre prima di metterla in
lavatrice. Giuseppa Vasalli è morta due anni fa, a 67 anni. La causa del
decesso sul suo certificato di morte è uguale a quella del marito:
insufficienza respiratoria. «È stato l'amianto» dice Domenico Mancuso.
«Tutti i medici ci hanno detto la stessa cosa: è stato quel maledetto
amianto».
(Ha collaborato William Castro)

TRAGEDIA INFINITA

Storia di un bollettino di guerra

A Milazzo e dintorni, quando ne parlano, lasciano perdere gli eufemismi: la
Sacelit è per tutti «la fabbrica della morte». Lo stabilimento di San
Filippo del Mela, a pochi chilometri dalla città famosa per la raffineria e
gli imbarcaderi che portano alle isole Eolie, viene inaugurato nel lontano
1958. Si produce materiale per l'edilizia e l'idraulica: tutto in
amianto-cemento.
Il primo caso di morte per tumore è del 1978. Qualche anno dopo comincia la
crisi aziendale: i primi prepensionamenti sono del 1983. Nel giro di qualche
anno resta appena una cinquantina di dipendenti. La chiusura definitiva
dello stabilimento avviene però solo nel luglio del 1993, a un anno dalla
legge che vieta la produzione e la commercializzazione dell'amianto in
Italia.

Nello stabilimento di San Filippo del Mela hanno lavorato, nel corso del
tempo, 212 persone. Gli ex operai morti per malattie direttamente
collegabili all'amianto sono già 77. Mentre sono 119 quelli a cui l'Inail ha
riconosciuto la malattia professionale. Altri sei hanno però già avviato le
pratiche per ottenere una rendita. Restano 10 persone: gli unici ex operai
della Sacelit che, fino a oggi, l'amianto ha risparmiato.
Dopo gli ultimi due decessi, nel 2003 la procura della Repubblica di
Barcellona Pozzo di Gotto ha aperto un'inchiesta per omicidio colposo contro
quattro dirigenti dell'azienda.

IL CASO DI VOLLA

Morte in polvere

di  Antonio Rossitto
12/3/2004

Vittorio Cimmino, 58 anni, aiutante tornitore alla Sacelit mostra la
radiografia dei suoi polmoni malati.
Gli ex operai di un'azienda in Campania accusano: 55 di noi su 227 sono
stati uccisi dall'amianto. Panorama ha letto una perizia della procura di
Napoli che ricostruisce una tragedia annunciata. Individuando responsabilità
precise.

Basta che dopopranzo spunti un pallido sole. Un lieve tepore e loro arrivano
alla spicciolata: qualcuno a piedi, altri a bordo di sgangherate utilitarie.
Ogni pomeriggio si ritrovano lì dove si erano lasciati il giorno prima:
davanti a una cartoleria della periferia di Volla, a pochi chilometri da
Napoli. Hanno mani grosse e facce scavate.
Siedono su un gradone di cemento a godersi il sole, oppure prendono a
passeggiare avanti e indietro con le mani raccolte dietro la schiena. Non
discutono di calcio e non commentano ogni passaggio di una bellezza locale.
Parlano di una tragedia. Anzi di molte tragedie provocate dall'amianto.
Parlano della Sacelit: la fabbrica in cui hanno lavorato una vita. Lo
stabilimento, adesso diventato una fabbrica di mattoni, è alle loro spalle.
Fra i capannoni sbuffa di continuo una nuvola di fumo bianco.

Tra gli ex operai i discorsi ormai si ripetono come una nenia: «Ve lo
ricordate Sciusciù? Ve lo ricordate com'era diventato secco? Non ha manco
capito di cosa è morto». Ricordano anche la data esatta: il 25 giugno 1993.
Quel giorno Scognamillo Gennaro, classe '42, detto Sciusciù, ex addetto al
reparto manutenzione tubi, viene fulminato a 51 anni da un mesotelioma
pleurico, il tumore causato dall'amianto.

Da quel momento è cominciata la conta dei morti. Dieci anni dopo, sono già
arrivati a 55. Tra carcinoma polmonare, mesotelioma e asbestosi, dei 227
dipendenti che lavoravano in fabbrica nel 1990, ne hanno contati 55. «Ma
probabilmente i decessi sono molti di più» dice laconico Giacomo Montanino,
l'ex assistente al carico che continua ad aggiornare l'elenco dei
sopravvissuti. «In realtà, in totale, dipendenti ne sono passati più di 400.
Ma di molti non abbiamo avuto più notizie. Reperire i dati è stato
impossibile».

La Sacelit di Volla è nata nel 1964: ha prodotto materiale per l'idraulica e
l'edilizia in cemento-amianto fino al 1992. Michele Sarnataro, 61 anni, fu
uno dei primi assunti come operaio generico: «Negli anni Sessanta trattavamo
l'amianto come fosse fieno. Lo lavoravamo con i forconi, lo sminuzzavamo con
le mani. Senza che nessuno c'avesse detto mai niente». «Don Pietro» non gli
fa nemmeno finire la frase: Paolo Antonio Sammarco, 55 anni, si alza dal
gradone facendo leva sulla spalla di un ex collega. È alto e massiccio, ma
si muove con difficoltà. «Quando le fibre si incastravano nell'imbuto che le
portava all'impasto, mi facevano scendere per frantumarle a mano. Là sotto
non si poteva neanche respirare. Io l'ho detto al capo fabbrica, ma lui mi
ha trattato come un cane minacciando di licenziarmi. Ecco come lavoravamo».
Adesso «Don Pietro» ha l'asbestosi: respira a fatica. Dai medici non ci va
più: ha paura. Come Sarnataro: «Spesso ho dolore ai polmoni, ma controlli
non me ne faccio. Ho visto crepare metà dei miei colleghi». Si batte una
mano sul petto: «Non lo voglio sapere lo schifo che c'ho qua dentro. La
notte, se ci penso, non posso dormire».

Ma c'è chi non può far finta di non sapere. Luca Cacace, 62 anni, era un
tornitore di manicotti. Un tipo smilzo e sciupato, con la coppola blu sempre
in testa. L'Inail gli ha riconosciuto l'asbestosi nel 1979. «Senza le
pillole e gli spray non mi potrei nemmeno alzare dal letto. Quando cammino
mi manca l'aria. Se parlo per più di due minuti, poi devo prendere fiato per
cinque».
Si fa avanti Vittorio Cimmino: sventola sotto il naso di tutti i suoi
certificati dell'Inail. Anche lui malato. Pensa al fratello Vincenzo, ex
operaio della Sacelit pure lui, morto di asbestosi, e gli sale il sangue
alla testa. «Lo hanno assunto come invalido perché era zoppo. Doveva fare i
lavori leggeri, ma ha sempre sgobbato come un mulo: prima alla
disintegrazione, poi come tagliatore aggiunto, alla fine addirittura al
carico e scarico. Gli ultimi tempi, tra i guai al piede e quelli ai polmoni,
sembrava un zombi. Ma il pane lo doveva portare a casa: così lui continuava
a faticare e loro se ne infischiavano».

Hanno la rabbia degli sconfitti gli ex dipendenti della Sacelit: «Eravamo
povera gente, figli di contadini, il migliore di noi aveva la quinta
elementare: non abbiamo capito niente fino a quando non è morto Sciusciù. E
loro se ne sono approfittati».
Ancora una volta, al di là delle drammatiche testimonianze raccolte da
Panorama, la domanda è: si potevano evitare morti e malattie? Le condizioni
in cui hanno lavorato per anni gli operai emergono dai documenti ufficiali:
una perizia di circa dieci anni fa su 15 casi affidata a Massimo Menegozzo,
docente di Medicina del lavoro all'università di Napoli. Panorama ne è
entrato in possesso. L'incarico gli venne affidato dal sostituto procuratore
di Napoli, Maria Cristina Ribera, che indagava sul rischio amianto nella
Sacelit.

SICILIA, SI RIPARTE GRAZIE A PANORAMA

Parla Olindo Canali, il magistrato che indaga sul caso Sacelit

«Si tratta di materiale molto interessante»: Olindo Canali, sostituto
procuratore di Barcellona Pozzo di Gotto, non si lascia sfuggire altro. Ma
dopo aver letto l'articolo di Panorama sulla Sacelit di San Filippo del Mela
ha chiesto di acquisire parte della documentazione pubblicata. Canali,
infatti, è il titolare dell'inchiesta per omicidio colposo avviata contro
quattro dirigenti dell'azienda siciliana. E quelle carte che il pm ha
chiesto di vedere proverebbero che la società sapeva dei danni provocati
dall'amianto già trent'anni fa: sono i resoconti di alcune visite mediche
inviate dall'Istituto di medicina del lavoro di Bari alla direzione
dell'azienda: già nel 1976, 16 dipendenti erano malati di asbestosi.

Che cosa cambia adesso?
Questi nuovi elementi potrebbero avere un ruolo importante per il futuro del
procedimento. Resta un fatto: quando si parla di amianto, le cose si
complicano.

Perché?
I problemi sono due. Il primo è stabilire il nesso di causalità: dimostrare
che le omissioni degli amministratori non potevano che portare a quel
risultato, cioè alle morti. Il secondo è la prevedibilità dell'evento:
provare che gli imputati dovevano o potevano immaginare le conseguenze delle
loro azioni.

Ma le famiglie delle vittime sono centinaia.
Anche per me è un problema di coscienza: da cittadino vicende del genere mi
inquietano, ma quando rimetto la toga devo constatare le difficoltà. Per il
senso comune trovare i colpevoli è facile, per un magistrato no.

Tutti i processi penali sull'amianto sono quindi destinati a finire nel
nulla?
Penso proprio di no. La verità va cercata comunque. Ma il diritto ha delle
ragioni che la ragione comune non accetta. La sentenza sul Petrolchimico di
Marghera lo ha insegnato a tutti.


Menegozzo, nella sua relazione del 14 dicembre 1993, scrive: «La
dimostrazione che nello stabilimento si sono determinate nel passato e nel
presente condizioni di rischio significativo per esposizione ad asbesto è
data da una serie di documenti». Si tratta dei resoconti di quattro
sopralluoghi. Il primo è del '75. Quell'anno l'Istituto di medicina del
lavoro dell'università di Bari rileva valori di amianto «generalmente
superiori all'attuale normativa» con punte di sei fibre per centimetro cubo:
tre volte il valore limite indicato all'epoca dalla Società italiana di
medicina del lavoro. Nel 1986 la Medicina del lavoro dell'Università
Cattolica di Roma conclude così la sua indagine ambientale: c'è stato «un
peggioramento delle condizioni di rischio relativo alla lavorazione della
preparazione miscela e finissaggio». La Nuova Sacelit, società del gruppo
Italcementi, precisa: «Il coinvolgimento dei due istituti è stato promosso
dall'azienda, con un accordo con il sindacato, nel 1974». «Grazie
all'intesa», continua l'azienda «è stata ridotta di 40 volte la percentuale
di fibre presente nell'ambiente di lavoro».

Ma torniamo ai controlli che costituiscono uno degli architravi della
perizia di Menegozzo. Nel 1989, l'Usl 27 di Pomigliano d'Arco scopre «una
serie diffusa di infrazioni», tra cui «i sistemi di aspirazione localizzata
presenti solo in alcune postazioni», «carenze di ordine manutentivo» e fibre
che ostruivano l'impianto di aspirazione. L'azienda sanitaria chiosa:
«Concentrazioni superiori ai limiti consigliati dalla letteratura in
materia». L'ultima informativa è dell'ispettorato del lavoro di Napoli nel
1992: «Carenti condizioni di pulizia», «indumenti di lavoro protettivi
inadeguati», «inidonee maschere di protezione», «mancata informativa sul
rischio ai lavoratori».
Interpellata da Panorama, la Nuova Sacelit si è riservata di «fare ulteriori
approfondimenti non appena avrà a disposizione la documentazione usata per
l'inchiesta». Mentre rispetto all'articolo pubblicato la scorsa settimana
sullo stabilimento di San Filippo del Mela Giampiero Pesenti, numero uno del
gruppo, ha dichiarato: «Il testo contiene, in alcune sue parti, affermazioni
non corrispondenti al vero».

La perizia, tuttavia, usa toni perentori sul comportamento della società.
Parla anche dei medici di fabbrica: i cosiddetti «medici esperti». Sono loro
quelli che dovrebbero prevenire il rischio di malattie fra gli operai e
certificare tempestivamente la malattia professionale. «Questo non si è mai
realizzato nei casi da noi periziati» sostiene Menegozzo. Gli interventi dei
medici esperti sono stati infatti «intempestivi e non appropriati, con la
conseguenza di prolungare le esposizioni nocive al rischio di asbesto con
conseguente aggravamento del grado di inabilità derivato». Qualche esempio.
A Carmine Castiello l'asbestosi viene certificata dall'Inail nel 1977: il
medico della Sacelit la riconosce otto anni dopo. Giovanni Esposito ha
atteso nove anni. Pasquale Rea, più o meno otto. E via discorrendo.
C'è dell'altro: per 11 dei 15 lavoratori malati, i dottori della fabbrica
«non hanno mai espresso un giudizio di inidoneità all'esposizione
d'amianto». Gli operai cioè, sempre secondo Menegozzo, hanno continuato a
lavorare in mansioni che comportavano gravi rischi per la loro salute.
Qualche limite all'esposizione arrivò solo a partire dal 1990: misura
considerata però dal perito «oggettivamente intempestiva».

Giudizi molto chiari: una base solida per l'avvio dell'inchiesta penale. Ma
nel 1994 la perizia scompare. Quell'anno il procedimento viene trasferito da
Napoli alla neocostituita procura di Nola. Menegozzo racconta: «Il suo
smarrimento è ormai ufficiale». Il pm Maria Cristina Ribera conferma: «Io
l'ho inviato. Poi non so che cosa sia successo». Morale: si comincia
daccapo.
Adesso una nuova indagine sulla Sacelit è in mano al sostituto procuratore
di Nola, Giuseppe Cimarotta. Tutto è partito dalla denuncia del 2000 di tre
vedove dell'amianto. Maria Immacolata Costabile è una di queste. Ha 60 anni,
era sposata con Francesco Scognamiglio, ex operaio morto per l'asbestosi nel
1994. «Incontrai la vedova Dansica al cimitero: le tombe dei nostri mariti
sono vicine» racconta. «Io le ho domandato: "Ma è possibile che non possiamo
avere giustizia?". Così abbiamo deciso di dare tutte le carte ai
magistrati».
Se lo ricorda come fosse ieri il suo Francesco. «Di notte non riusciva a
respirare. Così prendevamo due sedie a sdraio e due coperte e andavamo a
dormire nel parco. Negli ultimi anni lo facevamo almeno due volte la
settimana. Pure d'inverno. Solo all'aria aperta riusciva ad addormenarsi. Da
lì si vedeva pure la Sacelit: stavamo là a guardare la fabbrica che lo stava
uccidendo».

CALTANISSETTA, AVVIATI DUE PROCESSI

Per fare luce sulle morti sospette, costituito un nucleo speciale

Morti bianche, morti da amianto: c'è un elenco interminabile di «prognosi
infauste», a Caltanissetta, provincia ad alto rischio ecologico anche per la
presenza del Petrolchimico di Gela. Ci sono tante lacrime versate dai
familiari di quelle decine di operai che, soprattutto nelle industrie di San
Cataldo, hanno avuto per anni la disgrazia di lavorare l'amianto.

La procura del capoluogo ha così istituito un Gruppo ambiente che in poco
tempo ha istruito due processi. Quello Amianto 1 è a carico degli ex
dirigenti della Silca-Simac di San Cataldo, accusati di omicidio colposo
plurimo e lesioni colpose. Imputati sono Attilio Pilato, Beniamino Maira,
Alberto Malavasi, Carmela Rita Pilato e Giuseppe Abbate. Parte civile sono i
familiari di otto dipendenti scomparsi e altri che si sono ammalati di
asbestosi e tumori. Nel processo è coinvolto anche l'Inail, tecnicamente
«responsabile civile» ma anche parte civile contro gli imputati: l'istituto
è tenuto ad accertare l'esistenza della malattia professionale e normalmente
anticipa gli indennizzi ai lavoratori. Per rivalersi contro i datori di
lavoro, si è però costituito parte civile.

Il secondo rinvio a giudizio è stato disposto contro gli amministratori
della Soilam Gfm, altra ditta di San Cataldo: è legato alla morte di un
operaio, causata, secondo l'accusa, dalla polvere di amianto. Altri nove
dipendenti accusano gravi lesioni polmonari. Imputati i fratelli
imprenditori Salvatore e Giuseppe Marcerò e il figlio di quest'ultimo,
Santo. Secondo il pm Filoni, non sono state rispettate le leggi in materia
di tutela e sicurezza del personale. E solo quando sono stati denunciati i
primi casi di malattie, l'azienda è corsa ai ripari.
Riccardo Arena