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lacrime d'amianto e processi
- Subject: lacrime d'amianto e processi
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Tue, 30 Mar 2004 06:51:06 +0200
da panorama.it STRAGI DIMENTICATE: GLI STABILIMENTI FINCANTIERI DI TRIESTE E MONFALCONE Lacrime d'amianto di Antonio Rossitto 19/3/2004 Le vedove degli operai morti per mesotelioma davanti al monumento di Monfalcone che ricorda le vittime dell'amianto Ogni giovedì decine di vedove presidiano il tribunale di Gorizia. I mariti lavoravano nei cantieri navali e sono morti per le sostanze tossiche. Chiedono giustizia per almeno 430 vittime. Una di loro l'ha avuta. Con un risarcimento di 1 milione di euro. Aveva scritto tutto con dovizia di particolari: in bella grafia, nel suo corsivo senza fronzoli. Dopo, una mattinata di aprile del 1997, Aldo Damiani, operaio alla Fincantieri di Trieste fino al 1997, aveva preso da parte la moglie Albina. Sapeva di stare per morire: lo stomaco gli si era gonfiato come un pallone e non riusciva quasi più a respirare. Serio e sofferente, l'aveva guardata fissa. Le aveva dato quel foglio: ogni parola era perfettamente leggibile, dando quasi l'impressione di poter diventare sonora da un momento all'altro: «Morirò per lavoro, perché ho respirato amianto. Quando sarà finita, chiedi la mia scheda personale alla società e la cartella clinica all'ospedale. Poi vai all'Inail e fatti dare tutti i certificati di malattia professionale. Prendi il libretto di lavoro. Porta tutto a un bravo avvocato. Abbi fiducia». Poi, prima di affidarle definitivamente il suo testamento morale, l'aveva firmato. Da quel giorno, Albina ha cercato quella giustizia che il marito Aldo non aveva visto in vita. Fino a tre settimane fa: quando il tribunale di Trieste ha emesso una sentenza clamorosa che, per la prima volta, condanna la Fincantieri a pagarle un milione di euro «per danni biologici e morali». In pratica, l'azienda statale, che costruisce navi da un secolo, dovrà risarcire la signora Damiani. Basta però percorrere 30 chilometri a est e raggiungere Monfalcone, la città che ha i cantieri più grandi d'Italia, per trovare decine di altre vedove assetate di giustizia. Alla procura di Gorizia, la prima denuncia per omicidio colposo è arrivata cinque anni fa. Ne sono seguite una cinquantina, ma l'inchiesta è ancora in fase preliminare. Così è cominciata la protesta: ogni giovedì mattina circa 30 vedove, assieme ai volontari dell'Associazione esposti amianto, partono da Monfalcone e arrivano a Gorizia. Si piazzano davanti al tribunale e restano impalate dalle 10 a mezzogiorno: vanno avanti così da più di un mese. Come a Buenos Aires le madri di plaza de Mayo sfilavano silenziose di fronte alla Casa Rosada, così le vedove dell'amianto di Monfalcone srotolano senza parlare i loro striscioni. Alzano gli occhi verso quel palazzo grigio: lo guardano due ore filate, impettite e severe. Poi tornano a casa. Tornano a Monfalcone: 30 mila abitanti, operai navali in ogni famiglia. E centinaia di morti. I conti li ha fatti meticolosamente Claudio Bianchi, ex direttore dell'Istituto di anatomia patologica della città, oggi presidente della Lega tumori della provincia. Spiega che, da queste parti, c'è ancora il retaggio asburgico di fare le autopsie su ogni morte sospetta: le diagnosi sono quindi inconfutabili. Dal 1979 al 2002 ha visto 215 casi di mesotelioma, il tumore dell'amianto: 152 erano cantieristi. «La zona di Monfalcone è un'area di circa 60 mila abitanti» argomenta. «Dovremmo aspettarci un caso ogni 17 anni. Invece, solo nel 2003, ce ne sono stati una ventina: 340 volte più di quelli attesi». Precisa: «Questo tipo di tumore è solo la causa più lampante di morte per l'amianto e non è nemmeno la più frequente. La letteratura medica ormai ha confermato che, per ogni mesotelioma, ci sono almeno due carcinomi polmonari». Seguendo il ragionamento si arriva, solo considerando chi ha lavorato alla Fincantieri, a 430 vittime. A Trieste, dove c'è un altro glorioso cantiere navale, le cose sono andate peggio: «In trent'anni abbiamo scoperto quasi 500 mesoteliomi» dice Bianchi. «Due terzi si è ammalato nei cantieri triestini. Ma la zona ha 250 mila abitanti. Metà dei monfalconesi, invece, ha lavorato per la Fincantieri». Per questo in città si parla della società con rispetto reverenziale e timore. Ha dato pane e lustro: ha fatto lavorare migliaia di persone e riempito gli occhi della gente con quelle navi sfavillanti che tagliavano in due il mare. Quelle navi, ancora oggi, sono un vanto per tutti. Ma nessuno riesce a dimenticare la tragedia. «Mio marito, mia suocera, una zia: tutti morti per mesotelioma» racconta con gli occhi lucidi Annamaria Bottegaro, vedova di Ezio, ex operaio morto nel '96. «E anche un nostro cugino è spacciato. Una strage. È stata una strage». Bastava appena entrarci in quel cantiere. Mirella Bigot è una bella signora d'aspetto giovanile: ha i capelli biondi corti e un paio di occhialoni neri che le coprono il viso. Era sposata con Stanislao Stanic, scomparso nel '95, ad appena 52 anni. «Ha fatto l'operaio solo 24 mesi» si dispera. «Poi ha lavorato sempre in ospedale. Io nemmeno sapevo che aveva maneggiato l'amianto. Appena due anni! Era un ragazzino». L'ex tubista Gualtiero Nardi, invece, ha scoperto di essere ammalato tre giorni dopo la pensione. Ha combattuto quattro anni con il tumore, fino al '98. La moglie Rita è stata la prima a denunciare la Fincantieri alla procura: «Era nauseato da quel posto, da come venivano trattati, dai soprusi che vedeva. "Mascalzoni": ogni volta che ne parlava, non aggiungeva una parola di più». Non si dà pace: «Voglio giustizia: è l'unico scopo della mia vita. Solo se penso a questo trovo la forza per alzarmi. Ormai viviamo nel terrore: ogni mattina la gente si fa il segno della croce e spera che non gli capiti niente. Ma qualcuno deve pagare. I saveva e no ga fato niente». «I saveva», loro sapevano: dopo anni di silenzio, a Monfalcone, nei bar e nelle piazze, basta accennare all'argomento: «I saveva» riponde la gente a testa bassa. Ma è vero? I dirigenti conoscevano veramente i rischi a cui andavano incontro ogni giorno i lavoratori? Alcuni documenti inediti permettono di ricostruire pezzi di verità. Il 12 novembre del 1977 è la data fondamentale. Quel giorno, il professor Ferdinando Gobbato, consegna all'azienda la «relazione sui controlli di inquinamento da polveri e da fumi nei reparti "Marina militare"». Il punto 6 delle conclusioni rivela: «L'uso delle fasce di amianto per operazioni di preriscaldo è causa di inquinamento ambientale». La Fincantieri del resto si era già impegnata a intervenire. Un accordo con il consiglio di fabbrica del 24 ottobre dello stesso anno aveva previsto «la totale sostituzione del materiale, salvo i casi in cui la tecnologia non lo permetta», cioè per le le riparazioni. È andata veramente così? Il 22 luglio 1981, un verbale del comitato sindacale di sicurezza riferisce delle attività di coibentazione: «Si stanno ultimando le prove anche per la sostituzione del rivestimento dei tubi». Quattro anni dopo, quindi, almeno in alcuni reparti, «si stanno ultimando le prove». Anche gli ex operai smentiscono la solerzia con cui si sarebbe mossa la società. L'ex isolatore termico Duilio Castelli, 72 anni, è il presidente dell'Associazione esposti amianto di Monfalcone: «Un'azienda statale non poteva pensare solo al profitto come una fabbrica qualsiasi. Era un dovere morale occuparsi per prima cosa della salute dei lavoratori. Invece hanno continuato a usare amianto senza problemi». Tira fuori le fotocopie di alcune bolle: 600 chili d'amianto consegnati all'azienda nel 1985. C'è un documento che conferma i ricordi dei cantieristi. La relazione dell'Inail sul riconoscimento dei benefici previdenziali ai lavoratori esposti: l'amianto, a Monfalcone, sancisce l'Istituto, c'è stato «fino a settembre 1985», data di «ultimazione della Garibaldi», l'ammiraglia della marina militare. Fino al 1985, quindi. Anche se molti operai riferiscono di aver costruito sottomarini coibentati con il materiale fino all'89. E qualcosa dev'essere sfuggito anche dopo quella data. Il 18 giugno del 1996 il ministero della Difesa scrive alla Fincantieri: era stato segnalato che alcune guarnizioni consegnate a Monfalcone «contengono amianto, il cui utilizzo è stato vietato dalla legge 257 del '92, e quindi sono inutilizzabili». L'azienda il 7 luglio risponde assicurando che interverrà al più presto. Conclusione: consapevolmente o meno, l'amianto alla Fincantieri c'è stato fino al '96. L'azienda per il momento non commenta, riservandosi di farlo più avanti. L'ex meccanico di bordo Renzo Tripodi, 63 anni, baffoni grigi allungati fino al mento, al lavoro era uno scrupoloso fino alla nausea. Del resto, è sempre stato un tipo precisissimo. Tira fuori quattro foglietti: «Queste sono le navi che mi ricordo di aver costruito: sono 79. E in tutte e 79 c'era amianto. Ovunque c'era amianto. L'aria era irrespirabile e noi non abbiamo avuto nessuna precauzione. Iera de morir. Come fanno a dire che l'hanno usato solo fino al '77? Sono andati avanti per anni». Mostra di nuovo i foglietti. Li agita in aria: «Questa è storia, questa è storia. Non è che possono dire: sono balle. No, non sono balle. È la storia di 14 mila operai. I saveva, i saveva». BOMBA A OROLOGERIA PER I CONTI PUBBLICI Giuliano Cazzola, esperto di previdenza, lancia l'allarme sull'onere dei prepensionamenti «La lobby dell'amianto ha una capacità di pressione politica fortissima, del tutto bipartisan, ed è riuscita a ottenere nel tempo una delle più massicce operazioni di prepensionamento della storia, che ha inciso non poco sui conti dell'Inps». Giuliano Cazzola, per incarico del ministro del Welfare Roberto Maroni, ha coordinato nel 2002 un gruppo di studio sugli effetti previdenziali della lavorazione dell'amianto. Da quella ricerca sono scaturite alcune norme che, inserite nella Finanziaria 2004, hanno limitato per il futuro la ricaduta sui conti pubblici della questione amianto. Qual è la situazione che il governo di centrodestra ha trovato in questo settore della previdenza? Una leggina maligna del 1993 aveva partorito con il tempo un vero e proprio mostro previdenziale. Diceva: se un lavoratore riesce a dimostrare di avere lavorato per oltre un decennio in un ambiente esposto a una particolare concentrazione di amianto (100 fibre/litro), pur senza essere ammalato, ottiene dall'Inps un buono pensionistico in virtù del quale ogni anno di esposizione viene moltiplicato per 1,5 ai fini dell'anzianità contributiva. In sostanza, un forte impulso al prepensionamento, che riguardava non solo i lavoratori impegnati nella produzione vera e propria dell'amianto, ma anche altre categorie. Tra queste, la Consulta ha inserito anche i ferrovieri. Con quale risultato, sul piano dei conti? Quello di una bomba a orologeria. Le domande di pensione sono salite da 94 mila nel 1999 a 210 mila nel 2003. Quelle accolte sono molte meno: nel 2003 risultavano 51.400 pensionati, con un onere di 798 milioni di euro. Ma c'è un contenzioso molto elevato, con 13 mila giudizi pendenti. E le proiezioni al 2015 sono pari a un onere cumulato di 13,4 miliardi di euro. Il governo precedente aveva allentato le maglie, tanto che per rispettarne gli impegni il governo attuale ha dovuto impiegare risorse finanziarie che erano state destinate all'operazione pensioni minime per tutti a 516 euro al mese. Un andazzo francamente inaccettabile. È stato cambiato qualcosa? Con la manovra 2004 il governo ha impresso per il futuro una svolta razionale ed equa. Le posizioni pregresse non si toccano. Ma il coefficiente che gonfiava il periodo contributivo è stato ridotto da 1,5 a 1,25. Inoltre sono state introdotte altre norme che disboscano i benefici pensionistici, impedendo tra l'altro di sommare quelli derivanti dall'esposizione all'amianto con quelli dovuti ad altra causa. Insomma, si è fatto il giusto e il possibile. Anche se, purtroppo, partiti e sindacati continuano a privilegiare le pensioni di anzianità rispetto all'assistenza dei lavoratori che per l'amianto hanno preso il cancro. Tino Oldani UN'EMERGENZA DA NON SOTTOVALUTARE Secondo Paolo Crosignani, epidemiologo, i tumori professionali sono oltre 6 mila ogni anno Amianto, un'emergenza molto più grave di quanto si pensi, ma finora sottovalutata dal ministero della Salute. Parola di Paolo Crosignani, direttore dell'unità Epidemiologia ambientale dell'Istituto dei tumori di Milano. E tra i relatori al convegno organizzato il 18 marzo a Bologna dalla Fondazione Ramazzini, uno dei principali istituti per lo studio dei tumori sul lavoro, per discutere del caso amianto come problema sociale e sanitario. Il quadro dei contagi è destinato ad aumentare? Sì. L'amianto è stato bandito nel '92, ma il periodo di latenza e sviluppo della malattia è lungo, può durare fino a 30 anni. E finora sono venute fuori solo le storie più eclatanti. Ci sono cifre? Secondo stime prudenti, in Italia le neoplasie professionali sono 6.400 l'anno. Per l'Inail sono solo 390, di cui 374 per l'amianto. E vengono trascurati dalle statistiche ufficiali altri fattori di rischio, come benzene o idrocarburi. Soluzioni? Intanto il monitoraggio. Con l'Ispels, l'ente per la sicurezza sul lavoro, stiamo compilando un registro dei tumori professionali incrociando gli archivi Inps con i dati ospedalieri: solo in Lombardia e Toscana, per l'anno 2000, sono emersi 380 casi. Speriamo di poter estendere la ricerca in tutt'Italia. Perplessità? Manca un impegno continuativo, anche finanziario, da parte del ministero della Salute a favore di chi fa prevenzione dei tumori professionali. Con la mappa nazionale si potrebbe verificare, caso per caso, se esistono ancora situazioni lavorative a rischio. Donatella Marino BASTA CON I TRIBUNALI, È UNA QUESTIONE POLITICA L'avvocato che difende le imprese suggerisce l'istituzione di un fondo previdenziale L'avvocato milanese Franco Tofacchi è uno dei legali italiani più esperti d'amianto. Difende le grandi aziende nelle cause di risarcimento intentate dagli ex operai. «Ormai sarò già arrivato a un centinaio di procedimenti» racconta «e posso dire una cosa: per il momento ci hanno quasi sempre dato ragione». Perché è così difficile acclarare responsabilità apparentemente così lampanti? Perché non lo sono. I mesoteliomi vengono scoperti negli anni Sessanta, mentre prima si conosceva l'asbestosi come malattia professionale. Ma è solo dal '78 in poi che ci si rende conto di come l'amianto non sia più gestibile. Le aziende però hanno continuato a usare il materiale. Del resto, per anni la legge ne ha addirittura imposto l'uso in alcuni campi. E poi la sensibilità generale sui temi della salute dei lavoratori era minore. Non si può raccontare questo alle vedove e ai malati. Ovviamente no. Ma è difficile pensare che il problema possa risolversi in un tribunale. Quindi? Quindi deve intervenire la politica. Basterebbe costituire un fondo previdenziale per le vittime dell'amianto pagato da Inail e aziende. È più o meno quello che prevede un disegno di legge del 2002 della commissione Lavoro del Senato. Più o meno. Quella proposta prevede che gli oneri per i primi due anni siano a carico dello Stato, dopo passerebbero a carico degli enti assicurativi. Le aziende si libererebbero dalle responsabilità penali. No, resta la responsabilità per chi ha violato le norme dopo il 1983, dopo le prime direttive comunitarie. Sarebbe l'unico modo per fare giustizia evitando la caccia alle streghe. La fabbrica di San Filippo del Mela, a 30 chilometri da Messina, dove dal 1958 al 1993 hanno lavorato 212 operai. Oggi è diventata un deposito di generi alimentari. Su 212 operai, 77 sono deceduti e altri 119 si sono ammalati. Tutti per colpa dell'amianto. È la storia di un'industria in provincia di Messina che ha provocato (e provoca ancora oggi) lutti e dolore. Si potevano evitare? Panorama ha ricostruito i fatti. Scoprendo verità sconvolgenti. «Il 24 ottobre 1961»: Salvatore Santoro, classe '38, se lo ricorda come fosse ieri il giorno in cui firmò il suo contratto di assunzione alla Sacelit. «Operaio addetto ai pezzi speciali» enuncia ancora orgoglioso, mentre per un attimo fa scattare in alto la testa con fierezza. Sì, se lo ricorda ancora bene quel giorno. Fu proprio quello l'attimo in cui siglò il patto scellerato: un lavoro al posto della salute, le sue mani in cambio dei suoi polmoni. Per metà della vita ha respirato amianto dalla mattina alla sera. Adesso vive attaccato a una bombola d'ossigeno alta un metro che è costretto a trascinare per tutta la casa. «Se avessi saputo come mi sarebbe finita, manco ammazzato ci sarei entrato in quella fabbrica» dice digrignando i denti per la rabbia. Ma quella mattina d'autunno di 43 anni fa nessuno gli aveva detto niente: non c'erano rischi, niente pericoli. Solo un impiego: e in Sicilia un posto così non si poteva rifiutare. L'hanno pensata come lui anche gli altri 211 colleghi che, nel tempo, hanno lavorato nello stabilimento di San Filippo del Mela, a pochi passi dalle colonne di fumi che continua a esalare la raffineria di Milazzo. Di questi, 77 sono morti per malattie direttamente correlate all'amianto; 77 su 212: più di un terzo. Le cartelle cliniche sembrano bollettini di guerra: 30 li ha spazzati via il mesotelioma; due il carcinoma; 45 l'insufficienza respiratoria o il collasso cardiocircolatorio. Ad altri 119 ex dipendenti l'Inail ha riconosciuto la malattia professionale: quasi sempre si tratta di asbestosi, la patologia dei lavoratori delle miniere d'amianto, che accorcia il respiro e strema dopo una rampa di scale. Alla Sacelit facevano materiale per l'idraulica e l'edilizia in cemento-amianto: tubi, pareti, rivestimenti e le classiche lastre ondulate che ancora oggi campeggiano come reliquie sui tetti della fabbrica. I capannoni grigio scuro sono ancora lì: rinchiusi da una cancellata alta più di 2 metri nella zona industriale di contrada Archi, a una trentina di chilometri da Messina. Gli ex operai non ci mettono più piede dal luglio del 1993, quando anche gli ultimi 47 furono mandati a casa. Sedici mesi prima la legge 257 aveva bandito la produzione e la vendita della fibra killer in tutt'Italia. Tardi, troppo tardi per chi aveva mangiato pane e amianto per una vita. Letteralmente. Anche nella mente di Salvatore Nania, 56 anni d'età e gli ultimi dieci trascorsi in compagnia dell'asbestosi, i ricordi del primo giorno di lavoro sono stampati indelebilmente: «Quella che mi è rimasta maggiormente impressa è la sala di disintegrazione: lì le varie fibre vengono prima polverizzati, poi mescolate insieme. Fino a fare un'unica miscela». Nania si ferma un attimo: tossisce. È un uomo piccolo e dinamico, porta degli occhiali spessi e indossa un maglione di lana beige che gli casca sulle spalle. Tossisce nuovamente. Riprende il racconto: «Il rumore e la polvere erano impressionanti. L'operaio addetto a quel reparto era seduto su una panchina rudimentale: in una mano aveva una paletta con cui lavorava l'amianto, nell'altra un panino. Restai impressionato. Ma all'azienda interessava solo la produzione: quasi tutti mangiavano sul posto di lavoro, in mezzo a quell'inferno. E anch'io, non appena iniziai i turni, mi trovai sulla panchina del reparto di disintegrazione. Accanto a me c'era l'operaio che avevo visto il primo giorno: con una mano continuava a raccogliere le fibre, con l'altra mangiava un panino. È stato uno dei primi a morire: un tumore lo ha fulminato 15 anni fa». Pane e amianto. «Gli addetti alle pulizie si lamentavano con i dirigenti per la polvere che li faceva tossire continuamente» ripensa oggi Santoro. «Loro rispondevano: "Ma che dite! L'amianto ve lo potete pure mangiare". Io questa frase non la dimenticherò mai». Il primo a denunciare i rischi che stavano correndo fu Nania: «Nel 1979 lessi un articolo in cui si diceva chiaramente che il materiale provocava il cancro. Così iniziai a collegare il fatto con la morte per tumore di qualche mio collega avvenuta in quel periodo». Gli operai lo elessero nel consiglio di fabbrica e lui cominciò la sua battaglia. «Domandammo quelle mascherine e tute di protezione che non ci avevano mai dato, anche se la legge le imponeva dal 1955. Esigemmo visite mediche e più controlli». Ma la Sacelit, dice l'ex dipendente, non era sempre corretta: «Nel 1983» semplifica «l'Ispettorato del lavoro di Messina diede una multa all'azienda e indicò una serie di lavori da fare entro tre mesi, tra cui l'installazione di un impianto d'aerazione e una serie di misure per la sicurezza. L'unica cosa che hanno fatto è stato di ridipingere la mensa. E gli ispettori non si sono più visti». Un punto va subito chiarito: l'azienda conosceva i rischi che si correvano dentro i capannoni di contrada Archi? Gli ex operai non tentennano un secondo: sì, ne sono tutti certi. La Sacelit smentisce. Oggi si chiama Nuova Sacelit, produce tubi ed è ancora in mano a uno dei gruppi italiani più importanti: la Italcementi, multinazionale bergamasca del cemento guidata da Giampiero Pesenti, 4,2 miliardi di euro di fatturato annuo e 17 mila dipendenti sparsi in tutto il mondo. La nota inviata a Panorama dalla Nuova Sacelit è perentoria: «Sono sempre state applicate le leggi e le norme del contratto collettivo nazionale relative all'igiene dell'ambiente di lavoro. Sulla base di quelle disposizioni, non vi sono stati comportamenti negligenti da parte della società o dei suoi dirigenti». Alcuni documenti di cui è entrato in possesso Panorama smentiscono però questa versione: sono due lettere inviate nel 1976 dalla Medicina del lavoro dell'università di Bari alla direzione. Contengono i risultati delle visite mediche fatte quell'anno agli operai. Il primo documento è di febbraio (la data è illeggibile). Individua 12 dipendenti malati di asbestosi: per sei di questi, l'istituto consiglia di «non adibirli a mansioni lavorative che espongano a polveri». Sul secondo documento c'è anche il timbro di ricevimento: 24 maggio 1976. Anche qui c'è un elenco di lavoratori «non idonei a lavoro specifico e generico»: seguono quattro nomi. FIBRA CHE NON LASCIA SCAMPO La parola amianto deriva dal greco asbestos. Significa inestinguibile, indistruttibile. Proprio per questa sua resistenza il materiale (che ricorda il cotone) è stato impiegato in Italia dal dopoguerra. Ci si è costruito di tutto: dalle ormai famose coperture in Eternit alle piastre isolanti per i ferri da stiro, dagli schermi cinematografici alle carrozze ferroviarie. Una produzione vastissima che ha coinvolto almeno 1.300.000 lavoratori. Dei danni provocati dall'amianto si parla già nel 1907. Ma è solo negli anni Sessanta che la comunità scientifica riconosce che il materiale può provocare il cancro. Le malattie collegate all'inalazione della fibra killer sono tre: l'asbestosi, che riduce le capacità polmonari e può portare anche alla morte; il mesotelioma, un tumore che può colpire il rivestimento dei polmoni (pleura) e degli organi addominali (peritoneo); il carcinoma polmonare, forma di cancro molto diffusa. Comunque, nonostante queste correlazioni fossero note da tempo, l'estrazione, l'importazione e la produzione continuano fino al 1992, anno in cui la legge 257 mette al bando l'amianto. La norma, però, è stata attuata solo in parte. Se dal 1994 è cessato il commercio, stessa efficacia non hanno avuto le attività di bonifica. Nel 2000 la commissione parlamentare d'inchiesta sul circolo dei rifiuti ha confermato: su tutto il territorio nazionale ci sono 23 milioni di tonnellate d'amianto. Rimangono ancora ad altissimo rischio: gli abitanti di case inquinate dalle fibre, i familiari degli ex lavoratori esposti e le case accanto ai numerosi siti dove si aspetta lo smaltimento. Ogni anno muoiono per l'amianto tra le 4 mila e le 5 mila persone. Il tempo di latenza delle malattie è molto lungo: dai 20 ai 50 anni. Per questo, il picco della mortalità è atteso nel 2010. Gli epidemiologi hanno già fatto il conto finale: nei prossimi vent'anni, nei sei paesi europei più importanti, 250 mila persone moriranno solo per mesotelioma. SCANDALI: UNA CHERNOBYL SICILIANA La fabbrica della morte di Antonio Rossitto 5/3/2004 Già nel 1976 la Sacelit sa quindi che 16 dipendenti soffrono di asbestosi, la malattia dell'amianto. Già nel '76 sa che chi entra a contatto con il materiale è a rischio. Oggi, a meno di 30 anni da quelle visite, di quei 16 lavoratori ne sono rimasti in vita solo quattro. Giovanni Saporita e Franco La Spada sono due dei superstiti. «Quelli di Bari» racconta il primo «mi avevano detto che con la mia malattia mi dovevo fare cambiare di posto. Ma fino all'ultimo giorno di lavoro sono rimasto sempre lì: a fare la manutenzione dei serbatoi». A La Spada è capitato lo stesso: «Ero il capomacchina e capomacchina sono rimasto». Sapevano, quindi? Il tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto è convinto di sì: conoscevano i rischi o perlomeno dovevano conoscerli. Lo confermano le 18 sentenze che hanno obbligato la Nuova Sacelit a risarcire altrettanti ex operai per il «danno biologico subito». Tutti ripagati con una somma che varia da 50 a 190 mila euro. Solo una richiesta è stata rifiutata: praticamente il tribunale ha sempre ritenuto colpevole la società. Le motivazioni delle sentenze non lasciano dubbi: «Le argomentazioni difensive (della Sacelit, ndr) inerenti le scarse conoscenze scientifiche sulla pericolosità dell'amianto» non possono essere accolte. «L'associazione amianto-mesotelioma è stata unanimemente riconosciuta già dal 1965» e «già dal 1943 il legislatore dimostra di conoscere l'asbestosi come malattia fondata sulla correlazione con lavorazioni d'amianto». L'azienda ha inoltre «inequivocabilmente» violato le «norme dirette a prevenire gli infortuni e le malattie sul lavoro». Infine, conclude il tribunale, la società non ha mai «messo a conoscenza i lavoratori sui rischi specifici cui erano esposti». Nessun dubbio, quindi: la Sacelit ha violato le leggi. Ma la procura della Repubblica di Barcellona è andata oltre. Sulla morte di due lavoratori, il sostituto procuratore Olindo Canali, un anno fa, ha aperto un'inchiesta per omicidio colposo. Indagati, i quattro dirigenti che, negli anni, hanno guidato lo stabilimento di San Filippo del Mela. Oggi, di quell'inferno, restano solo morte e malattia. Francesco Saraò adesso è un vecchietto di 79 anni che parla a fatica e indossa sempre un cappello nero a tese larghe. È rimasto alla Sacelit dal 1961 al 1984: produceva tubi idraulici. Gli avevano diagnosticato l'asbestosi già nel 1967. Oggi vive tutto il giorno con l'ossigeno. Di mattina si scarrozza per tutta la casa una bombola portatile collegata alle narici con dei tubicini; di sera usa un ventilatore polmonare attaccato a una maschera che gli copre interamente il viso. «Avevo due passatempi: la caccia e la campagna» si lamenta. «Da 20 anni, a stento posso uscire per una passeggiata». Giovanni Foti, invece, era un carrellista. È bassino e rotondo, con i capelli grigi tirati all'indietro e le mani grosse scorticate da anni di lavoro. Ha 64 anni ma ne dimostra dieci di più. «Vado avanti solo con gli spray. La sera mi sento soffocare. Devo alzarmi per prendere aria. Che vita è questa?». Il tribunale, nel 2002, gli ha assegnato 150 mila euro di risarcimento. «Ma che me ne devo fare dei soldi? Chi me la restituisce la salute?». C'è pure la storia che racconta Domenico Mancuso. Davanti alla scrivania dell'ufficetto nella sua autofficina mostra una foto: il padre e la madre che sorridono. Santo Mancuso, ex addetto alle produzioni, scomparso nel 1998 per insufficienza polmonare. Qualche giorno dopo il funerale, anche la moglie ha cominciato a stare male: «Le mancava l'aria, era sempre stanca e affaticata» racconta il figlio. «A Milano i medici non sapevano come dirmelo: soffriva della stessa malattia di mio padre». Per anni aveva respirato amianto pure lei. Non era mai entrata nello stabilimento, ma le era bastato buttarsi al collo del coniuge quando rientrava a casa dal lavoro, scuotere i vestiti e la tuta con ancora addosso quelle maledette fibre prima di metterla in lavatrice. Giuseppa Vasalli è morta due anni fa, a 67 anni. La causa del decesso sul suo certificato di morte è uguale a quella del marito: insufficienza respiratoria. «È stato l'amianto» dice Domenico Mancuso. «Tutti i medici ci hanno detto la stessa cosa: è stato quel maledetto amianto». (Ha collaborato William Castro) TRAGEDIA INFINITA Storia di un bollettino di guerra A Milazzo e dintorni, quando ne parlano, lasciano perdere gli eufemismi: la Sacelit è per tutti «la fabbrica della morte». Lo stabilimento di San Filippo del Mela, a pochi chilometri dalla città famosa per la raffineria e gli imbarcaderi che portano alle isole Eolie, viene inaugurato nel lontano 1958. Si produce materiale per l'edilizia e l'idraulica: tutto in amianto-cemento. Il primo caso di morte per tumore è del 1978. Qualche anno dopo comincia la crisi aziendale: i primi prepensionamenti sono del 1983. Nel giro di qualche anno resta appena una cinquantina di dipendenti. La chiusura definitiva dello stabilimento avviene però solo nel luglio del 1993, a un anno dalla legge che vieta la produzione e la commercializzazione dell'amianto in Italia. Nello stabilimento di San Filippo del Mela hanno lavorato, nel corso del tempo, 212 persone. Gli ex operai morti per malattie direttamente collegabili all'amianto sono già 77. Mentre sono 119 quelli a cui l'Inail ha riconosciuto la malattia professionale. Altri sei hanno però già avviato le pratiche per ottenere una rendita. Restano 10 persone: gli unici ex operai della Sacelit che, fino a oggi, l'amianto ha risparmiato. Dopo gli ultimi due decessi, nel 2003 la procura della Repubblica di Barcellona Pozzo di Gotto ha aperto un'inchiesta per omicidio colposo contro quattro dirigenti dell'azienda. IL CASO DI VOLLA Morte in polvere di Antonio Rossitto 12/3/2004 Vittorio Cimmino, 58 anni, aiutante tornitore alla Sacelit mostra la radiografia dei suoi polmoni malati. Gli ex operai di un'azienda in Campania accusano: 55 di noi su 227 sono stati uccisi dall'amianto. Panorama ha letto una perizia della procura di Napoli che ricostruisce una tragedia annunciata. Individuando responsabilità precise. Basta che dopopranzo spunti un pallido sole. Un lieve tepore e loro arrivano alla spicciolata: qualcuno a piedi, altri a bordo di sgangherate utilitarie. Ogni pomeriggio si ritrovano lì dove si erano lasciati il giorno prima: davanti a una cartoleria della periferia di Volla, a pochi chilometri da Napoli. Hanno mani grosse e facce scavate. Siedono su un gradone di cemento a godersi il sole, oppure prendono a passeggiare avanti e indietro con le mani raccolte dietro la schiena. Non discutono di calcio e non commentano ogni passaggio di una bellezza locale. Parlano di una tragedia. Anzi di molte tragedie provocate dall'amianto. Parlano della Sacelit: la fabbrica in cui hanno lavorato una vita. Lo stabilimento, adesso diventato una fabbrica di mattoni, è alle loro spalle. Fra i capannoni sbuffa di continuo una nuvola di fumo bianco. Tra gli ex operai i discorsi ormai si ripetono come una nenia: «Ve lo ricordate Sciusciù? Ve lo ricordate com'era diventato secco? Non ha manco capito di cosa è morto». Ricordano anche la data esatta: il 25 giugno 1993. Quel giorno Scognamillo Gennaro, classe '42, detto Sciusciù, ex addetto al reparto manutenzione tubi, viene fulminato a 51 anni da un mesotelioma pleurico, il tumore causato dall'amianto. Da quel momento è cominciata la conta dei morti. Dieci anni dopo, sono già arrivati a 55. Tra carcinoma polmonare, mesotelioma e asbestosi, dei 227 dipendenti che lavoravano in fabbrica nel 1990, ne hanno contati 55. «Ma probabilmente i decessi sono molti di più» dice laconico Giacomo Montanino, l'ex assistente al carico che continua ad aggiornare l'elenco dei sopravvissuti. «In realtà, in totale, dipendenti ne sono passati più di 400. Ma di molti non abbiamo avuto più notizie. Reperire i dati è stato impossibile». La Sacelit di Volla è nata nel 1964: ha prodotto materiale per l'idraulica e l'edilizia in cemento-amianto fino al 1992. Michele Sarnataro, 61 anni, fu uno dei primi assunti come operaio generico: «Negli anni Sessanta trattavamo l'amianto come fosse fieno. Lo lavoravamo con i forconi, lo sminuzzavamo con le mani. Senza che nessuno c'avesse detto mai niente». «Don Pietro» non gli fa nemmeno finire la frase: Paolo Antonio Sammarco, 55 anni, si alza dal gradone facendo leva sulla spalla di un ex collega. È alto e massiccio, ma si muove con difficoltà. «Quando le fibre si incastravano nell'imbuto che le portava all'impasto, mi facevano scendere per frantumarle a mano. Là sotto non si poteva neanche respirare. Io l'ho detto al capo fabbrica, ma lui mi ha trattato come un cane minacciando di licenziarmi. Ecco come lavoravamo». Adesso «Don Pietro» ha l'asbestosi: respira a fatica. Dai medici non ci va più: ha paura. Come Sarnataro: «Spesso ho dolore ai polmoni, ma controlli non me ne faccio. Ho visto crepare metà dei miei colleghi». Si batte una mano sul petto: «Non lo voglio sapere lo schifo che c'ho qua dentro. La notte, se ci penso, non posso dormire». Ma c'è chi non può far finta di non sapere. Luca Cacace, 62 anni, era un tornitore di manicotti. Un tipo smilzo e sciupato, con la coppola blu sempre in testa. L'Inail gli ha riconosciuto l'asbestosi nel 1979. «Senza le pillole e gli spray non mi potrei nemmeno alzare dal letto. Quando cammino mi manca l'aria. Se parlo per più di due minuti, poi devo prendere fiato per cinque». Si fa avanti Vittorio Cimmino: sventola sotto il naso di tutti i suoi certificati dell'Inail. Anche lui malato. Pensa al fratello Vincenzo, ex operaio della Sacelit pure lui, morto di asbestosi, e gli sale il sangue alla testa. «Lo hanno assunto come invalido perché era zoppo. Doveva fare i lavori leggeri, ma ha sempre sgobbato come un mulo: prima alla disintegrazione, poi come tagliatore aggiunto, alla fine addirittura al carico e scarico. Gli ultimi tempi, tra i guai al piede e quelli ai polmoni, sembrava un zombi. Ma il pane lo doveva portare a casa: così lui continuava a faticare e loro se ne infischiavano». Hanno la rabbia degli sconfitti gli ex dipendenti della Sacelit: «Eravamo povera gente, figli di contadini, il migliore di noi aveva la quinta elementare: non abbiamo capito niente fino a quando non è morto Sciusciù. E loro se ne sono approfittati». Ancora una volta, al di là delle drammatiche testimonianze raccolte da Panorama, la domanda è: si potevano evitare morti e malattie? Le condizioni in cui hanno lavorato per anni gli operai emergono dai documenti ufficiali: una perizia di circa dieci anni fa su 15 casi affidata a Massimo Menegozzo, docente di Medicina del lavoro all'università di Napoli. Panorama ne è entrato in possesso. L'incarico gli venne affidato dal sostituto procuratore di Napoli, Maria Cristina Ribera, che indagava sul rischio amianto nella Sacelit. SICILIA, SI RIPARTE GRAZIE A PANORAMA Parla Olindo Canali, il magistrato che indaga sul caso Sacelit «Si tratta di materiale molto interessante»: Olindo Canali, sostituto procuratore di Barcellona Pozzo di Gotto, non si lascia sfuggire altro. Ma dopo aver letto l'articolo di Panorama sulla Sacelit di San Filippo del Mela ha chiesto di acquisire parte della documentazione pubblicata. Canali, infatti, è il titolare dell'inchiesta per omicidio colposo avviata contro quattro dirigenti dell'azienda siciliana. E quelle carte che il pm ha chiesto di vedere proverebbero che la società sapeva dei danni provocati dall'amianto già trent'anni fa: sono i resoconti di alcune visite mediche inviate dall'Istituto di medicina del lavoro di Bari alla direzione dell'azienda: già nel 1976, 16 dipendenti erano malati di asbestosi. Che cosa cambia adesso? Questi nuovi elementi potrebbero avere un ruolo importante per il futuro del procedimento. Resta un fatto: quando si parla di amianto, le cose si complicano. Perché? I problemi sono due. Il primo è stabilire il nesso di causalità: dimostrare che le omissioni degli amministratori non potevano che portare a quel risultato, cioè alle morti. Il secondo è la prevedibilità dell'evento: provare che gli imputati dovevano o potevano immaginare le conseguenze delle loro azioni. Ma le famiglie delle vittime sono centinaia. Anche per me è un problema di coscienza: da cittadino vicende del genere mi inquietano, ma quando rimetto la toga devo constatare le difficoltà. Per il senso comune trovare i colpevoli è facile, per un magistrato no. Tutti i processi penali sull'amianto sono quindi destinati a finire nel nulla? Penso proprio di no. La verità va cercata comunque. Ma il diritto ha delle ragioni che la ragione comune non accetta. La sentenza sul Petrolchimico di Marghera lo ha insegnato a tutti. Menegozzo, nella sua relazione del 14 dicembre 1993, scrive: «La dimostrazione che nello stabilimento si sono determinate nel passato e nel presente condizioni di rischio significativo per esposizione ad asbesto è data da una serie di documenti». Si tratta dei resoconti di quattro sopralluoghi. Il primo è del '75. Quell'anno l'Istituto di medicina del lavoro dell'università di Bari rileva valori di amianto «generalmente superiori all'attuale normativa» con punte di sei fibre per centimetro cubo: tre volte il valore limite indicato all'epoca dalla Società italiana di medicina del lavoro. Nel 1986 la Medicina del lavoro dell'Università Cattolica di Roma conclude così la sua indagine ambientale: c'è stato «un peggioramento delle condizioni di rischio relativo alla lavorazione della preparazione miscela e finissaggio». La Nuova Sacelit, società del gruppo Italcementi, precisa: «Il coinvolgimento dei due istituti è stato promosso dall'azienda, con un accordo con il sindacato, nel 1974». «Grazie all'intesa», continua l'azienda «è stata ridotta di 40 volte la percentuale di fibre presente nell'ambiente di lavoro». Ma torniamo ai controlli che costituiscono uno degli architravi della perizia di Menegozzo. Nel 1989, l'Usl 27 di Pomigliano d'Arco scopre «una serie diffusa di infrazioni», tra cui «i sistemi di aspirazione localizzata presenti solo in alcune postazioni», «carenze di ordine manutentivo» e fibre che ostruivano l'impianto di aspirazione. L'azienda sanitaria chiosa: «Concentrazioni superiori ai limiti consigliati dalla letteratura in materia». L'ultima informativa è dell'ispettorato del lavoro di Napoli nel 1992: «Carenti condizioni di pulizia», «indumenti di lavoro protettivi inadeguati», «inidonee maschere di protezione», «mancata informativa sul rischio ai lavoratori». Interpellata da Panorama, la Nuova Sacelit si è riservata di «fare ulteriori approfondimenti non appena avrà a disposizione la documentazione usata per l'inchiesta». Mentre rispetto all'articolo pubblicato la scorsa settimana sullo stabilimento di San Filippo del Mela Giampiero Pesenti, numero uno del gruppo, ha dichiarato: «Il testo contiene, in alcune sue parti, affermazioni non corrispondenti al vero». La perizia, tuttavia, usa toni perentori sul comportamento della società. Parla anche dei medici di fabbrica: i cosiddetti «medici esperti». Sono loro quelli che dovrebbero prevenire il rischio di malattie fra gli operai e certificare tempestivamente la malattia professionale. «Questo non si è mai realizzato nei casi da noi periziati» sostiene Menegozzo. Gli interventi dei medici esperti sono stati infatti «intempestivi e non appropriati, con la conseguenza di prolungare le esposizioni nocive al rischio di asbesto con conseguente aggravamento del grado di inabilità derivato». Qualche esempio. A Carmine Castiello l'asbestosi viene certificata dall'Inail nel 1977: il medico della Sacelit la riconosce otto anni dopo. Giovanni Esposito ha atteso nove anni. Pasquale Rea, più o meno otto. E via discorrendo. C'è dell'altro: per 11 dei 15 lavoratori malati, i dottori della fabbrica «non hanno mai espresso un giudizio di inidoneità all'esposizione d'amianto». Gli operai cioè, sempre secondo Menegozzo, hanno continuato a lavorare in mansioni che comportavano gravi rischi per la loro salute. Qualche limite all'esposizione arrivò solo a partire dal 1990: misura considerata però dal perito «oggettivamente intempestiva». Giudizi molto chiari: una base solida per l'avvio dell'inchiesta penale. Ma nel 1994 la perizia scompare. Quell'anno il procedimento viene trasferito da Napoli alla neocostituita procura di Nola. Menegozzo racconta: «Il suo smarrimento è ormai ufficiale». Il pm Maria Cristina Ribera conferma: «Io l'ho inviato. Poi non so che cosa sia successo». Morale: si comincia daccapo. Adesso una nuova indagine sulla Sacelit è in mano al sostituto procuratore di Nola, Giuseppe Cimarotta. Tutto è partito dalla denuncia del 2000 di tre vedove dell'amianto. Maria Immacolata Costabile è una di queste. Ha 60 anni, era sposata con Francesco Scognamiglio, ex operaio morto per l'asbestosi nel 1994. «Incontrai la vedova Dansica al cimitero: le tombe dei nostri mariti sono vicine» racconta. «Io le ho domandato: "Ma è possibile che non possiamo avere giustizia?". Così abbiamo deciso di dare tutte le carte ai magistrati». Se lo ricorda come fosse ieri il suo Francesco. «Di notte non riusciva a respirare. Così prendevamo due sedie a sdraio e due coperte e andavamo a dormire nel parco. Negli ultimi anni lo facevamo almeno due volte la settimana. Pure d'inverno. Solo all'aria aperta riusciva ad addormenarsi. Da lì si vedeva pure la Sacelit: stavamo là a guardare la fabbrica che lo stava uccidendo». CALTANISSETTA, AVVIATI DUE PROCESSI Per fare luce sulle morti sospette, costituito un nucleo speciale Morti bianche, morti da amianto: c'è un elenco interminabile di «prognosi infauste», a Caltanissetta, provincia ad alto rischio ecologico anche per la presenza del Petrolchimico di Gela. Ci sono tante lacrime versate dai familiari di quelle decine di operai che, soprattutto nelle industrie di San Cataldo, hanno avuto per anni la disgrazia di lavorare l'amianto. La procura del capoluogo ha così istituito un Gruppo ambiente che in poco tempo ha istruito due processi. Quello Amianto 1 è a carico degli ex dirigenti della Silca-Simac di San Cataldo, accusati di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. Imputati sono Attilio Pilato, Beniamino Maira, Alberto Malavasi, Carmela Rita Pilato e Giuseppe Abbate. Parte civile sono i familiari di otto dipendenti scomparsi e altri che si sono ammalati di asbestosi e tumori. Nel processo è coinvolto anche l'Inail, tecnicamente «responsabile civile» ma anche parte civile contro gli imputati: l'istituto è tenuto ad accertare l'esistenza della malattia professionale e normalmente anticipa gli indennizzi ai lavoratori. Per rivalersi contro i datori di lavoro, si è però costituito parte civile. Il secondo rinvio a giudizio è stato disposto contro gli amministratori della Soilam Gfm, altra ditta di San Cataldo: è legato alla morte di un operaio, causata, secondo l'accusa, dalla polvere di amianto. Altri nove dipendenti accusano gravi lesioni polmonari. Imputati i fratelli imprenditori Salvatore e Giuseppe Marcerò e il figlio di quest'ultimo, Santo. Secondo il pm Filoni, non sono state rispettate le leggi in materia di tutela e sicurezza del personale. E solo quando sono stati denunciati i primi casi di malattie, l'azienda è corsa ai ripari. Riccardo Arena
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