il capolinea del dialogo




Il capolinea del dialogo
GIORGIO CREMASCHI*

Il capolinea del dialogo

Tra il Parmacrack e la rivolta degli autoferrotranvieri finisce la stagione
delle «regole». Oggi contano di più gli interessi, qualche volta i principi,
sempre i rapporti di forza. Parafrasando Lama, si può dire che ormai la
concertazione è un bidone vuoto. Quella che resta è una scelta secca: o una
vera democrazia sindacale oppure la frantumazione sociale e l'autoritarismo

GIORGIO CREMASCHI*

L'esplosione della bolla truffaldina della Parmalat e la rivolta degli
autoferrotranvieri segnano lo Zenit ed il Nadir di una nuova mappa economica
e sociale del nostro paese. Dopo una lunga erosione crollano tutti i punti
cardine che hanno orientato le scelte sindacali degli ultimi venticinque
anni. Con la svolta dell'Eur, alla fine degli anni Settanta, il movimento
sindacale decideva di farsi carico delle compatibilità e della
competitività. Finiva la stagione del salario «variabile indipendente»,
definizione di Bruno Trentin dei primi anni Sessanta. In una celebre
intervista a La Repubblica Luciano Lama definiva come «un bidone vuoto», al
quale non aveva più senso fare la guardia, la rigidità sindacale sul salario
e sulla condizione di lavoro.

Oggi si può tranquillamente definire allo stesso modo ciò che resta dei
meccanismi e delle pratiche della concertazione, quali si sono stratificati
da quella svolta sino ad oggi. Oggi tocca ad essi presentarsi come un bidone
vuoto. Il fenomeno della crisi delle regole è ben più vasto. Sono a pezzi le
regole dell'Onu. In assenza di poteri internazionali e statuali forti, in
grado di pretendere il rispetto dei principi fondanti dell'organizzazione
internazionale, gli Stati uniti fanno quello che vogliono.

Le regole che governano l'Unione europea, il Patto di stabilità, stanno in
piedi finché non intralciano le scelte dei paesi più forti. In Italia, ove
da tempo Pietro Ingrao ci chiede se esista ancora l'articolo 11 della
Costituzione, il complesso sistema di equilibri decisionali e di pratiche
concertative consolidatosi negli ultimi vent'anni viene travolto dal
principio di maggioranza. E dalla prepotente affermazione degli interessi
personali e di classe di Silvio Berlusconi e del suo governo.

Con buona pace delle paterne intenzioni, gli appelli del presidente della
Repubblica al dialogo e alla fiducia suonano come vuoti richiami ad un
passato che non torna più. Oggi contano prima di tutto gli interessi,
qualche volta i principi, sempre i rapporti di forza. La cultura delle
regole viene travolta ovunque. Si può rimpiangerla con maggiore o minore
cordoglio, ma è impossibile negare la realtà.

La sconfitta sindacale alla Fiat, che segnò la riconquista del controllo
padronale nell'organizzazione del lavoro. Quella sulla scala mobile, che
mise in discussione la garanzia del potere di acquisto dei salari di fronte
all'inflazione. La disfatta del 31 luglio 1992, che subordinò l'esercizio
stesso della contrattazione all'emergenza governativa. La precarizzazione
del lavoro e lo smantellamento progressivo dello stato sociale, furono tutte
prima o poi equilibrate da forme di patto sociale. Dal protocollo Scotti del
1983, all'intesa di luglio di dieci anni dopo, passando per decisivi accordi
aziendali alla Fiat e nelle grandi imprese pubbliche, fino agli accordi
sulle pensioni e sul mercato del lavoro, gli arretramenti sindacali sono
sempre stati accompagnati dalla definizione di un sistema di regole.

Sul piano macroeconomico si stabilivano le condizioni nelle quali
l'accresciuta competitività del sistema, sempre posta come prioritaria,
poteva tradursi in una parziale redistribuzione della ricchezza. All'interno
delle imprese si varavano invece le condizioni della partecipazione dei
lavoratori alle strategie competitive dei vertici aziendali, anch'esse
comunque assunte a priori.

Il sistema avrebbe potuto raggiungere un suo equilibrio, pur scontando i
costi sociali della caduta di autonomia del sindacato, se fosse cresciuta la
competitività economica assieme ad una moderata compensazione verso il
reddito dei lavoratori. Come è evidente non si è realizzato né l'uno né
l'altro di questi obiettivi e il sistema è saltato.

Proprio a Parma, nel 2001, alla vigilia delle elezioni politiche, la
Confindustria, senza neppure il dissenso di Tanzi, chiese al candidato
premier Silvio Berlusconi di mettere in discussione tutti gli equilibri
sociali. Ottenendo il caldo assenso del leader e la benedizione del
governatore della Banca d'Italia. Il sistema delle imprese italiane già
allora boccheggiava nella nuova dimensione dei mercati internazionali. Non
c'era ancora la crisi dei bond, ma le difficoltà delle imprese sì. Il patto
del 23 luglio 1993 era riuscito a far entrare l'Italia nell'euro, ma aveva
fallito il conseguente e necessario obiettivo di rafforzare il sistema
produttivo ed economico con la crescita degli investimenti e della qualità
competitiva. Anzi, la speculazione finanziaria si mangiava i profitti nati
dalla compressione del salario e dall'aumento della produttività. Giunto a
una nuova stretta, il sistema delle imprese ha scelto la strada di un
ulteriore taglio dei costi. Non potendosi più svalutare la moneta, si
dovrebbe svalutare poderosamente il sistema sociale. Per sopportare il
declino del sistema industriale occorre organizzare il declino del
sindacato. Si è venuto così a creare il paradosso secondo il quale mentre le
confederazioni praticavano la linea più moderata degli ultimi trent'anni,
dal padronato, dal governo, dagli esperti economici esse erano tacciate di
eccesso di rigidità.La Cisl e la Uil, com'è nella loro storia e natura,
hanno deciso che fosse inevitabile ricontrattare regole ed equilibri, anche
ad un livello più basso di prima. Con il Patto per l'Italia abbiamo
assistito a un breve ritorno della politica dello scambio. Ma
all'organizzazione sindacale, in cambio di una minore tutela dei diritti del
lavoro, era concesso solo un micragnoso diritto alla sopravvivenza. La Cgil
ha combattuto quell'intesa, ma sinora non ha costruito un adeguato
rinnovamento della piattaforma e della pratica sindacale. Si è creata, così,
una sorta di doppiezza. Forte tenuta sui principi generali e sul confronto
politico complessivo, debolezza concreta sul terreno della contrattazione.
La Fiom da sola ha cercato di costruire una linea conflittuale organica, che
trasferisse nei luoghi di lavoro il rifiuto delle scelte del governo e della
Confindustria. Altri hanno invece proceduto per inerzia e con continuità con
il passato. Forse sperando che le leggi del governo e le linee della
Confindustria restassero nei cieli delle dichiarazioni politiche, e non
diventassero invece concreta pratica delle imprese.

Si è giunti così al disastro degli autoferrotranvieri, ove Cgil, Cisl e Uil
hanno sottoscritto un'intesa sul salario che non raggiunge neppure quanto
previsto dalle "regole" e che, invece, rompe con i lavoratori. Ora solo il
referendum e il conseguente ritiro della firma dopo una bocciatura
dell'accordo, possono recuperare asprezze e rotture. Ma tutto questo ci
parla ancora della crisi di regole che non prevedono nessuna procedura
democratica di validazione degli accordi da parte dei lavoratori. Davanti a
noi c'è un bivio: o una vera democrazia sindacale, oppure frantumazione
sociale e autoritarismo. La vicenda dei tranvieri, il lungo scontro
contrattuale dei metalmeccanici, il documento delle associazioni degli
artigiani, le posizioni della Confindustria e del governo, indicano lo
stesso nodo. Dopo tutto il lavoro sporco sulla precarietà e la flessibilità
del lavoro, sulle pensioni, sul fisco, sulla scuola, resta solo da abbattere
il contratto nazionale, e poi il nostro paese sarà sull'autostrada che
conduce al modello sociale americano. A quel punto Silvio Berlusconi
potrebbe essere un peso inutile per tutti.

Il sistema concertativo degli anni Novanta è ancora troppo rigido e
garantista per un padronato che teme la Cina e vuole competere sul terreno
della svalutazione sociale. Nello stesso tempo esso serve ben poco, se
davvero si vuole una svolta sul terreno della politica economica e sociale.
La riaffermazione dell'autonomia rivendicativa del sindacato prima di tutto
sul salario e nella lotta alla precarietà, senza vincoli di sorta. La piena
partecipazione dei lavoratori alle scelte dell'organizzazione con una
democrazia referendaria rigorosa. La riconquista della cultura del conflitto
sociale e della sua funzione positiva ai fini dello sviluppo, costituiscono
le condizioni per impedire un nuovo degrado sociale e politico. Fermi non si
resta. O ci si rassegna al declino, sperando in qualche nicchia di
salvataggio, oppure lo si contrasta con la lotta e la democrazia. In mezzo
non c'è nulla se non il bidone vuoto.

*Segretario nazionale della Fiom