economia cinese e concorrenza



il manifesto - 02 Novembre 2003

I complici dell'economia del Logo

La polemica sui «cloni» cinesi di prodotti occidentali nasconde la
concorrenza sullo stesso terreno: lo sfruttamento dei margini di guadagno
che permette la notorietà del marchio. Un margine che deprime, spesso, gli
stimoli per la ricerca della migliore qualità del prodotto a vantaggio
dell'«immagine». Fino al paradosso di «cloni» fabbricati con materiali
migliori degli originali

FRANCO CARLINI

Molte ironie ha raccolto il ministro degli Esteri Franco Frattini per aver
acquistato, durante la visita ufficiale in Cina, un falso orologio Cartier,
al modico prezzo di 20 euro. Venerdì è stato ufficialmente difeso da Silvio
Berlusconi: «E' chiaro, e mi sembra logico, che il ministro competente a
parlare della lotta alla contraffazione debba avere la prova provata della
sua esistenza, mostrando un Cartier da 20 euro». E per una volta almeno, si
può essere d'accordo e non disturbare le agenzie di stampa con flussi di
dichiarazioni pro e contro. Ma vale la pena comunque di riflettere su
quell'oggetto e su quell'acquisto. Dunque in Cina, come peraltro in
moltissime italiche atrade, sono in vendita degli orologi che in tutto e per
tutto assomigliano a quelli targati Cartier o ai Rolex. Così come borse
praticamente identiche a quelle marchiate Vuitton o borsellini simil Prada.
Ma attenzione, perché questi oggetti, che convenzionalmente chiamiamo
«falsi», sono fatti di due elementi. Il primo, diciamo l'hardware, è
costituito dalla loro materialità: quadrante, cinturino, lancette,
ingranaggi, eccetera. Salvo nel caso che questi marchingegni siano coperti
da brevetto, chiunque può lecitamente fabbricarli e venderli e il fatto che
il loro insieme abbia un'apparenza del tutto simile a quello di marca, è
semplicemente frutto delle leggi del mercato le quali dicono che dove c'è
una domanda significativa da parte dei consumatori, lì corrono i
concorrenti; l'effetto virtuoso, di solito, è che i prezzi di quello che era
un prodotto unico e originale scendono verso il basso. Tutto ciò fa parte
del rischio d'impresa.

La presenza di orologi simil Cartier nelle strade di Pechino da questo punto
di vista dimostra due cose: non solo quella ovvia che il costo del lavoro in
Cina è bassissimo, ma anche il fatto che il prezzo di vendita dei Cartier
originali è altissimo. Questo dipende dal fatto che Cartier, Rolex, Dolce e
Gabbana e simili, non vendono solo hardware (la materia lavorata), ma anche
un software, che in questo caso è un'idea e soprattutto un valore simbolico
associato al loro marchio. Intere librerie di saggi economici sono dedicati
al valore aggiunto del logo. Grazie ad esso che è eterno, mentre i brevetti
sono a termine, alcuni creativi produttori che a suo tempo furono bravi
nell'ideare degli oggetti originali e dotati di personalità, prolungano nel
tempo e all'infinito la loro esclusiva. E sempre grazie al valore di questo
elemento immateriale, possono mantenere dei margini elevatissimi sui loro
prodotti, margini che non sarebbero invece giustificati dalla banale materia
che li costituisce. Così si spiega il fatto che il modello «Roadster» di
Cartier abbia un prezzo di listino di 3.950 dollari (pur senza contenere un
grammo d'oro, perché quelli a 18 carati come il «Tortue GM» vengono venduti
a 22.800 dollari).

In certi prodotti può addirittura succedere che la materia prima con cui le
imitazioni sono realizzate sia migliore di quella degli originali o che le
finiture siano più curate - e sempre a prezzo inferiore - ma in questo
mercato distorto, di cui i consumatori di Logo sono complici, non conviene
vendere i loro prodotti con un nuovo marchio, puntando sulla qualità;
preferiscono invece farsi parassiti della notorietà del brand altrui.

In sostanza nell'economia del Logo i detentori dei marchi e i loro imitatori
operano entrambi sul terreno del simbolico e non già sul valore d'uso delle
merci e su questo terreno sono contemporaneamente avversari feroci tra di
loro quanto complici di una «truffa» ai danni dei consumatori.
I quali a loro volta farebbero bene - questo il nostro consiglio - ad
acquistare a man bassa tutte le imitazioni lecite, stando invece alla larga
da quelle che, con un marchio contraffatto, perpetuano la mistificazione del
marchio esclusivo.
Dopo di che, la discussione sul falso e sull'originale resta comunque assai
complicata e si segmenta in mille rivoli diversi. Si prenda il caso della
Robiola di Roccaverano (appennino ligure-piemontese): per difenderne la
tipicità e l'originalità venne emesso un disciplinare che in maniera del
tutto assurda permette l'uso parziale di latte di vacca nella produzione di
questo formaggio eccelso che è invece storicamente un puro caprino. In
questo caso i produttori egoisticamente interessati a un marchio come che
sia, furono gli autori di un vero falso. Da qui un paradosso: una robiola
fatta in Sardegna con puro latte di capra e con le tecniche corrette va
classificata come falso, mentre una fatta con latte vaccino nel basso
Piemonte risulta autorizzata anche se il falso è lei. La Robiola Classica
(di pura capra) comunque esiste e sopravvive, grazie al presidio locale di
Slow Food, e questa è una buona notizia e un «marchio» di qualità e di
verità.