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il modello italia fine di un ciclo
- Subject: il modello italia fine di un ciclo
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Thu, 6 Nov 2003 07:59:57 +0100
da repubblica.it lunedi 20 ottobre 2003 Spiega Gros Pietro: "Noi sappiamo solo innovare, ossia prendiamo un prodotto già esistente e lo modifichiamo, vi aggiungiamo qualcosa. Insomma, assembliamo cose che esistono già. Nella ricerca, che è il futuro, siamo a zero" Il modello Italia ha finito il suo ciclo GIUSEPPE TURANI «Se non si cambia strada, le imprese italiane, e quindi il sistema Italia nel suo complesso, corrono seri rischi. In sostanza, fino a oggi siamo andati avanti facendo innovazione senza fare ricerca. Ma sappiamo che questo modello non paga, c'è il pericolo di finire fuori gioco». Il professor Gianmaria GrosPietro, presidente di Autostrade e professore di Economia manageriale all'Università di Torino, non è un allarmista, ma uno studioso pacato che ama mettere in fila numeri e fatti. Solo che secondo lui questa volta i fatti sono contro di noi. Che cosa significa innovazione senza ricerca? Sembra quasi una contraddizione. «No, nessuna contraddizione. Risulta dai dati ufficiali della Commissione europea. L'Italia è al primo posto, fra i 15 paesi europei, per quota di fatturato derivante da prodotti di nuova commercializzazione. Ma poi è all'undicesimo posto (insomma, in fondo in fondo ...) per numero di brevetti a alta tecnologia per milione di abitanti. Quindi siamo in testa per le innovazioni e in coda per quanto riguarda la ricerca in alta tecnologia». Continuo a non capire molto... «E' molto semplice. Quando si tratta di "inventare" dei prodotti nuovi (un nuovo tipo di scarpa, un nuovo tipo di doccia, un nuovo tipo di vestito, ecc.) siamo bravissimi. I nostri imprenditori non li batte proprio nessuno, almeno in Europa. Ma quando si tratta di fare ricerca seria, di base, sull'alta tecnologia, praticamente non esistiamo». Non si può nemmeno dire che copiamo. Che cosa facciamo esattamente? «Quello che ho appena detto: innoviamo i prodotti. Aggiungiamo nuove funzioni, introduciamo, se è il caso, l'ultima elettronica, miglioriamo il design. Questo facciamo. E, ripeto, siamo bravissimi». Ma perché siamo così "limitati"? «In realtà è molto semplice. Noi siamo il paese delle piccole e medie imprese e questo spiega già tutto. Aziende di questa dimensione non hanno le risorse per fare ricerca importante, di base. Allora si muovono in un altro modo. Si cercano una nicchia di mercato (che può essere le macchine per fare i gelati o le macchine per fare una certa lavorazione tessile o altro ancora). Poi vanno in giro per il mondo e comprano la miglior tecnologia disponibile, assemblano il tutto e fanno "macchine" (o altro) che sono certamente prodotti competitivi e interessanti. Ma tutto si ferma lì». E questo non va bene? «No. E almeno per due motivi. Da una parte è chiaro che si tratta di un lavoro che può fare qualunque paese che abbia raggiunto un certo livello di sviluppo. Insomma, è facile copiarci. Inoltre, è ovvio che questo lavoro di "applicazione" delle tecnologie esistenti non attira i giovani talenti, che preferiscono andare a lavorare altrove, e quindi perdiamo intelligenze importanti». Ma stiamo davvero perdendo quote di mercato a favore di altri? «E' stata fatta da Prometeia una ricerca sui tredici settori produttivi nei quali abbiamo perso più di quattro punti di quote sul mercato mondiale fra il 1990 e il 2001, con l'elenco dei paesi che invece in quegli stessi settori hanno avuto grandi progressi. Eccolo: Cina, Messico, India, Spagna, Stati Uniti, Indonesia, Polonia, Belgio, Francia, Taiwan. E' un elenco che parla da solo». Siamo messi così male? «Forse stiamo anche un po' peggio di quanto la gente non pensi». Cioè? «C'è un grafico che spiega molto bene come è la situazione italiana. In questo grafico sulle ascisse (la linea orizzontale) compare la quota media dell'Italia sul mercato mondiale nel periodo 19972000. Sulla linea verticale, quella delle ordinate, c'è invece la crescita media delle esportazioni mondiali nello stesso periodo. Sul grafico infine sono collocati i vari settori. E lì si vede subito che noi siamo molto forti soprattutto in quei settori (calzature, vetro, macchine agricole, ecc.) che contano poco sui mercati mondiali e che crescono anche pochissimo. Siamo invece molto poco presenti nei settori importanti e che crescono. Pochissimi esempi. Nelle calzature abbiamo quasi il 15 per cento del mercato mondiale, ma questo settore non cresce nemmeno dell'1 per cento all'anno. Nel vetroceramica abbiamo quasi il 13 per cento, ma il settore cresce dell'1 per cento all'anno. Il settore Information Technology cresce fra il 45 per cento all'anno, ma noi lì abbiamo meno dell'1 per cento come quota di mercato. Siamo dove non c'è molto futuro, ma non siamo dove il futuro è importante». E allora? «Se il grafico che le ho appena illustrato fosse riferito non a un paese ma all'insieme dei prodotti di un'azienda, il consiglio di amministrazione si riunirebbe e licenzierebbe l'amministratore delegato, accusandolo appunto di essere presente soprattutto dove non c'è futuro commerciale (e dove la concorrenza è più facile) e di essere assente invece dai settori dove l'avvenire è più promettente, dove si muovono le cose. Accusandolo in sostanza di aver fatto il contrario di quello che si dovrebbe fare». Tutto questo, secondo lei, è un rischio per l'Italia? «Sì. E molto grande. Con queste cose non bisogna scherzare. In questi giorni, mentre infuriavano le polemiche sulla "concorrenza sleale" della Cina (perché ha un costo del lavoro troppo basso), mi è tornata in mente una storia, che vale la pena di conoscere. Nell'Ottocento l'Inghilterra era il paese con il Pil/pro capite più alto del mondo, era il paese più ricco di tutti, insomma. E questo perché era stata leader della prima rivoluzione industriale, quella dell'industria tessile. Poi gli americani cominciano a fare "concorrenza sleale" (allora avevano un basso costo della mano d'opera perché erano all'inizio della loro industrializzazione). E in Inghilterra ci sono grosse polemiche contro l'America, grosso modo come quelle che oggi si fanno contro la Cina. Ebbene, prima della prima guerra mondiale l'America raggiunge l'Inghilterra come reddito pro capite e oggi l'Inghilterra è al sedicesimo posto nel mondo. Che cosa era successo?» E' lei il professore. «Gli americani non hanno battuto l'Inghilterra a forza di "concorrenza sleale". L'hanno battuta perché l'Inghilterra non è stata leader della seconda rivoluzione industriale, quella basata sull'auto, sull'energia elettrica e sull'organizzazione del lavoro. In questo leader è stata l'America, che quindi è passata in testa». Per noi questo che cosa significa? «Significa che alla fine vince non il costo del lavoro, ma vince chi sa cavalcare le rivoluzioni tecnologiche. Questi paesi che oggi ci fanno una concorrenza che noi riteniamo sleale possono cominciare in questo modo per mettere su un sistema industriale, un'economia, ma poi possono anche tentare di superarci se riescono a capire e a cavalcare il nuovo prima e meglio di noi. Insomma, quelli che oggi ci fanno una concorrenza aspra sulle scarpe e sui tessuti, domani potrebbero farcela su cose molto più serie. E questo sarebbe davvero un guaio. Sarebbe un guaio perché di colpo potremmo trovarci a avere una posizione molto marginale nel processo di produzione mondiale. Insomma, rischiamo di essere spinti, anno dopo anno, ai margini. Anche perché queste cose si muovono molto in fretta. Nel. 1870 gli Stati Uniti avevano meno del 9 per cento del Pil mondiale, nel 1913 erano già arrivati al 20 per cento. La Cina nel 1978 aveva meno del 5 per cento del Pil mondiale, si stima che nel 2020 arriverà al 15 per cento. Come vede, c'è una certa fretta, bisogna muoversi rapidamente». Quindi lei è convinto che dovremmo fare più ricerca di base. «Assolutamente. Alla fine quella che paga è la ricerca di base. Certo, è quella più difficile da fare perché richiede molti mezzi e si corre il rischio che si concluda in niente. Però, quando va bene, è quella che ripaga davvero, che mette al sicuro. La cosa da capire è questa: non esiste soluzione di continuità fra ricerca di base, ricerca applicata e sviluppo. I l premio Nobel italiano Giacconi (che ha vinto per i suoi successi nell'astronomia a raggi X) ha raccontato per che per fare la sua ricerca ha dovuto inventarsi tutto, comprese le macchine per guardare il cielo. Dei suoi collaboratori, poi, hanno preso questa ricerca molto innovativa, l'hanno sviluppata e oggi queste sono le macchine con cui si ispezionano i bagagli in tutti gli aeroporti del mondo. Ma si potrebbero fare moltissimi altri esempi». Ma, come ha spiegato lei prima, noi siamo soprattutto un paese di piccole e medie imprese. Come si fa a lanciarsi nella ricerca di base? «Intanto bisognerebbe cercare di rimuovere parte delle cause che impediscono al sistema industriale italiano di diventare un po' più consistente». Nell'attesa si può fare qualcosa? «Sì, si deve». Ma come? «I soggetti interessati alla ricerca sono sostanzialmente tre: la ricerca pubblica (università, laboratori, ecc.), le imprese e il sistema finanziario. Oggi questi tre mondi in Italia sono tre mondi separati, ognuno va per la propria strada. Bisogna invertire questo modo di comportarsi. Bisogna che questi tre mondi comunichino. Bisogna che le persone che lavorano in questi tre mondi possano circolare, scambiarsi posti e esperienze. Bisogna, in sostanza, che questi tre mondi diventino un unico mondo dentro al quale si fa ricerca di base. Questo comporta cambiare abitudini, leggi, statuti, ecc. So bene che non è una cosa semplice, ma va fatta e in fretta. Ripeto: l'azienda Italia si presenta oggi con una gamma di prodotti talmente sbilanciata verso il "vecchio" per cui ci sarebbe da licenziare subito il suo amministratore delegato. Ma, al di là della battuta, bisogna rimettere in funzione il meccanismo della ricerca, assolutamente». Ma la "nuova" rivoluzione industriale intorno a che cosa gira? «Cinque sono le cose importanti: la microelettronica, l'information technology, le biotecnologie, le nanotecnologie e i nuovi materiali. Chi resta fuori da queste aree di ricerca, chi non ha e non avrà niente da dire in proposito, non potrà che avere una posizione marginale nel mondo dei prossimi anni».
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