politiche industriali italia-europa



dalla rivista del manifesto

 ottobre 2003

Politiche industriali: Italia-Europa

PROMEMORIA PER LA SINISTRA
Luciano Gallino

Ogni volta che vengono riproposte si resta colpiti dalla povertà teorica e
pratica delle riforme che la Confindustria e il governo vorrebbero attuare
allo scopo di accrescere la 'competitività e la capacità di sviluppo' della
economia italiana 1. Sono ispirate da criteri ben noti: meno tasse e
contributi a carico delle imprese; maggior flessibilità del mercato del
lavoro; riduzione della spesa pubblica per pensioni e sanità. Il fatto che
tali riforme siano pressoché identiche, nella sostanza, a quelle che la UE
raccomanda da tempo a tutti i paesi membri non ne riduce la pochezza;
dimostra semmai che l'ideologia neoliberale o liberista che le sottende ha
radici profonde nelle istituzioni europee, quanto ampie ramificazioni nei
diversi paesi. Ove si faccia mente alle condizioni critiche in cui versa il
nostro apparato produttivo, derivanti dalla marcata contrazione quanto dalla
sparizione in pochi lustri di interi settori industriali, appare sin troppo
agevole inferire che al fine di elaborare le linee di una politica capace di
migliorare dette condizioni i criteri ispiratori dovrebbero essere assai
differenti. Peraltro, in un paese che da quasi quarant'anni non ha prodotto
un quadro organico di politica industriale, chiedere quali mai potrebbero
essere tali criteri è di per sé una domanda impegnativa.
Per muovere qualche passo in tale direzione può essere utile il concetto di
'Standort', termine traducibile come 'posizione di un paese comparata
all'economia internazionale'. Il concetto di 'posizione comparata', che non
si esaurisce nelle ricorrenti quanto rudimentali classifiche della
competitività a base di benchmarkings (ricerca del prodotto leader), ha dato
origine a numerose elaborazioni teoriche, programmi politici e ricerche
empiriche soprattutto in Germania - ovviamente declinato come Standort
Deutschland. Dalla relativa letteratura possono venire, a giudizio di chi
scrive, suggerimenti interessanti qualora si voglia tentar di riavviare una
discussione sulla politica industriale in Italia. Va da sé che non si tratta
di prendere a modello l'industria o la politica economica tedesche, quanto
di cercar di capire in qual modo il concetto di 'Standort Italia' potrebbe
contribuire a delimitare un programma quadro di politica industriale, dopo
che per decenni esso sembra esser stato rimosso non soltanto dalla prassi,
ma perfino dalla coscienza delle forze economiche e delle forze politiche
del paese, incluse quelle di sinistra.
Tra coordinate dello Standort (d'ora innanzi S.) e contenuti di una politica
industriale intercorre una relazione ricorsiva assai stretta. Una politica
industriale dovrebbe puntare a migliorare lo S. di un paese; ma se lo S. di
questo è tra mediocre e pessimo - è il caso dell'Italia - le coordinate del
medesimo pongono severi limiti alla pronta elaborazione di una politica
efficace. Trasformare tale spirale perversa in una spirale virtuosa - la
politica industriale che migliora lo S. il quale permette di impostare una
politica più incisiva - dovrebbe essere l'obiettivo di un programma politico
prima ancora che di una politica economica.
La nozione di S. porta a individuare vari aspetti topici di una politica
industriale. Tra questi si collocano:
- il modo di concepire e affrontare la sfida della globalizzazione; -
investimenti pregressi e presenti in formazione e ricerca; - capacità
tecnologiche e settori produttivi da sviluppare; - organizzazione del
governo e politica industriale; - politica industriale, mercato del lavoro e
politiche sociali Proverò ad esaminare brevemente ciascuno di questi aspetti
in riferimento al nostro paese.
Globalizzazione. La nozione di S. propone di scegliere tra differenti schemi
interpretativi sia della globalizzazione che dei suoi effetti in diversi
campi. Stando alla versione neoliberale essa consiste nello sviluppo d'un
sistema economico operante in tempo reale in ogni regione del pianeta. A
tale schema interpretativo si può opporne un altro: la globalizzazione
intesa come un progetto di formazione sociale vasta come il mondo, nel quale
gli elementi economici sono inseparabili da quelli politici, culturali ed
ecologici. Quanto agli effetti, lo schema neoliberale li desume dall'idea
portante di 'vincolo': la globalizzazione potrà dispiegare i suoi effetti
positivi solamente se saranno rimossi tutti i vincoli ovunque esistenti al
libero impiego della forza lavoro, alla circolazione dei capitali, al
commercio internazionale. Sono i vincoli del mercato del lavoro che
producono un tasso elevato di disoccupazione, così come un costo del lavoro
elevato perché gravato da troppi contributi obbligatori rende le imprese
poco competitive sul mercato internazionale. Da questa idea portante
derivano i pressanti inviti alla deregolazione, che significa in concreto
ridurre il costo del lavoro, le prestazioni dello Stato sociale, il potere
dei sindacati.
Uno schema alternativo potrebbe partire dalla constatazione che non esiste
alcuna evidenza empirica capace di corroborare l'ipotesi che un costo del
lavoro elevato riduca la competitività, oppure quella che la regolazione del
mercato del lavoro generi disoccupazione. Al riguardo il caso Germania
presenta per il caso italiano particolare interesse. Anche in quel paese la
maggioranza degli studiosi, dei politici e dei media, si legge in un recente
rapporto sullo S. Deutschland, condivide l'opinione che mercati del lavoro
ingessati e sistemi di sicurezza sociale ostili alla competitività siano
responsabili della situazione difficile che sta attraversando l'economia
tedesca. Un'accurata analisi dei relativi dati porta però alla conclusione
che gli argomenti dei 'de-regolatori radicali' non poggiano su fondamenta
solide né dal punto di vista teorico né da quello empirico 2. Si può
aggiungere che pur facendo registrare un costo del lavoro più elevato di
quello italiano di circa il 40%, l'economia tedesca è una formidabile
macchina esportatrice di prodotti aventi contenuti tecnologici medio-alti,
capace di generare un sopravvanzo degli scambi commerciali superiore a
quello di ogni altro paese industriale.
Formazione e ricerca. È un ambito dove lo S. Italia risulta particolarmente
carente. L'Italia produce laureati in materie scientifiche e
ingegneristiche, nella fascia d'età compresa tra i 20 e i 29 anni, in misura
pari alla metà della media UE (il 5,6% contro il 10,3). Il tasso di
popolazione provvisto d'un titolo di studio di terzo livello, nella fascia
di età 25-64 anni, è il più basso della UE, appena il 10,3% contro il 21,2
in media; il 23% e oltre di Francia e Germania; il 28,5 del Regno Unito. Per
quanto riguarda specificamente le forze di lavoro, in Germania la quota di
coloro che posseggono un diploma di maturità, o di formazione professionale,
o entrambi, tocca l'80%. Al contrario in Italia, nel 2001 (ultimo dato
disponibile), tra i 21,5 milioni di occupati rilevati dall'ISTAT ben 10,2
milioni, ossia oltre il 47%, avevano un titolo di studio che non andava al
di là della licenza di scuola media inferiore. Nessun altro paese UE
presenta un tasso di scolarità delle forze di lavoro occupate altrettanto
basso. Tasso che non deriva ovviamente da una scarsa propensione agli studi
degli italiani, quanto dalla composizione della domanda che le imprese
italiane hanno rivolto per decenni al mercato del lavoro in base a una
definita politica tecnologico-organizzativa: sostituire ovunque sia
possibile il lavoro qualificato con le macchine, e impiegare per il resto
forza lavoro poco qualificata.
La quota di PIL destinata a spese per ricerca e sviluppo da parte della mano
pubblica si aggira sullo 0,5%, contro lo 0,7 della media europea; in
proporzione, la quota fornita dalle imprese è ancora minore, poco più dello
0,5 contro l'1,3% della media UE, al disopra della quale si collocano
Francia, Belgio, Germania, mentre ancora più lontane sono Finlandia e
Svezia, con oltre il 2,7%: il che vuol dire oltre cinque volte la quota di
PIL spesa in Ricerca & Sviluppo (R&S) dalle imprese italiane. La percentuale
delle piccole e medie imprese coinvolte in progetti di cooperazione per
promuovere l'innovazione è di nuovo il più basso della UE (meno del 5%),
mentre Francia, Olanda, Germania e Regno Unito presentano percentuali triple
o più che triple, mentre Finlandia, Irlanda, Svezia e Danimarca superano
l'Italia tra le quattro e le nove volte.
Capacità tecnologiche e settori produttivi da sviluppare. La nozione di S.
porta a questo proposito a formulare due considerazioni e un corollario. Le
considerazioni sono: 1. la grande importanza come fattore di traino
dell'innovazione tecnologica di settori industriali sovente considerati
maturi e quindi tecnologicamente infertili; 2. il peso economico che hanno
assunto in pochissimi anni due tecnologie avanzatissime: le optotecnologie
(o tecnologie ottiche, o tecnologie della luce) e le nanotecnologie. Il
corollario: l'Italia appare in cattiva posizione sul primo punto, e ha ormai
accumulato un ritardo - industriale più che scientifico - probabilmente
incolmabile nello sviluppo delle tecnologie anzidette.
Un settore industriale che è stato definito di volta in volta maturo,
tradizionale, destinato a essere praticato entro pochi anni soltanto nei
paesi in via di sviluppo, ma che per contro mostra d'avere proprio nei paesi
avanzati una eccezionale capacità quantitativa e qualitativa di traino
tecnologico è l'automobile. Esso continua a sollecitare innovazioni
fondamentali in altri settori che vanno dai nuovi materiali metallici e non
metallici all'elettronica, dalla chimica alle optotecnologie. Traendone a
sua volta cospicui vantaggi in tema di qualità del prodotto, di efficienza
del ciclo produttivo, di capacità di creare occupazione e pagare alti
salari, e di fare buoni profitti. Grazie allo stabilirsi di tale circolo
virtuoso, le case tedesche come Volkswagen e Mercedes (la parte locale della
DaimlerChrysler), BMW e Porsche stanno attraversando un periodo di solida
prosperità. Pagano alti salari, al di sopra dei 2500 euro al mese; assumono
personale a ritmi costanti sul lungo periodo, tanto che l'occupazione del
settore (ivi compresi i fornitori) ha toccato nel 2002 quota 764.000, con un
incremento di 100.000 unità rispetto al 1995; hanno costruito o stanno
costruendo, oltre a quelli localizzati all'estero, nuovi stabilimenti e
centri di ricerca in varie regioni del paese. Il loro fatturato complessivo
ha superato nel 2002, quando hanno prodotto all'interno 5,5 milioni di
veicoli (e 12,7 milioni nel mondo), i 202 miliardi di euro. Tra i fattori
della rinnovata vitalità dell'auto tedesca si collocano gli investimenti in
nuovi impianti per oltre 46 miliardi di euro effettuati tra il 1996 e il
2000, e i 30 miliardi di euro spesi in R&S solo nel biennio 2001-2002 3.
In termini di posizione comparata, si può notare che il fatturato
dell'industria tedesca corrisponde oggi a oltre nove volte il totale dei
ricavi netti di FIAT Auto per il 2002, essendo questi ultimi stati indicati
dalla stessa casa in 22,1 miliardi di euro (o 23,3 se vi si include la
Ferrari) per circa 2 milioni di veicoli prodotti nel mondo. Una ventina di
anni fa, il fatturato dell'autoindustria tedesca era grosso modo equivalente
a sole due volte quello dell'industria italiana, e quando si fossero
detratti i marchi di lusso BMW, Mercedes e Porsche non era lontano dalla
parità.
Le commesse e il sostegno alla ricerca dell'industria automobilistica hanno
contribuito in Germania al forte sviluppo delle optotecnologie o tecnologie
ottiche. Esse si ritrovano in lavorazioni industriali di eccezionale finezza
e produttività mediante apparati laser; in terapie mediche e chirurgiche
fondate sulla luce; in reti di comunicazione fotoniche aventi una capacità
di trasmissione dieci milioni di volte superiore a quella di una connessione
ISDN. La litografia è il settore delle optotecnologie che ha conosciuto i
maggiori sviluppi industriali, grazie all'impiego sempre più esteso di
apparati specializzati nella laser-incisione dei circuiti di
microprocessori.
Il fatturato complessivo delle aziende tedesche operanti nel settore delle
tecnologie ottiche ha superato nel 2002 i 4 miliardi di euro. La Germania è
leader mondiale nel campo degli apparati laser per usi industriali, dove
detiene il 40% del mercato; negli altri campi segue da vicino il Giappone e
gli Stati Uniti. In Italia si può stimare che la ricerca di base nel campo
delle tecnologie ottiche sia abbastanza avanzata, dato il gran numero di
dipartimenti universitari e di centri di ricerca del sistema pubblico che se
ne occupano. Anche aziende come la Pirelli hanno effettuato investimenti
consistenti nella ricerca sulle fibre ottiche (salvo errore, 400 milioni di
euro nel 2002). Peraltro sotto il profilo industriale vari segni non
lasciano intravvedere un forte sviluppo del settore delle optotecnologie nel
nostro paese. La francese Alcatel gestiva a Vimercate un centro di ricerca e
reparti di produzione che hanno conseguito negli ultimi anni risultati
apprezzabili in termini sia di brevetti sia di produzione. Però il primo
agosto 2003 la casa madre Alcatel ha ceduto l'intero comparto
optoelettronico alla statunitense Avanex (codice Nasdaq AVX); cosa accadrà a
Vimercate non è dato sapere. La realizzazione di una grande rete fotonica
della Omnitel/Vodafone è stata affidata alla inglese Marconi. Il Centro di
Tecnologie ottiche dello CSELT, il grande centro di ricerca e sviluppo della
telefonia che fu della STET, poi di Telecom, è stato ceduto alla Agilent
Technologies nei primi mesi del 2000. Dopodiché, l'anno seguente lo CSELT è
stato di fatto smantellato dalla Telecom.
Le nanotecnologie non hanno ancora raggiunto la diffusione e il peso
economico delle optotecnologie, ma i loro usi industriali cominciano a
essere tangibili in USA e in Germania. Il mercato mondiale a queste
collegato ha superato da tempo i 50 miliardi di euro l'anno. Tra queste
rientrano diversissimi processi di fabbricazione, applicazioni e prodotti
(come le nanomacchine) che hanno in comune il fatto di aggirarsi in un campo
di grandezze compreso tra 1 e 100 nanometri (un nanometro = un milionesimo
di millimetro). Da molti esperti le nanotecnologie sono considerate quelle
che maggiormente impronteranno il XXI secolo. La ricerca e la produzione in
campi che vanno dall'elettronica alla farmaceutica, dalle macchine utensili
alla protezione ambientale ne saranno rivoluzionati. In Germania il
Bundesministerium für Bildung und Forschung (ministero federale per la
Formazione e la Ricerca) ha costituito sei centri di competenza ai quali
partecipano le imprese e i centri di ricerca interessati alle
nanotecnologie. L'attività di tali centri è concentrata in campi quali i
nanomateriali; i rivestimenti ultrasottili; l'impiego di nanostrutture
nell'optoelettronica; la lavorazione ultraprecisa di superfici; strutture e
macchine nanometriche. Nulla del genere sembra essere stato istituito in
Italia. In totale il sostegno statale per lo sviluppo della nanoscienza e
delle nanotecnologie è stato in Germania, per il 2000, di 63 milioni di
Euro, e poco meno negli anni precedenti. In Italia esso ha toccato appena la
decima parte, 6,3 milioni di Euro. Una situazione del genere lascia
prevedere - e lo stesso vale in maggior misura per le tecnologie ottiche -
che quando il mercato mondiale avrà raggiunto le dimensioni globali
previste, la quasi totalità di esso risulterà occupato dall'industria di
altri paesi.
Organizzazione del governo e politica industriale. Concezione e
realizzazione d'una efficace politica industriale presuppongono l'esistenza
di un ente centrale che la coordini e se ne faccia carico. La partecipazione
dei gruppi economici, dei sindacati, delle associazioni di categoria, delle
forze politiche è ovviamente essenziale, ma le loro domande e proposte
debbono alla fine essere elaborate in modo unitario da un singolo organo al
quale viene demandato sia di formulare esso stesso proposte innovative, sia
di mettere in pratica le linee che sono state collettivamente concordate. Un
simile ente non può che far parte dell'organizzazione del governo nazionale.
In tutti i paesi industriali un simile ente compare con evidenza
nell'organigramma governativo, di solito entro un singolo ministero, al
massimo due.
In Italia le potenziali competenze e gli eventuali poteri di concezione e
attuazione d'una politica industriale sono sparsi tra almeno quattro
ministeri (o tre e mezzo, giacché uno è senza portafoglio). In ogni caso le
prime come i secondi appaiono evanescenti. Il ministero dell'Economia e
delle Finanze possiede ancora importanti quote azionarie di grandi imprese
(ENEL, Finmeccanica, Fincantieri, ecc.), ma per individuare
nell'organigramma qualcuno che se ne occupi bisogna scendere fino alla
Direzione VII del dipartimento del Tesoro. Per scoprire poi che essa si
limita a funzioni quali: monitoraggio delle partecipazioni finanziarie
pubbliche; esercizio dei diritti dell'azionista; gestione dei processi di
dismissione e di privatizzazione. Da parte sua il ministero delle Attività
produttive si articola in quattro dipartimenti - Mercato,
Internazionalizzazione, Imprese, Reti - le cui descrizioni funzionali non
comprendono alcun riferimento specifico a settori industriali e tecnologie
da sviluppare in via preferenziale, fatte salve le solite menzioni effusive
quanto generiche alle ICT (Information and Communication Technology).
Queste ultime sono la specialità del ministro per l'Innovazione e le
Tecnologie, che giustamente sono messe in risalto nell'organigramma del suo
ministero senza portafoglio, ma nelle quali sembrano esaurirsi tutte le
tecnologie esistenti. Chi intravveda il titolo del principale documento
proposto dal suo sito - Le cinque grandi iniziative per modernizzare
tecnologicamente l'Italia - può credere per un momento di trovarsi dinanzi a
un programma di politica industriale e tecnologica a 360 gradi. Ma deve
ricredersi non appena apra l'indice: le 'grandi iniziative' consistono
infatti in PC e Internet agli italiani; Carta d'identità elettronica;
Innovazione nei grandi sistemi nazionali (sanità, scuola); Diffusione ICT
nelle imprese; Federalismo efficiente (con la precisazione che l'obiettivo è
un "modello di Pubblica Amministrazione efficiente decentrato, ma integrato
con le tecnologie di rete").
Resta il ministero dell'Istruzione dell'Università e della Ricerca (MIUR).
Nella parte URST (Università e Ricerca Scientifica e Tecnologica)
dell'organizzazione del MIUR l'unico ente che appare occuparsi di tecnologia
e ricerca industriale è il Servizio per il potenziamento dell'attività di
ricerca. Peraltro la descrizione delle sue funzioni mette subito in chiaro
che esso non si occupa di definire determinate priorità
scientifico-tecnologiche per poi contribuire a porre in essere le condizioni
per la loro attuazione, con l'intervento programmato di attori pubblici e
privati - l'essenza di una politica industriale - quanto di sovrintendere
alle modalità di concessione di agevolazioni alla ricerca industriale in
generale, avendo particolare cura nel non privilegiare alcuna particolare
linea di essa.
A differenza dell'Italia, i ministeri dell'economia e della ricerca dei
maggiori paesi europei mostrano d'avere una organizzazione strutturata in
modo da conferire sin dai massimi livelli competenze e responsabilità
specifiche nel campo della politica industriale e tecnologica. Il
Bundesministerium für Wirtschaft und Arbeit (BMWA) della Germania comprende
dodici Abteilungen o dipartimenti, facenti capo a sei sottosegretari, che
posseggono ampi poteri di iniziativa e di coordinamento in campi quali la
politica economica (A. I); l'industria e la protezione ambientale (A. IV);
la politica della tecnologia e dell'innovazione (A. VI); le piccole e medie
imprese, l'artigianato, i servizi (A. VIII); l'energia (A. IX). Va
sottolineato che dopo l'accorpamento nel settembre 2002 delle competenze
prima assegnate al ministero del Lavoro, altri dipartimenti del BMWA
collocati allo stesso livello dei precedenti si occupano di politica del
mercato del lavoro (A. II) e di diritto e tutela del lavoro (A. III). Sempre
in Germania, l'analogo del MIUR, il Bundesministerium für Bildung und
Forschung, comprende un dipartimento Informazione, Comunicazione e nuove
Tecnologie, articolato in sezioni che si occupano specificamente, tra
l'altro, della promozione di ricerca, sviluppo e applicazioni industriali in
settori quali nanomateriali, nanoelettronica e nanosistemi; sistemi e
tecnologie di produzione; tecnologie ottiche; microsistemi; brevetti;
software per l'IC.
Nel Regno Unito il ministro complessivamente responsabile del Department of
Trade and Industry sovrintende all'attività di tre ministri e due
sottosegretari, su un totale di sei, che si occupano tutti primariamente di
temi connessi alla politica industriale: a. energia, sviluppo sostenibile,
industrie delle comunicazioni e dell'informazione; b. industria e corporate
governance; c. politiche commerciali ed esportazione; d. piccola e media
industria (PMI), costruzioni, beni e servizi per il consumatore; e. scienza
e tecnologia, politiche dell'innovazione, bioscienza e prodotti chimici.
Quanto alla Francia, subito al disotto del Ministre de l'Economie, des
Finances et de l'Industrie, si trova un altro ministro con delega - attuata
per il tramite di altrettante direzioni generali - per l'industria e le
tecnologie dell'informazione; l'energia e le materie prime; le tecnologie
dell'informazione; la sicurezza nucleare e la radioprotezione.
In Italia, al vuoto organizzativo a livello di governo in tema di politica
industriale pare corrispondere, in una infeconda relazione dialettica, il
vuoto delle idee. Si veda il rapporto L'economia industriale italiana.
Tendenze, prospettive, politiche, predisposto nella primavera del 2003 dal
ministero delle Attività produttive (MAP) in vista del semestre di
presidenza italiana della UE. Vi si legge: "La politica industriale è
orizzontale per natura e mira ad assicurare le condizioni generali
favorevoli alla competitività dell'industria. [...] In ogni caso la politica
industriale ha bisogno di tener conto delle necessità specifiche e delle
peculiarità di ogni settore. Perciò, inevitabilmente la politica industriale
unisce una base orizzontale e applicazioni settoriali" (p. 29). Una volta
edotto in modo sì penetrante dei caratteri della politica industriale, il
lettore viene informato circa le politiche orizzontali del MAP. Si esplicano
in cinque campi: 1. energia. Qui "l'obiettivo è duplice: più offerta di
energia; più liberalizzazioni e semplificazioni". 2. Sperimentazione
preindustriale, "per costituire uno zoccolo duro tecnologico a disposizione
delle imprese, specie di quelle di dimensioni minori". 3. Sostegno
finanziario alle imprese che applichino - nullameno - "le più avanzate
tecnologie IC ai loro modelli organizzativi". 4. Internazionalizzazione
delle imprese, mediante un'apposita "autostrada per
l'internazionalizzazione". 5. Credito alle PMI (pp. 31-33). Se le politiche
orizzontali appaiono alquanto indefinite, si può passare alle applicazioni
settoriali, poiché "Il MAP tiene conto delle necessità specifiche e delle
peculiarità di molti settori industriali. A titolo esemplificativo: "a.
chimica - il ministero è impegnato: nell'elaborazione di nuove linee
politiche di rilancio della chimica italiana; nella conseguente
riconversione dei siti produttivi [...]. b. Auto - il ministero ha
coordinato un Tavolo con la partecipazione della presidenza del Consiglio,
del ministero del Welfare, di FIAT e delle organizzazioni sindacali, che
nello scorso mese di novembre 2002 ha analizzato il piano industriale di
FIAT Auto [...]. c. Meccanica: - il ministero cura gli approfondimenti del
Piano nazionale dell'industria meccanica [...]" (pp. 33-34).
Una lettrice o un lettore potrebbero sentirsi insoddisfatti per la
circostanza che mentre il nostro MAP discute, quanto a obiettivi di politica
industriale, di crediti alle PMI, di riconversione di siti produttivi e di
tavoli per analizzare piani industriali di aziende in crisi, i ministeri
dell'industria di Germania, Francia e Regno Unito tracciano vasti e
dettagliati programmi di sviluppo in settori che si chiamano aerospaziale;
nanotecnologie; biotecnologie; tecnologie ottiche e optoelettroniche; nuove
fonti energetiche. Lei o lui potrebbero allora provare a rivolgersi alle
Linee guida per la politica scientifica e tecnologia del governo, documento
interministeriale dell'aprile 2002. In effetti le affermazioni di principio,
seppur di tono scolastico, appaiono qui avere quantomeno presenti gli
aspetti più rilevanti d'una politica tecnologico-industriale: "Bioscienza,
Nanoscienza ed Infoscienza, opportunamente orientate dall'etica dei valori,
tendono a caratterizzarsi come i motori della crescita e dello sviluppo
sostenibile nei prossimi decenni" (p. 10) Tuttavia, quando uno cerchi di
afferrare quali sono i contenuti del "nuovo approccio strategico della
politica scientifica nazionale", si imbatte in una lunga serie di asserzioni
d'una disarmante genericità: "puntare sullo sviluppo e sull'emersione delle
capacità innovative delle PMI"; "realizzare [...] strutture di eccellenza
idonee ad attrarre investimenti italiani e stranieri in settori produttivi
caratterizzati da un'alta intensità di conoscenza"; "promuovere la crescita
nei ricercatori pubblici di nuova imprenditorialità in settori ad elevato
contenuto tecnologico"; "incentivare le relazioni tra Scienza e impresa...".
Seguono alcune tabelle che indicano in qual misura una serie di "tecnologie
abilitanti", tipo le biotecnologie, la microelettronica o la optoelettronica
interagiscono positivamente su alcuni settori prioritari. Da queste si
ricavano indicazioni particolarmente chiarificatrici per meglio comprendere
i nessi tra tecnologia e industria. Viene prospettato, ad esempio, che
l'informatica avanzata interagisce positivamente con l'informatica e le
telecomunicazioni, mentre le biotecnologie interagiscono molto con il
settore salute e poco con i beni culturali. (pp. 12-16, e Tab. 2).
Politica industriale e politiche sociali. Una politica industriale è al
tempo stesso, se non forse prima di tutto, un atto politico, in specie di
politica sociale. A seconda di come viene ideata e realizzata essa risulterà
capace di arricchire i ricchi e impoverire i poveri, oppure di ridurre la
distanza sociale tra le due classi; di rendere l'occupazione più o meno
sicura, il lavoro più o meno gratificante, la società più civile o più
barbara. Ad onta delle dottrine neoliberali, uno S. collocantesi nella parte
alta della scala non richiede affatto che la politica industriale sia
progettata in modo da peggiorare intenzionalmente tutti i suddetti
indicatori della qualità di una società, come accade quando mercato e
imprese sono liberate da ogni vincolo. Tuttavia una politica industriale che
non sia disegnata avendo nel proprio nucleo un orientamento esplicito a far
sì che i suoi diversi strumenti producano il meglio di una politica sociale,
piuttosto che il peggio, equivale a sottoscrivere un impegno a favore di
quest'ultimo.
Per riassumere e precisare gli argomenti sin qui svolti:
- l'indicatore più attendibile dello S. di un paese è lo stato del suo
apparato industriale. Negli ultimi lustri l'Italia ha perso o fortemente
ridotto la sua capacità industriale in settori di permanente rilevanza
strategica quali l'informatica e la chimica, l'aeronautica civile e
l'elettromeccanica high tech. Perciò, sebbene il tasso di sviluppo attuale
del PIL sia in essa analogo a quello dei maggiori paesi UE, lo S. Italia si
colloca parecchio al disotto della loro media.
- Il grave indebolimento produttivo e finanziario dell'industria
automobilistica ha di fatto privato l'Italia di uno dei settori dotati di
maggior capacità di traino dell'innovazione tecnologica a vantaggio
dell'intera economia. Con l'aggravante che in Italia non ne esiste più
nessun altro.
- Nel campo delle tecnologie ottiche - una delle due o tre tecnologie di cui
è ormai evidente la rilevantissima incidenza che avranno per decenni
sull'economia di questo secolo - ad onta del numero e della qualità dei suoi
centri di ricerca la produzione industriale italiana appare ormai in grave
ritardo a confronto degli altri paesi europei. È pertanto assai probabile
che l'Italia possa puntare al massimo, a medio termine, ad occupare qualche
modesta nicchia specializzata sul mercato internazionale. Nel campo delle
nanotecnologie le prospettive sono ancora peggiori.
- Laddove volesse competere nella fascia medio-alta, sotto il profilo
tecnologico, delle produzioni industriali del prossimo futuro, l'Italia
dovrebbe puntare ad elevare rapidamente di almeno tre anni il livello medio
di formazione professionale del 50%, quello meno scolarizzato, delle sue
forze di lavoro.
- A differenza di tutti i principali paesi UE, l'Italia non dispone di una
struttura di governo nemmeno lontanamente idonea a concepire e realizzare
una politica industriale, che è fatta di scelte risolute in tema di R&S e di
produzione, di ordini di priorità e di azioni conseguenti. Peraltro è
proprio questo l'ambito in cui dovrebbe essere più agevole per una nuova
maggioranza, e finanziariamente meno proibitivo, avviare una riforma
incisiva, ridisegnando la struttura e le funzioni dei ministeri. Se qualcuno
nel centro-sinistra stesse mai lavorando a un programma per le prossime
elezioni, suggerirei di farsi un appunto a tal fine. Potrebbe anche essere
l'occasione per infondere un contenuto moderno e realistico all'idea finora
fantasmatica a sinistra, e prettamente reazionaria a destra, di
modernizzazione.
Una politica industriale dovrebbe includere tra i suoi capitoli salienti
proposte finalizzate a far sì che gli interventi nel campo della struttura
produttiva, delle tecnologie, dell'istruzione e della ricerca producano,
insieme con un miglioramento dello S. Italia, anche beni pubblici globali
quali minori disuguaglianze; maggior sicurezza dell'occupazione e del
reddito; uno sviluppo quantitativo e qualitativo della produzione e dei
consumi tale da renderli sostenibili; un livello più elevato di protezione e
riproduzione dell'ambiente. Al presente, in relazione a quasi tutti questi
punti l'Italia e l'UE procedono, anche sotto il profilo delle direttive
istituzionali, in direzione contraria. Pure qui s'attende che qualcuno batta
un colpo, a sinistra.


note:
1  Le ho brevemente analizzate nell'ultimo capitolo di La scomparsa
dell'Italia industriale, Einaudi, Torino 2003.
2  E. Hein, B. Mülhaupt, A. Truger, Wirtschafts- und Sozialwissenschaftliche
Forschungsinstitut, WSI - Standortbericht 2003: Standort Deutschland - Reif
für radikale Reformen?, "WSI Mitteilungen", giugno 2003, pp. 331-343. Il Wsi
è un affermato istituto di ricerche sui rapporti tra sviluppo economico e
condizioni di lavoro.
3  Un ampio servizio sull'industria dell'auto in Germania, definita una
efficiente Job Maschine, è stato pubblicato da "Der Spiegel", 8 settembre
2003. Altri dati si possono trovare nel rapporto del Bundesministerium für
Wirtschaft und Technologie (dal settembre 2002 Bundesministerium für
Wirtschaft und Arbeit - BMWA) su Die Deutsche Industrie. Europa- und
Weltweit in der ersten Reihe, del 2001, disponibile on line, e nel sito del
BMWA, sotto Wirtschaft/Branchenfocus/ Automobilindustrie.