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pensioni leggende e verità
- Subject: pensioni leggende e verità
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Wed, 24 Sep 2003 06:42:21 +0200
il manifesto - 21 Settembre 2003POLITICApagina 05 Quei maledetti ultracinquantenni PAOLO ANDRUCCIOLI «Vogliono solo far cassa» P. A. Quei maledetti ultracinquantenni Ecco le leggende metropolitane su cui poggia la riforma previdenziale di Berlusconi. La pensione di invalidità viene usata più in Europa che da noi. L'allungamento dell'età pensionabile produrrà solo più disoccupati. Tra i giovani e tra gli anziani PAOLO ANDRUCCIOLI In Italia si eliminano le pensioni di anzianità, si alza il tetto di uscita dal lavoro e si riducono e si tagliano le pensioni di invalidità, considerate dalla Lega (ma non solo) uno scandalo nazionale. Tutti gli interventi sulle pensioni vengono giustificati sulla base delle pressioni internazionali, a cominciare ovviamente dall'Europa. Non si parla però mai di quello che succede negli altri paesi europei, dove non esistono le pensioni di anzianità come le nostre, ma esistono forme di sostegno al reddito e di accompagnamento alla pensione di vecchiaia che sono ancora più «forti» delle pensioni di anzianità italiane. Così come nessuno si azzarda a parlare delle pensioni di invalidità olandesi o della «pensione part time» in Austria, Danimarca, Spagna e Francia. Della Francia e della Germania si racconta solo che stanno per fare una riforma delle pensioni (tra l'altro molti anni dopo l'Italia che le ha fatte negli anni novanta). Ma nessuno (o quasi nessuno) parla delle forme di assistenza e degli interventi statali di sostegno ai lavoratori anziani, che si praticano appunto proprio in Germania e Francia. Così la nuova «riforma» delle pensioni italiana si basa su dogmi indiscutibili. Alcuni di questi hanno un riscontro effettivo - come l'invecchiamento progressivo delle società europee - altri sono invece luoghi comuni, che non hanno riscontro nella realtà. Due di questi luoghi comuni hanno pervaso il dibattito politico da parecchi mesi e si possono sintetizzare più o meno così. Il primo: visto che le società invecchiano e che cambierà presto il rapporto tra lavoratori attivi e pensionati, allora - per rendere sostenibili i sistemi - alziamo l'età pensionabile, ovvero rimandiamo il più possibile nel tempo l'uscita dal mercato del lavoro. L'elevamento dell'età pensionabile - si dice in tutte le sedi, dal Fondo monetario alla Banca mondiale, passando per l'Ocse e i vertici del G7 - produrrà due effetti positivi: la riduzione dei costi e una maggiore partecipazione degli anziani al mercato del lavoro. Niente di più falso. Gli studi e le proiezioni europee mostrano invece uno scenario molto diverso, mentre già da ora si può smontare facilmente il luogo comune sull'Italia che spenderebbe di più in pensioni di anzianità e in invalidità. La pensione di invalidità è invece largamente utilizzata in Europa. In molti paesi, si legge in uno studio del professor Geroldi sui dati Esspros (Sistema europeo di statistiche integrate sulla protezione sociale), l'invalidità rappresenta un percorso di uscita flessibile dal mercato del lavoro e offre tra l'altro tassi di copertura più alti delle pensioni. In Olanda, per esempio, l'invalidità è il primo canale di uscita per i lavoratori anziani. Nel 1998, secondo uno studio olandese (Ageing in the Netherlands del 2000), circa un terzo della popolazione maschile tra i 55 e i 64 anni riceveva una prestazioni di invalidità. A parte la Gran Bretagna e l'Irlanda che consentono l'accesso alle pensioni di invalidità solo ai soggetti totalmente invalidi per qualsiasi lavoro, tutti gli altri paesi europei permettono - scrive Gianni Geroldi nel suo saggio sulle integrazioni di reddito dei lavoratori anziani - l'erogazione di prestazioni assistenziali in presenza di tassi di invalidità che partono da valori minimi del 15% in Olanda e del 25% in Svezia. Alcuni paesi differenziano le prestazioni in due (in Germania per esempio) o tre (Spagna e Finlandia) parti, legando la prima parte a criteri strettamente medici e la seconda o terza parte anche a criteri socioeconomici. Detto in altri termini: l'Italia non è affatto una eccezione per le sue pensioni di invalidità. Quasi tutti i paesi europei (fatta eccezione per l'Inghilterra che per le pensioni è davvero un caso a parte), usano l'invalidità un po' come da noi si usa la pensione di anzianità o il prepensionamento. La pensioni di invalidità viene infatti sostituita alla pensione di vecchiaia al compimento dell'età legale di pensionamento. Se si vanno a vedere i dati statistici, quelli dell'Esspros, o di qualsiasi altra fonte istituzionale europea o internazionale, ci si rende conto in Europa l'Italia non è affatto la più spendacciona, anzi è spesso alla coda delle politiche sociali. Ma ora ci interessa vedere più da vicino l'altra leggenda metropolitana, quella che sostiene che allungando l'età pensionabile si aumenterà l'occupazione, sia dei giovani, che degli anziani. Gli studiosi più attenti mettono in evidenza un dato semplice: se all'aumento dell'età pensionabile non si affiancheranno altre misure di sostegno all'occupazione e di diversa impostazione dell'organizzazione del lavoro e dei tempi di lavoro, l'esito del prolungamento dell'età potrebbe essere paradossalmente il contrario di quello che si sostiene. I vincoli che vengono imposti per andare in pensione e gli incentivi proposti da Maroni potrebbero cioè produrre una maggiore divaricazione tra i tassi di attività e i tassi di occupazione. Anche nell'ultimo rapporto Inpdap si analizza la crescita dei tassi di disoccupazione dei lavoratori ultracinquantenni. Negli ultimi tre o quattro anni si registra un fenomeno davvero preoccupante o opposto a quello che si sostiene normalmente, l'aumento del tasso di attività, ma la diminuzione dell'occupazione effettiva dei lavoratori anziani. «I tassi di disoccupazione dei lavoratori ultracinquantenni - si legge nel rapporto Inpdap 2002 sullo stato sociale - sono in termini relativi aumentati e hanno superato quelli dell'età centrale». Studi statistici dimostrano che se cresce il tasso di attività più del tasso di occupazione, si verificherà un aumento del tasso di disoccupazione. Quello del lavoro degli ultracinquantenni sarà quindi davvero un problema economico e sociale che non si risolverà con l'aumento progressivo dell'età pensionabile e con gli incentivi. E sarà una questione in crescita visto che nel 2000 in Europa la percentuale della popolazione tra i 55 e i 64 anni era pari al 16% dell'intera popolazione. Nel 2050 raggiungerà la soglia del 49%, mezza Europa sopra i cinquant'anni. Ma se l'aumento dell'età e la fine delle pensioni di anzianità non produrrà maggiore occupazione tra gli anziani, non è neppure detto che la produrrà tra i giovani. Anzi, come scrive Giovanni Mazzetti in un testo sulle pensioni che sta per uscire con l'editore Bollati Boringhieri («Il pensionato furioso»), è molto probabile che il blocco dei pensionamenti e l'allungamento della vita lavorativa avranno «un effetto esattamente opposto rispetto a quello che viene immaginato dai rigoristi», ovvero avranno come primo vero effetto l'esclusione di centinaia di migliaia di giovani. Questo perché del problema si prende appunto solo un corno: l'età, mentre non si fa nulla per allargare davvero il mercato del lavoro (si aumenta solo la precarietà) e la formazione. Ma tanto per i luoghi comuni e le leggende metropolitane bastano le ricette semplici come quelle dell'Ocse: rimanete al lavoro più che potete. «Vogliono solo far cassa» P. A. «Vogliono solo far cassa» L'economista Gianni Geroldi evidenzia le contraddizioni del governo sulle pensioni P. A. Martedì il governo illustrerà la finanziaria e la riforma delle pensioni alle parti sociali. Manca poco, quindi, al momento della verità. Nel frattempo si accavallano le anticipazioni e le smentite, anche se le linee di intervento del governo sono ormai chiare. Abbiamo chiesto a Gianni Geroldi, docente di economia all'università di Parma, che è stato consulente del governo ai tempi della riforma Dini, quali saranno gli effetti prevedibili dell'innalzamento dell'età pensionabile e la decisione di eliminare l'istitututo delle pensioni di anzianità. Professore qual è il suo giudizio sulla riforma delle pensioni del governo Berlusconi? Prima di tutto bisogna chiarire che non si tratta di una riforma, perché è in realtà una sommatoria di interventi diversi, alcuni perfino in contraddizione tra loro, che puntano a un unico obiettivo: quello di ridurre i costi del sistema previdenziale pubblico. Anche se non si farà cassa con le pensioni da subito come era stato preannunciato, è evidente che lo scopo principale delle misure proposte è quello di ridurre la spesa per pensioni. Inoltre, non si tratta di una riforma perché non è inserita in nessun quadro di insieme, come invece dovrebbe essere se fosse una riforma vera. Si vuole per esempio aumentare l'età pensionabile, ma non si sa che cosa fare per aumentare davvero la partecipazione dei lavoratori cinquantenni e ultracinquantenni al mercato del lavoro, che invece li espelle. E questo è solo uno dei tanti esempi di misure contraddittorie. Gli interventi del governo partono dal presupposto, dato per oggettivo e rilanciato dall'Ocse e dal G7, che i sistemi pubblici non reggono l'invecchiamento progressivo delle nostre società. In Europa esiste uno strumento di coordinamento delle politiche del welfare e delle pensioni, un osservatorio e un punto di riferimento per gli interventi nazionali. Ebbene, sia in quella sede, che in tutte le altri sedi europee si sono stabiliti i tre punti su cui devono poggiare tutte le riforme dei sistemi previdenziali. Il primo punto è la sostenibilità finanziaria, il secondo l'adattabilità (ovvero il superamento delle rigidità delle prestazioni che fino a oggi sono state nazionali e che invece ora potrebbero avere bisogno di flessibilità, visto che i lavoratori si possono spostare da un paese all'altro). Infine, il terzo punto è l'adeguatezza. Quando si parla di pensioni, si parla solo ed esclusivamente di sostenibilità finanziaria, in altre parole della capacità dei sistemi di reggere l'invecchiamento. In realtà, sono fondamentali anche i problemi dell'adattabilità (versare i contributi in un paese e trasferirli poi in un altro) e i problemi dell'adeguatezza. Anzi, io penso che quest'ultimo sia il punto più delicato e più strategico per gli anni a venire, proprio perché mette in gioco l'aumento del tasso di dipendenza degli anziani legato all'invecchiamento. Per cercare di contrastare i fenomeni demografici c'è il grave rischio di accentuare il pericolo di esclusione sociale per le carriere di lavoro e per le fasce più deboli. Aumentare la permanenza al lavoro è diventato ormai un punto su cui tutti concordano, mentre si sostiene che in Italia si fugge troppo presto. E' vero? In realtà anche questo è un luogo comune che non è suffragato dai dati. La media europea di uscita dal lavoro è infatti sui 59 anni. E l'Italia è perfettamente in media. Il governo italiano scambia però una manovra strutturale con una manovra per tagliare la spesa pubblica. Aumentare l'età è solo un pezzo del discorso, ma da solo non è sufficiente e soprattutto non risolve i problemi. Io penso che se da una parte è duro per i sindacati contrastare la politica degli incentivi del ministro Maroni, sarebbe però anche sbagliato accettarla senza mettere in campo una vera politica del lavoro che aumenti la partecipazione effettiva dei lavoratori ultracinquantenni al mercato del lavoro. Nel Regno unito l'età è più alta, e il tasso di attività è maggiore, ma se si guardano bene le statistiche si scopre che è anche il paese dove è più alta la disoccupazione degli anziani e dove sono più necessari i trasferimenti monetari per le fasce di età tra i 50 e i 55 anni. Così, una politica di incentivi slegata dal resto, cioè da un inserimento effettivo dei lavoratori anziani, risulta fasulla.
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