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il capitale scopre l'etica ?
- Subject: il capitale scopre l'etica ?
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Sat, 20 Sep 2003 12:47:04 +0200
il manifesto - 02 Settembre 2003 Il capitale ora scopre l'etica? Si fa molta confusione tra finanza etica, responsabilità sociale dell'impresa, economia non profit. Cerchiamo di fare il punto sul dibattito e sulle esperienze davvero alternative alla finanza tradizionale ALESSANDRO MESSINA Il rapporto tra etica ed economia è un filone di indagine che negli ultimi dieci anni è particolarmente cresciuto. Oltre ad un'attività teorica si è osservata, e forse in modo ancora più significativo (è il caso dell'Italia), una emersione di nuove pratiche ed esperienze che cadono a vario titolo sotto la duplice categoria del «rapporto tra economia ed etica» e della «responsabilità sociale delle imprese». Dalle Nazioni Unite alla Commissione Europea sono numerosi i documenti in cui si chiede alle imprese di «eticizzare» i propri comportamenti. E il governo italiano ha inserito la responsabilità sociale delle imprese tra le priorità del semestre europeo. Il tema del rapporto tra etica ed economia diventa sempre più importante. In una recente ricerca è emerso che il 58% dei cittadini europei (64% in Italia) ritiene che il mondo economico non dedichi sufficiente attenzione alla responsabilità sociale. Tra questi cittadini il 25% (20% in Italia) considera molto importante nella scelta dei propri acquisti l'impegno e la responsabilità sociale dell'azienda produttrice e il 44% (16% in Italia) è disposto a riconoscere un valore maggiore a questi prodotti, accettando un prezzo più alto. La domanda di etica, inevitabilmente genera il suo mercato e crea i suoi strumenti. Il marketing sociale anche in Italia si sta affermando per la comunicazione del marchio e l'intercettazione di nuovi consumatori: secondo l'Upa (Utenti Pubblicità Associati), il 75% delle aziende italiane ha realizzato un'operazione di marketing sociale negli ultimi due anni. D'altro canto, di fronte ai danni ambientali, alle produzioni considerate immorali (armi, tabacco, alcool) e a comportamenti contrari ai diritti umani fondamentali (come il lavoro minorile) vi sono movimenti di cittadini che nel tempo hanno maturato capacità di lobbying, di pressione, di sensibilizzazione dell'opinione pubblica con il fine di ottenere maggiore trasparenza e attenzione a queste tematiche da parte delle imprese. Da queste spinte dal basso e dalle esperienze concrete è derivato lo sviluppo dei codici di condotta, del bilancio sociale, dei marchi di qualità sociale, degli investimenti socialmente responsabili. I codici di condotta sono adottati dalle imprese e resi pubblici per esplicitare quali sono i valori di riferimento che guidano le prassi aziendali. Va detto, però, che in questi codici è difficile trovare impegni concreti e spesso anche i principi espressi sono vaghi e ben inferiori, da un punto di vista qualitativo, rispetto ai pur generici standard previsti dalle organizzazioni internazionali (in particolare quelli dell'Oil, l'Organizzazione internazionale del lavoro). Solitamente ai codici di condotta (o codici etici) viene affiancato il bilancio sociale, una rappresentazione dell'impatto ambientale e sociale dell'attività dell'impresa. Strumento sempre più diffuso di marketing e comunicazione per la promozione dell'immagine aziendale (sponsorizzazioni, azioni «buone»), il bilancio sociale ha progressivamente perso la sua natura di controllo interno rispetto alla efficacia sociale della attività dell'impresa. I marchi di qualità sociale sono in un certo senso lo specchio dei codici di condotta sui prodotti. Riproducono infatti sulle etichette delle confezioni alcune sintetiche descrizioni su come quel prodotto è stato (o più comunemente, come non è stato) ottenuto. Ben più complessa e ambiziosa è la sfida degli investimenti socialmente responsabili. Negli Usa, il mercato dei prodotti finanziari responsabili ha raggiunto nel 1999 un valore di circa 2200 miliardi di dollari. In Europa erano nel 2002 circa 300 i fondi che facevano riferimento a criteri ambientali e sociali. A indicare che il legame tra finanza e comportamento delle imprese è sempre più in voga, soprattutto negli Stati uniti, è il successo del Dow Jones Sustainability World Index (DJSWI), fratello minore del famoso indice di borsa. Si tratta di un indice che raccoglie soltanto quei titoli che, presenti nel Dow Jones tradizionale, hanno ottenuto i punteggi più alti in termini di sostenibilità. Altro strumento che segue l'approccio culturale anglosassone è quello della certificazione sociale. Si tratta dell'ancora poco diffuso SA 8000, standard internazionale di certificazione «sociale», il cui obiettivo è proprio verificare la rispondenza dei comportamenti e dei bilanci delle imprese alle stesse (vaghe) regole elaborate dall'Onu o dalle sue agenzie. Proprio nel 1999 l'Onu ha lanciato al World Economic Forum di Davos il Global Compact, una piattaforma di confronto per le imprese che accettino di promuovere principi e buone prassi relativamente ai diritti umani, al lavoro e all'ambiente. Il lavoro dell'Onu non si distingue certo per originalità e non mette in discussione nessuna delle regole di comportamento delle imprese, soprattutto per le grandi multinazionali e transnazionali. In ogni caso l'Onu, ben conscia degli scarsi strumenti a sua disposizione, mette le mani avanti: «il controllo e la verifica delle pratiche aziendali non rientra all'interno del mandato o tra le capacità istituzionali delle Nazioni Unite». Ciò nonostante il Global compact ha fatto scuola. È infatti nella cornice delineata dal lavoro dell'ONU che la Commissione Europea ha voluto inserire il suo Green paper (Libro verde) sulla responsabilità sociale delle imprese. Pur rappresentando un passo avanti rispetto a quello ONU il documento della Commissione Europea (più attento ai diritti dei lavoratori e all'uso delle risorse ambientali) ha un approccio vago e asistemico su alcuni aspetti cruciali: formazione, pari opportunità, politiche non discriminatorie, stabilità dei posti di lavoro, diritti umani. E chiudiamo con l'Italia. Come si ricordava all'inizio, il governo italiano ha inserito tra le priorità del semestre europeo la responsabilità sociale delle imprese. Maroni in testa, i nostrani berluscones spacciano per azione culturale l'ennesimo tentativo di liberare i capitali dai controlli di governi e sindacati. Concedendo alle imprese - meglio se multinazionali - di scegliere come e su cosa darsi delle regole (che non si provi a parlare di vincoli). Al modesto prezzo di un po' di beneficenza. Come quella di cui parla ripetutamente nei tanti convegni su etica ed economia, finanza etica, impresa sociale ecc. promossi da gatti e volpi varie del business: dalla finanza assetata di rifarsi un'immagine (con Banca Intesa, tra le prime banche armate italiane, in prima linea), a Confindustria e Assolombarda, dal Sole24ore al suo surrogato nonprofit Vita. Il nonprofit autentico ha scelto invece un'altra strada: quella dei diritti - e non della beneficenza - dell'altra economia, della trasformazione sociale.
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