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ricerca e innovazione in italia
- Subject: ricerca e innovazione in italia
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Thu, 4 Sep 2003 08:02:46 +0200
il manifesto - 02 Settembre 2003 Alla ricerca della ricerca perduta A parole, tutti sono d'accordo. Poi però i centri di innovazione sono mortificati, i fondi tagliati, le risorse sprecate, le intelligenze disperse. E guardare quello che fanno gli altri fa rabbrividire MARIO PIANTA Abbiate pazienza. Oltre allo sforzo di tornare a lavorare, studiare o a cercare lavoro, dovreste ricordarvi in che condizioni è l'economia italiana: non buone. Ma tutti quelli che hanno fatto quest'anno vacanze più brevi lo sanno già.Siamo in recessione: il prodotto interno lordo (Pil) del secondo trimestre 2003 è sceso dello 0,1% rispetto al trimestre precedente, mentre i prezzi al consumo sono cresciuti a luglio del 2,7% rispetto ad un anno prima, assai più in fretta che negli altri paesi europei. Sta frenando soprattutto la produzione industriale, che nei primi sei mesi dell'anno è dell'1,7% inferiore a quella del primo semestre 2002. Se guardiamo un po' più indietro, ci spiega l'Istat, l'industria italiana oggi produce meno che nel 2000. La novità importante è che anche le esportazioni perdono colpi. Dopo anni di buoni risultati, la bilancia commerciale nei primi cinque mesi del 2003 ha avuto i conti in rosso per 3,8 miliardi di euro, mentre un anno prima c'era un avanzo di 1,2 miliardi di euro. Il buco è quasi interamente dovuto agli scambi interni all'Unione Europea (con cui si era in rosso già un anno fa). Se in passato le esportazioni nette italiane verso il resto del mondo coprivano l'eccesso di importazioni dal resto d'Europa, adesso non bastano più. E questo aiuta a spiegare le preoccupazioni estive del ministro dell'economia sulla concorrenza «cinese» che toglie mercati ai produttori italiani.Il risultato, prevedibile, è che cala l'occupazione nelle grandi imprese - dell'1% tra maggio 2003 e maggio 2002 - e fatti 100 gli addetti del 2000, oggi siamo scesi a 95,4. Il numero di occupati totali è invece salito dell'1,4% rispetto all'aprile 2002, grazie a 150 mila occupati in più tra i 50 e i 59 anni che lavorano nei servizi nel centro-nord del paese. La disoccupazione resta all'8, 9%. I guai anche nella bilancia commerciale sono seri perché la domanda estera è stata negli ultimi anni lo stimolo maggiore per la produzione italiana (in qualche misura, lo stesso vale per l'Europa). Compensava il ristagno della domanda interna, fatta di consumi in crescita lenta (visto che i salari reali diminuiscono da tempo), spesa pubblica ferma e investimenti in caduta. Di qui i timori che la spirale della recessione si aggravi in Italia proprio mentre la ripresa fa capolino nelle maggiori economie occidentali.Scopriamo così che i guai non sono (solo) legati al ciclo economico negativo, dipendono da che cosa produce, vende e compra l'Italia, e a quali prezzi: dalla sua struttura produttiva e dalla sua competitività. Ma ci sono due tipi di competitività: quella «cinese» dei prezzi bassi per beni ordinari, e quella «europea» di prezzi alti per beni acquistati per la loro qualità. Se per il modello «cinese» servono bassi salari e assenza di tutele sul lavoro, per una competitività «europea» servono saperi, ricerca, nuovi prodotti di qualità, e un sistema innovativo che funzioni bene. In Italia la spesa per ricerca e sviluppo (R&S), esclusa quella universitaria, era nel 2002 di 9,7 miliardi di euro, ed è diminuita in termini reali rispetto al 2001. L'intera spesa per R&S è ferma a poco più dell'1% del Pil italiano, mentre i maggiori paesi europei spendono il 3%. Questo ritardo non è una novità, ma mentre dieci anni fa spendevamo la metà dei nostri cugini europei, ora spendiamo un terzo. Poco male, dicono alcuni, la ricerca conta poco per le prestazioni delle imprese italiane, piccole, flessibili e presenti in settori in cui è normale non farne. Vediamo allora quanta innovazione si fa, con o senza ricerca, sulla base di una nuova importante indagine promossa da Eurostat. Nel 2000 le imprese italiane hanno speso 6,2 miliardi di euro per R&S, ma se calcoliamo anche la spesa per progettazione, formazione e investimenti in macchinari e impianti innovativi arriviamo a oltre 25 miliardi, pari a 9300 euro per addetto nell'industria e a 3600 nei servizi. E' vero che su questi dati la distanza rispetto ai maggiori paesi europei si riduce un po', ma l'Italia resta nella parte bassa della classifica. I risultati delle attività innovative mettono l'Italia nella stessa zona a «rischio retrocessione». Tra il 1998 e il 2000 solo 38 imprese su 100 hanno introdotto un'innovazione di prodotto o di processo in Italia, contro il 63% della Germania e valori oltre il 40% per i maggiori paesi europei. Nei servizi siamo al 24% contro il 53 della Germania e il 40 dei paesi del nord Europa. Di quali innovazioni si tratta? Ad esempio, di nuovi prodotti che creano mercati e occupazione, o di nuovi processi che ristrutturano le imprese e riducono la forza lavoro? In Italia il 30% delle imprese che innovano lo fanno solo con nuovi processi, più di quante innovino solo nei prodotti (23% nell'industria, 26% nei servizi; il resto innova in entrambi); già a metà degli anni `90 l'Italia, Spagna e Portogallo erano gli unici paesi europei ad avere più imprese che innovavano nei processi di quante introducessero nuovi prodotti. E i dati Istat ci mostrano che le innovazioni di processo dominano i settori tradizionali - dal tessile al legno - e le regioni del nord-est. Se aggiungiamo che la spesa per innovazione in Italia è fatta per metà di acquisto di nuovi macchinari che permettono minori costi e minore occupazione, troviamo che le imprese italiane hanno in mente una competitività che va nella direzione di quella «cinese» più che verso quella «europea». Dal modello europeo ci si è allontanati a grandi passi: l'ultima grande scivolata della spesa per ricerca delle imprese ha coinciso con l'ondata delle privatizzazioni: per prima cosa, in nome dell'efficienza, i nuovi proprietari privati hanno tagliato i laboratori di ricerca e sviluppo. E, quando si trattava di imprese straniere (come insegnano le vicende di Italtel, Enichem, Nuovo Pignone) subito dopo sono state ridimensionate le capacità produttive.Meno stato, meno ricerca, più efficienza? Che strano, però, trovare nei rapporti di Mediobanca che ancor oggi i profitti più alti li fanno le imprese semi o ex pubbliche. La paziente costruzione di competenze tecnologiche e produttive nei mercati protetti dall'intervento pubblico dà ancora frutti per gli azionisti di oggi. Sarebbe una buona ragione per evitare la frettolosa liquidazione di capacità produttive pubbliche e private che, una volta distrutte, è difficile ricostruire: una lezione da ricordare a proposito della crisi della Fiat (e che viene argomentata in uno speciale nell'ultimo numero della rivista Economia e Politica Industriale). Lasciate da sole, le imprese italiane hanno mostrato di non investire a sufficienza in nuove conoscenze, prodotti e mercati: non decollano nuove produzioni, e quelle esistenti hanno il fiato corto. In effetti, per una competitività «europea» servirebbe anche una struttura produttiva fatta di imprese medio-grandi (che piace alla Banca d'Italia), un rapporto stretto tra banche e imprese per finanziare l'innovazione e la crescita delle imprese (che piace meno), la capacità di tenere la proprietà in mani nazionali (che in Italia sembra non piacere a nessuno). E poi (sorpresa, sorpresa) un ruolo forte dello stato, come negli altri paesi avanzati, per guidare la formazione di nuove capacità e competenze di imprese e lavoratori nelle direzioni in cui si rivolge la domanda, individuale e collettiva, di nuovi beni e servizi.
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