conflitto a obbiettivo variabile



il manifesto - 22 Marzo 2003

Conflitto a obiettivo variabile
ANGELO D'ORSI

Conflitto a obiettivo variabile
Una guerra asimmetrica, illegittima sul piano giuridico e illegale su quello
dei rapporti internazionali. Ma la sua caratteristica più specifica sta
nell'essere una guerra contro l'Onu, perdipiù condotta da un paese membro
Black House «Dall'aut aut all'ultimatum, in una escalation cui sono del
tutto indifferenti le ragioni dell'intervento militare»
ANGELO D'ORSI
Gli storici sono sempre alla caccia di eventi che indichino discontinuità,
rotture nel flusso del tempo, eventi epocali, insomma, che possano
distinguere un'era da un'altra, una fase dalla seguente, un periodo da un
altro: è, appunto, quell'operazione che ha nome «periodizzazione». I
metodologi della storia anzi sostengono che proprio in questo difficile, e
spesso assai soggettivo esercizio, accanto a quello volto a individuare le
cause di un evento, si misuri l'intelligenza dello storico. Si corrono molti
rischi, a periodizzare; specie quando si pretende di farlo a caldo. Abbiamo
così avuto il 9 novembre 1989 (abbattimento del Muro), il dicembre 1991
(scioglimento dell'Urss), e poi l'11 settembre 2001, con le sue Torri
Gemelle. Tutte date legittimamente indicate come periodizzanti; e lascio
perdere gli argomenti a favore o contro.

E ora? Non possiamo vedere nell'attacco a Baghdad da parte angloamericana un
evento epocale? Se fossimo seguaci della numerologia potremmo scorgere nella
stessa data - 20 03 2003 - un dato, magari per qualcuno sinistramente
premonitore. Ma non lo siamo e ci fermiamo agli elementi di sostanza.

Che cosa dunque potrebbe indurci domani a leggere in questa data un segno di
trapasso da un'epoca all'altra? Non è difficile. Da un decennio e oltre -
dopo il biennio '89-91, con il crollo della seconda superpotenza e il
passaggio da sistema bipolare a sistema monopolare e monopolistico -
cerchiamo di definire le «nuove guerre»: guerre asimmetriche, guerre non
dichiarate, guerre «per la democrazia», guerre «umanitarie», «chirurgiche» o
addirittura «etiche»...; guerre «non guerre», per certi versi; «operazioni
di polizia», o con un certo macabro sense of humour, «operazioni di peace
keeping»; ma, per altri versi, guerre totali: ossia indirizzate
prevalentemente contro i civili, contro il territorio, contro l'ambiente;
guerre terroristiche, spesso combattute da bande invece che da eserciti, con
collusioni tra forze armate e criminalità comune, con conseguenti
contaminazioni tra operazioni militari e regolamenti di conti, grassazioni,
mercati paralleli di tipo privato e, naturalmente, illegale. Ciascuna delle
guerre degli ultimi anni mostra ad abundantiam uno o più di questi aspetti.

Che cos'ha di nuovo questa Seconda Guerra del Golfo? Certo è assolutamente
asimmetrica: non solo nel senso della mostruosa disuguaglianza di mezzi e di
forze, ma nel senso che uno dei due contendenti non è neppure in grado di
reagire, e il suo ruolo consiste nell'incassare, come un pugile che aspetti
il gong: il problema è che qui non c'è arbitro, e dunque la sola possibilità
è che chi colpisce presto o tardi si stanchi o si vergogni di farlo.
Inoltre, ancora una volta si tratta di una guerra non dichiarata (ma
reiteratamente e clamorosamente annunciata, o piuttosto minacciata);
soprattutto, non è legittimata da alcun appiglio, per quanto fragile ed
evanescente, di diritto internazionale; e inoltre non è resa nemmeno
surrettiziamente legale da alcun organismo internazionale, compresa la
stessa Alleanza Atlantica e la sua organizzazione militare, la Nato. È
dunque una guerra illegittima sul piano giuridico, illegale su quello della
morale comune nell'ambito delle relazioni internazionali.

Tuttavia, ciò rappresenta situazioni solo relativamente nuove. Più
dirompente è il dato che questa guerra non solo non è «autorizzata», magari
implicitamente nel senso che non è stata sconfessata, dall'Onu; ma
addirittura trattasi di una guerra contro l'Onu, ossia contro la volontà
delle Nazioni Unite, per di più condotta da un paese membro che non paga i
suoi contributi all'Organizzazione da anni, e che rappresenta la più grande
potenza militare, economica, finanziaria mondiale. Rilevante, benché non
decisiva, la novità relativa della sua natura «preventiva» (una guerra fatta
per impedire di nuocere prima che il contendente abbia nuociuto, ma
addirittura prima che si sia provato che egli possa nuocere). In definitiva,
a me pare che, pur collegato ai precedenti, il fatto più nuovo consiste
forse nella sua natura di guerra «a obiettivo variabile».

Inizialmente, da parte di Bush jr., del suo staff e dei suoi «alleati» (il
termine merita sempre le virgolette, quando una piccola potenza si allea con
una grande, istituendosi sempre un rapporto di natura servile), si è
giustificato il minacciato intervento con la suprema ragione della lotta al
terrorismo: e anzi ne era una specie di conseguenza: non si è catturato Bin
Laden (definito non a caso, a giustificazione dei fallimenti, «imprendibile»
e simili), proviamo con il più facile Saddam e il suo Iraq sfibrato da un
dodicennio di embargo che ha fatto un milione e mezzo di vittime innocenti,
che ha distrutto l'economia, ridotto al minimo le infrastrutture, quasi
eliminato armi in grado di impensierire un qualsivoglia avversario. In un
secondo tempo, si è annunciato che la guerra la si sarebbe fatta per
esportare la democrazia in quello Stato che non godeva i benefici del libero
pensiero e della libera sua espressione; ma poi, per slittamenti
progressivi, dopo aver sostenuto che, democrazia o no, era il satrapo
crudele Saddam (ossia il servo infedele, o se si preferisce il mostro
generato dalla macchina americana ribellatosi ai suoi «inventori») a
doversene andare. Ciò veniva annunciato, urbi et orbi, non da un «Terzo»,
bensì dal nemico stesso che, minaccioso, forte del proprio strapotere,
calcolava l'umiliazione del gioco bastone/carota: se te ne vai puoi avere
salva la vita tua e dei tuoi familiari; se non te ne vai ti prenderemo vivo
o, preferibilmente morto. Nel volgere di pochi giorni l'aut aut si è poi
tramutato in un secco «ultimatum», di poche ore; come se non bastasse, però,
si è giunti, da parte proprio di coloro che lo avevano emesso, a violarlo,
smentendo così anche la saggezza di Platone che sosteneva che anche tra i
banditi delle leggi sono necessarie. Non pago, il nuovo Signore del Mondo,
ormai convinto di avere Dio (ma quale?) al suo fianco, invasato come un
telepredicatore, non si peritava di precisare che anche se l'ultimatum fosse
stato accolto, e il rais se ne fosse andato in esilio, l'occupazione del
paese ci sarebbe comunque stata. «Pacificamente», ma sarebbe stata portata
sino in fondo.

Insomma, l'importante per GWB era farla, questa benedetta guerra; non
importa perché; non importa come, ma presto, un presto che a un certo punto
è diventato un «subito», in un'escalation che dobbiamo immaginare anche
interiore alla psiche del soggetto, in una forma che ha incominciato ad
avere analogie con accessi paranoici; non importa con chi (ad un tratto si
ricorderà che da Washington si è sibilato che gli Usa non avevano bisogno
dell'aiuto degli alleati britannici, che parevano recalcitrare), non importa
per quale scopo. «Questa guerra s'ha da fare»: immaginiamo un nervoso Mister
President che si aggira per le stanze, i corridoi, i giardini, i saloni
della White House, ripetendo ossessivo questa frase, don Abbondio reso
coraggioso solo della potenza delle armi di sterminio di massa stivate nei
silos del «Grande Paese». Armi peraltro bisognose di manutenzione o di
smaltimento, e dunque il secondo assai meno costoso e più produttivo per le
industrie belliche della prima: dunque desiderose, quelle armi, di involarsi
verso target qualsivoglia, pur di lasciar spazio alle successive generazioni
di missili, bombe da 10 chilotoni (potenza da Hiroshima, senza il fall out
radioattivo), di elicotteri superarmati, di fortezze volanti e così via.
Armi provviste di proiettili all'uranio impoverito, i cui effetti
apparentemente ignoti sono in realtà notissimi agli scienziati degni di
questo nome; e le prove delle loro catastrofiche risultanze sono così
terribili che forse potrebbero convincere persino il più sciocco degli
ignoranti, purché in buona fede. E chi avesse dei dubbi non ha che da
cercare le immagini dei bambini nati in Iraq dopo la Prima Guerra del Golfo,
quella di Bush padre: le mutazioni genetiche prodotte dall'uranio impoverito
e da altri agenti, sono qualcosa di inenarrabile: «bambini»? No; piuttosto,
informi fagotti di carne martoriata, che non sarei in grado di descrivere.

Già, la famiglia Bush; non ripercorriamo qui le vicende dei legami con altre
importanti famiglie, a cominciare da quella di Bin Laden; né ripetiamo le
uggiose, quanto assodate verità sui rapporti tra la famiglia e il clan dei
petrolieri. Qui, invece, sia pur per cenni, è il caso di guardare al
rapporto di competizione tra padre e figlio, il quale sembra voler
dimostrare di essere più bravo del genitore, portandone a compimento
l'opera, senza tentennamenti; senza contare che nell'accanimento furioso del
«giovane» Bush v'è altresì un tentativo di autolegittimazione agli occhi di
una opinione pubblica mondiale che sa che egli è diventato presidente grazie
a un vero e proprio furto di voti a danno del rivale Gore.

Pare quasi che gli interessi strategici, le spinte economiche, la visione
geopolitica passino in secondo piano; ormai il cow boy doveva portare a
termine il suo «compito» («non lascio mai le cose a metà», disse John Wayne,
prima di sparare il colpo mortale contro il cattivo, una prima volta
scampato alla colt del giustiziere solitario); certo, si potrebbe obiettare
che egli, nel film della guerra appena cominciata (e già finita?), il cow
boy non è solo; che trenta paesi, di cui una metà «nascosti». Altra enorme
novità: una sorta di pieno ritorno alla vituperata diplomazia segreta, ora
diventata però corollario di un sistema internazionale che aggira le norme
condivise in nome delle transazioni monetarie: gli Usa non hanno forse
pagato il governo serbo perché «vendesse» letteralmente Milosevic al
Tribunale dell'Aja? E ora non hanno inviato mediatori finanziari per sondare
le richieste dei paesi membri del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, e
acquisirli alla propria posizione? Acquisirli, tradotto nella lingua degli
americani, si scrive «acquistarli»: è la ben nota, immarcescibile,
«diplomazia del dollaro»).

E, davanti a una guerra siffatta, illegale, illegittima e moralmente
ripugnante, ci tocca sentirci porre davanti al fatidico, prevedibile e
previsto aut aut: o con Bush, o con Saddam; ossia, ci traducono, o con la
democrazia e l'Occidente, o con la tirannia e l'Islam (nero fantasma che
popola gli incubi degli occidentali). Un'alternativa fasulla, naturalmente.
Saddam ci fa orrore; ma chi è oggi il nemico dell'umanità? Chi sta
producendo uno stato di guerra permanente, globale, infinita? Chi sta
distruggendo quel poco che, faticosamente, da almeno tre secoli, l'umanità
ha saputo costruire in fatto di diritto internazionale? Chi ha praticamente
ucciso l'Onu? Chi pretende di imporre regimi politici a ogni altro Stato
sulla Terra? Chi sostiene ad oltranza le insostenibili posizioni del governo
israeliano contro i palestinesi, prima causa di tensione oggi sulla scena
internazionale? Chi sta, in una parola, facendo la guerra al mondo?

La risposta non può parere dubbia per nessuno. Dunque se a quel «chi»
dobbiamo rispondere «gli Usa», dobbiamo avere il coraggio di essere
consequenziali: oggi siamo, con questa guerra, a un nuovo, decisivo
spartiacque, al momento forse culminante di una svolta epocale, appunto. O
il mondo saprà dire no, un no deciso e perenne, a questo tiranno che opprime
il mondo - gli Stati Uniti d'America - e che pretende di dettargli forme
politiche, regole economiche, orientamenti culturali e modi di vita, oppure
non avremo speranza. La sola risposta che frange di resistenti a quello
strapotere sapranno dare, sarà un terrorismo generalizzato, mostruoso,
indistinto. Ne saremo tutti vittime. Nessuno si salverà da questo terrore
infinito e dalla risposta ulteriore che ne giungerà dal signore del mondo e
dai suoi complici-servi. E davvero saremo alla catastrofe.

Un tempo Günther Anders ci mise davanti alla nuda, semplice verità di un aut
aut radicale: il mondo, egli scrisse, dopo Hiroshima e Nagasaki, non ha più
l'alternativa guerra o pace, bensì l'alternativa pace o catastrofe. Oggi
possiamo ripetere, con l'angoscia che ci stringe il cuore, quel monito: ma
dando a ciascuno il suo. Oggi l'umanità può sopravvivere soltanto se sarà
sconfitta la linea politica dell'amministrazione statunitense, e si produrrà
un radicale e duraturo mutamento in essa. Oggi, in tal senso, non dobbiamo
avere paura non solo di sussurrare all'orecchio dei nostri vicini, ma di
gridare sui tetti, che essere per la pace significa essere «antiamericani».