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i guerrieri just in time
- Subject: i guerrieri just in time
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Sun, 16 Mar 2003 19:54:12 +0100
il manifesto - 05 Marzo 2003 Le armate dei guerrieri just in time La volontà imperiale degli Stati uniti di difendere un modello di sviluppo e la crescita di un movimento globale di protesta contro l'annunciata guerra contro l'Iraq. Parla lo storico e urbanista statunitense Mike Davis Nel Golfo saranno impiegati nuovi sistemi di armamento e vedremo all'opera piccole e autonome unità di combattimento dotate di sofisticati gadget elettronici per elaborare in tempo reale il flusso continuo di informazioni e così modificare gli obiettivi militari STEFANO SENSI La galassia americana di fronte alla vigilia di una guerra che rappresenta uno shift epocale sia per quanto riguarda le stategie e le tecnologie militari che verranno impiegate, ma anche per il passaggio senza indugi ad una politica «imperiale» da parte del presidente George W. Bush dopo il periodo soft rappresentanto da Bill Clinton. Allo stesso tempo gli Usa sono il paese in cui si manifesta un movimento di «resistenza» che vive una fase di prodigioso successo. Cosa si agita in queste due «Americhe» apparentemente sempre più distanti a causa della «guerra al terrorismo»? Ne abbiamo parlato a Los Angeles con Mike Davis, lo storico e urbanista noto per alcuni saggi dedicati allo sviluppo metropolitano - La città di quarzo (manifestolibri) e Geografia della paura (Feltrinelli), dedicati entrambi a Los Angeles, e il non ancora tradotto Dead Cities -, nonché di studi sulle politiche repressive dell'immigrazione da parte dell'establishment - I latinos alla conquista dell'America (Feltrinelli) - o di grandi affreschi sulla nascita delle politiche imperialistiche - Olocausti vittoriani (Feltrinelli). Ed è quindi ovvio che il punto di partenza dell'intervista non possono che essere le manifestazioni contro la guerra del 15 febbraio. Cosa pensi di questo movimento pacifista? Sono affascinato dalla potenza espressa da questo movimento. Non mi riferisco solo alle dimensioni raggiunte ma anche, e soprattutto, all'eterogeneità e diversità che esprime. Impressionante é la sua diffusione capillare. Sono appena tornato dall'Arizona dove ho assistito ad incredibili manifestazioni in piccoli centri sperduti. A Flagstaff, per esempio, ci sono stati, sabato 15 Febbraio, migliaia di dimostranti in piazza, una cifra che considerato il numero totale di abitanti di questa piccola città ne fa probabilmente uno dei posti a più alto tasso di «resistenti» di tutto il pianeta. Persino qui a Los Angeles, nei sobborghi opulenti di Orange County, capitale mondiale del conservatorismo repubblicano e uno posti più conformisti di tutti gli Stati uniti, assistiamo a forme di dissenso diffuso che sorgono nei posti più inaspettati. Mi riferisco, ad esempio, alle peace walks all'interno dei centri commerciali che mettono magicamente insieme centinaia di attivisti ed incuriositi consumatori. Un fatto ampiamente ignorato dai media é la risonanza delle tematiche pacifiste all'interno del mondo sindacale. La maggior parte dei quadri, e questo vale anche per i sindacati che contano milioni di iscritti, si è infatti schierata decisamente contro la guerra. C'é poi la dimensione globale, transnazionale, di questo movimento. Stiamo assistendo all'affermarsi del più grosso movimento globale di protesta mai esistito nella storia dell'umanità. Il «New York Time» ha scritto che dal 15 febbraio ci sono due superpotenze nel mondo: gli Usa e l'opinione pubblica mondiale. Sei d'accordo con questa analisi? Per quanto io stesso, come ho detto, sia estasiato dalla dimensione di questo movimento, penso che l'analisi del New York Times ne sopravvaluti il reale peso. Fino a che non riusciremo ad inceppare la macchina di guerra, la seconda superpotenza di cui parla il Times ha i piedi d'argilla. Certo, manifestazioni come quelle del 15 hanno un incredibile effetto nel catalizzare la scesa in campo di un sempre maggior numero di forze, ma se non si passa, come mi sembra stia succedendo in Europa, ad una fase di intensa attività di disobbedienza civile di massa, siamo destinati ad incidere solo in maniera marginale. Ma è in Europa che si sta giocando una delle partite più importanti. Se il movimento della pace riuscisse a far entrare in crisi uno dei tre governi - quello inglese, l'italiano o lo spagnolo - che sostengono Bush allora sì che si scatenerebbe un effetto domino con implicazioni importantissime. In Inghilterra mi sembra che i presupposti ci siano, visto l'opposizione sempre più articolata e imponente che sta crescendo contro Blair, persino all'interno del Labour party . Il movimento italiano sta mostrando un'incredibile creatività e determinazione con la campagna di boicottaggio dei «treni della morte» e chissà ... E' una situazione fluida e dagli esiti imprevedibili. Forse non saremo in grado di evitare l'inizio della guerra, ma ne possiamo però condizionare la durata. Bush e Rumsfeld sperano ad esempio che quella contro l'Iraq sarà una guerra lampo. Nella loro lucida follia, si illudono che in pochi giorni sconfiggeranno l'esercito iracheno e che le truppe americane saranno accolte a braccia aperte dai festosi iracheni liberati. Sperano cioè in un «miracolo» che possa mettere a tacere il dissenso rispetto alle loro politiche espansioniste. Quello che è ragionevole supporre è invece che chi ha manifestato contro la guerra in questo periodo ritorni a casa così facilmente. Parlando delle nuove tecnologie che verranno impiegate nella guerra, hai recentemente parlato di una vera rivoluzione in corso .... Non sono io a dirlo. Sono gli strateghi del Pentagono che affermano che la prima guerra del Golfo, nonostante l'incredibile campagna mediatica sui bombardamenti «chirurgici», non è stata la prima guerra «moderna», quanto l'ultima guerra combattuta secondo uno schema tradizionale. Curiosando fra quello che le think-tanks militari hanno elaborato negli ultimi tempi ci si accorge che tutti gli anni `90 sono stati attraversati da una fondamentale ridefinizione di tattiche e strategie che ha portato a quella che Rumsfeld ha, appunto, definito «la rivoluzione». La guerra in Iraq dovrebbe rappresentare il banco di prova di questo cambio di paradigma. La novità non viene solamente dall'ulteriore salto tecnologico delle armi che saranno impiegate - bombe che, grazie alla tecnologia laser, sono in grado di colpire con precisione millimetrica, l'utilizzo di micronde e campi elettromagnetici per mettere ko comunicazioni o, infine, l'uso di aerei telecomandati. No, il cambiamento viene da un mutamento di paradigma che sposta l'organizzazione militare verso un modello a rete, un modo di fare la guerra che viene definito network centric warfare. Si applicano cioè alla macchina bellica i paradigmi che sono alla base dell'economia postfordista. Infatti, il modello di riferimento, proposto dalle teste d'uovo del Pentagono è proprio quello leggero e «minimalista» che governa un colosso della distribuzione americana come la catena Wal-Mart. Si importano cioè quelle strategie, il just in time ad esempio, che regolano l'odierna produzione nella new economy. Ci si avvale infatti di quei principi di sincronizzazione, in real-time, dei processi produttivi e distributivi che fanno si che l'operatore di cassa, con la semplice lettura ottica del codice a barra di una merce qualsiasi, intervenga in maniera istantanea su produzione e stoccaggio dell'articolo venduto. Tradotto in termini militari, i rivoluzionari del Pentagono pensano di creare unità di combattimento leggere, ri-assemblate in tempo reale, che somministrino potenza letale commisurata a quelle che sono le immediate contingenze del campo di battaglia. Tale modello é reso oggi possibile grazie all'immensa potenza in termini di capacità di flusso di informazione delle reti moderne, coniugata con un esteso uso di tecnologie di videosorveglianza e monitoraggio tramite l'uso di una nuova generazione di gadgets elettronici come sensori miniaturizzati e minuscole videocamere robotizzate. Ma il modello postfordista fornisce anche lo schema organizzativo dei processi decisionali. Nel nuovo paradigma leggero, le unità di combattimento sarebbero organizzate secondo un modello a reti orizzontali in uno stato di fluida ricombinazione permanente. Unità autonome che hanno potere decisionale immediato senza coinvolgimento della tradizionale catena di comando. Si parla anche di nuovi approcci tattici.. E' previsto un utilizzo della forza non più secondo un modello lineare, fatto di incrementi progressivi. Si farà infatti uso di una strategia shock and awe, che procede attraverso l'erogazione di inaudita potenza distruttrice a sbalzi. Un modello in cui da una parte si isola il nemico polverizzando le infrastrutture della comunicazione e dall'altra si incrementa il caos del teatro di guerra procedendo ad una sistematica terrorizzazione della popolazione civile. E' ovvio che, al di là di qualsiasi considerazione etica, queste strategie pongono problemi di ordine logistico. Unità leggere ed autonome, così criticamente dipendenti dalla stabilità del flusso informazionale locale/globale, sono anche ovviamente assai vulnerabili. Cosa, infatti, potrebbe succedere se nel bel mezzo della battaglia tali networks venissero hackerati da terroristi, o molto più semplicemente da qualche brufoloso quindicenne del Midwest? In realtà il Pentagono affianca a questo schema «leggero» un segreto backup (piano di emergenza) «pesante»: il nucleare. Di fatto, è questo, il poco pubblicizzato obbiettivo reale che muove la crociata dei rivoluzionari. Rompere il tabù nucleare, far passare cioè nell'opinione pubblica, la legittimità di un uso sempre più routinario delle armi nucleari. Siamo di fronte ad un drammatico shift di paradigma, una escalation in cui l'uso del nucleare non è più la estrema ratio a cui ricorrere. C'é infine un ulteriore terrificante scenario. Un analisi di quanto pubblicato negli ultimi anni sulla letteratura scientifica del settore, rivela come la ragione intrinseca per cui il governo americano ha attivamente sabotato la creazione di un trattato internazionale per la limitazione dello sviluppo di armi biologiche é perchè gli Usa stanno appunto lavorando alacremente alla messa a punto di un sempre più potente e devastante biological warfare. Quale sarà il ruolo della «guerra di propaganda» in questo mutamento delle strategie militari? Anche su questo versante i rivoluzionari del Pentagono si accingono ad operare un sostanziale salto di paradigma. Stiamo assistendo in questi giorni all'addestramento militare, un vero e proprio combat training, di centinaia di giornalisti dei principali media nazionali. Questa volta dunque, i media saranno presenti sul campo di battaglia. Una gigantesca operazione di public relation da parte del Pentagono. E' ovvio che dobbiamo farci ben poche illusioni su quelli che saranno i livelli di obbiettività offerti da questi operatori mediatici con l'elmetto. E cosa accadrà negli Stati uniti? Per prima cosa va registrata l'assenza dalla scena pubblica dell'area liberal del partito Democratico. A differenza di quanto succedeva negli anni `60, il movimento della pace non ha saputo ancora catalizzare, come avvenne allora, quelle forze della sinistra del partito democratico che fecero del rifiuto alla guerra la piattaforma per la candidatura di Kennedy. La cosa grave non è che la maggior parte dei repubblicani si sono persi dietro a questo folle avventurismo dell'amministrazione Bush, ma è che il partito Democratico ha perso qualsiasi contatto con la propria base. Inoltre, negli Usa stiamo assistendo ad involuzione autoritaria senza precedenti. Dico senza precedenti, non perchè gli Stati uniti non abbiano nel passato conosciuto fasi di repressione di pari intensità. Da un punto di vista strettamente giuridico, le incredibili limitazioni alle garanzie e libertà personali contenute nell'Usa Patriot Act non sono certo peggiori di quanto accadde negli anni `20 o '50. Oggi ci troviamo di fronte a forme pervasive di controllo sociale che puntano a prevenire e repimere forme di dissenso sociale e politico. Le leggi approvate prima e dopo l'11 settembre rendono più sofisticati le forme di controllo sociale già operanti, ad esempio, nelle grandi metropoli. Basti pensare al sempre più pervasivo uso della videosorveglianza o alla definizione dei gruppi sociali a rischio su cui contentrare le operazioni di polizia. Infine, sempre sul piano interno, pessime notizie vengono dal mondo del lavoro, dove siamo di fronte ad una fase di ripiegamento dell'offensiva sindacale. Ho già detto che molti quadri sindacali si sono pronunciati contro la guerra contro l'Iraq, ma uno degli effetti della guerra permanente al terrorismo é stato la riduzione del numero di vertenze sindacali. L'attuale clima di isteria xenofoba sta infatti avendo pesanti ripercussioni nel mondo del lavoro. Si pensi a quanto succede qui a Los Angeles dove il 40 % della forza lavoro é composta di latinos che la guerra al terrorismo ha messo nel mirino di tutte le agenzie dell'inquietante Department of Homeland Security. Una prodigiosa stagione di rivendicazioni spesso vincenti si é arrestata e dal giorno alla notte l'organizzazione di lotte operaie e sindacli é diventata molto difficile. Su piano internazionale questo governo ha prodotto una profonda e probabilmente irreversibile frattura con il passato. l'attuale amministrazione ha rotto con il modello soft che ha segnato la presidenza di Bill Clinton. Erano quegli gli anni in cui il capitalismo mirava ad arginare i devastanti effetti della sua espansione a livello globale attraverso una gestione basata sul consenso. Clinton, dal posto di comando, operava con una gestione illuminata, magnanima, volta a non umiliare troppo i partners minori. Bush jr. opera, al contrario, secondo una strategia primordiale, sanguigna. Probabilmente, fra cento anni gli storici leggeranno questo periodo come la disperata risposta di un' insensata oligarchia alle tragiche contraddizioni eco-sistemiche poste dal modello di sviluppo capitalista. Una risposta feroce che impone il dominio americano sul pianeta al fine di tutelare, il più a lungo possibile, un insostenibile modello di sviluppo. Prima ancora dell'11 settembre, prima ancora dell'Iraq, questa amministrazione si è posta come obbiettivo ultimo quello di mantenere ad ogni costo l'egemonia americana nel mondo. Gli integralisti che occupano oggi la Casa Bianca vogliono prevenire l'avvento di una seconda superpotenza mondiale. In questo senso lo showdown finale sarà, non ora, con il mondo islamico ma bensì fra qualche decennio con l'oriente. Il vero target di questa svolta «imperialista» é la Cina. Cosa fare dunque? Non credo che la rivoluzione sia possibile ma (ride), credo che, a questo punto, sia assolutamente necessaria. Dobbiamo recuperare la convinzione che esiste una reale alternativa a questo modello di sviluppo. In questa ottica, da studioso dei fenomeni urbanistici, io credo che un aspetto fondamentale venga dal ripensare il ruolo della città moderna. Una radicale ridefinizione della idea di città è infatti, secondo me, la chiave di volta per cominciare a costruire una società realmente basata su principi di giustizia sociale ed eguaglianza. Il segreto é li'. Siamo in una fase in cui la maggior parte dell'umanità vive in ipertrofiche aree metropolitane, megalopoli che si estendono a macchia d'olio e come un cancro metastatizzano e divorano ogni risorsa disponibile. Dobbiamo invertire questa tendenza e recuperare stili di vita che incoraggino un uso razionale delle risorse. Dobbiamo privilegiare modi di vivere gli spazi urbani che favoriscano prassi di scambio ed un maggior utilizzo, in comune, delle risorse. Non ho in mente niente di frugale, al contrario. Siamo in un periodo in cui le moderne tecnologie e l'incredibile ricchezza materiale che ci circondano ci permettono di vivere con livelli di agiatezza straordinari. Dobbiamo solo arrivare ad una razionalizzazione, affinché questo incredibile livello di benessere sia possibile per tutti.
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