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il punto sulle cellule staminali
- Subject: il punto sulle cellule staminali
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Thu, 13 Mar 2003 06:41:53 +0100
il manifesto - 12 Marzo 2003 Una potenza geniale Dalla ricerca all'applicazione terapeutica, dalle speranze di guarigione ai timori etici. Del futuro della medicina rigenerativa parla l'istologo Giulio Cossu, direttore dell'Istituto per le cellule staminali del San Raffaele e tra i maggiori esperti italiani del campo LUCA TANCREDI BARONE Parlare di ricerca sulle cellule staminali, oggi, suscita sempre grandi speranze. Ma spesso ci si dimentica che dietro alla possibilità di future applicazioni terapeutiche ci vogliono lunghi anni di studi. E soprattutto che ci sono ancora molte cose da imparare. Con sempre meno fondi pubblici e con i privati che incalzano, puntando al brevetto a tutti i costi, i ricercatori e i pazienti, soprattutto quelli dei paesi poveri, si trovano schiacciati fra annunci roboanti che provocano false speranze e i timori etici di chi invece vede le ricerche in questo settore come pericolosamente vicine a poter mettere le mani sul «mistero della vita». E forse vale la pena di menzionare che molte delle ricerche più all'avanguardia in questo settore in Italia possono andare avanti soltanto grazie a sponsor privati come Telethon, che ogni anno riescono a raccogliere molti miliardi da privati cittadini. Dalle cellule staminali si originano i diversi tipi di cellule adulte che costituiscono i vari tessuti degli organismi adulti. Ovvio che, una volta compresi i meccanismi di funzionamento di queste preziose cellule, le applicazioni mediche potrebbero essere innumerevoli: per la cura di molte malattie, sostituire le cellule appare come la soluzione più promettente. Giulio Cossu, medico, direttore dell'Istituto per le cellule staminali del San Raffaele di Milano e professore di istologia a La Sapienza di Roma, è uno dei maggiori esperti italiani del campo. Lo abbiamo incontrato a margine di uno dei molti seminari che tiene ai colleghi per illustrare i risultati del suo gruppo di ricerca, stretto fra una lezione all'università e due riunioni nel nuovo laboratorio del parco scientifico di Castel Romano. «Ci sono tre campi dove le cellule staminali - spiega Cossu - hanno già delle applicazioni cliniche, anche nel nostro paese. Non dimentichiamo che l'Italia ha una grande tradizione, riconosciuta a livello internazionale, nell'ematologia e sono molte decine di anni, ancora prima che fosse chiaro il meccanismo di funzionamento delle staminali, che viene trapiantato il midollo osseo. Questo ha salvato già moltissime vite umane. Poi ci sono i trapianti di epidermide, indispensabili nel caso per esempio dei grandi ustionati, che non possono sopravvivere senza pelle. In questo campo sono in corso sperimentazioni cliniche anche per curare le malattie genetiche della pelle: dopo essere state isolate e manipolate geneticamente, le staminali vengono ritrapiantate sul paziente. Si tratta di un tipo di terapia genica, che però è meno rischioso dei trial clinici che sono stati bloccati nei mesi scorsi in seguito a tre casi di decessi sospetti. Infine, sono in fase clinica anche i trapianti di epitelio, cioè i tessuti di rivestimento (come ad esempio la cornea)». Spesso però dai giornali sembra dietro l'angolo la cura per molti altri tipi di malattie, soprattutto quelle neurologiche oppure quelle del cuore. Gli studi che ho menzionato sono tutti in fase clinica o preclinica. In tutti gli altri casi si tratta di «corse in avanti» cliniche. Qualche volta si ha l'impressione che alcuni medici si facciano prendere dall'entusiasmo, e con la filosofia dell'«armiamoci e partiamo», spesso non si sappia esattamente cosa si sta facendo. Penso ad esempio ai casi dei trapianti di staminali nel cuore: non sappiamo come, ma effettivamente certe volte funzionano. Solo che dai nostri esperimenti sui topi non riusciamo ancora a capirne bene il perché: le cellule generate dalle staminali che ritroviamo sono troppo poche per spiegare la guarigione. E ci deve essere un meccanismo che ancora non ci è chiaro, forse indiretto. Allora è rischioso provare su pazienti umani tecniche ancora troppo poco comprese... Diciamo che può essere azzardato. Ma alcuni miei colleghi medici dicono anche che se si ipotizza che la tecnica possa funzionare, e verificato che non sia tossica, loro si sentono obbligati a provare a fare del proprio meglio per salvare la vita ai propri pazienti. E io li capisco, è un problema di deontologia professionale serio: ma c'è bisogno di fare una riflessione. I cardiologi stanno riflettendo se non sia il caso di fermarsi e cercare di comprendere meglio quello che sta succedendo. I tempi di attesa per avere il via libera per un trial clinico sono spesso molto lunghi. È vero, si può arrivare anche a otto anni. Ma è giusto che la terapia genica, una terapia nuova e potenzialmente rischiosa, sia sottoposta ai parametri di sicurezza più stringenti che mettano in conto tutte le possibilità, anche le più remote. Peccato però che talvolta la sensazione degli addetti ai lavori sia che poi tutto questo non abbia sempre un corrispondente altrettanto accurato nella pratica clinica. Invece quali sono i campi in cui si è ancora alla fase di studio? I campi dove si sta lavorando di più sono quelli delle cellule nervose per la cura delle malattie neurodegenerative, quello delle cellule cardiache, e anche quello della distrofia muscolare, su cui anche il nostro gruppo sta compiendo studi, per ora sui topi. I risultati sembrano incoraggianti. Ci basiamo sui mesoangioblasti, delle staminali che abbiamo scoperto noi l'anno scorso all'interno della parete dell'aorta. Queste producono muscolo scheletrico, liscio cardiaco e endotelio (il tessuto che ricopre l'interno dei vasi). La speranza è di dimostrare di poterle controllare e di renderle utilizzabili per la cura della distrofia. Quali sono i «punti critici» perché queste ricerche possano raggiungere la fase clinica? Innanzitutto, identificare le cellule staminali e isolarle. Poi bisogna imparare a crescerle, per avere il numero sufficiente del tipo cellulare che ci interessa. Il passo successivo, nel caso di malattie genetiche, è quello di imparare a correggerne il difetto geneticamente: quindi per esempio trovare i «vettori» più adatti a trasportare il Dna all'interno della cellula. Un altro punto critico è quello che gli americani chiamano targeting: riuscire a indirizzare le cellule staminali all'organo o alla zona che ci interessa, senza che vadano disperse o, viceversa, che alcune parti malate non vengano raggiunte. E poi vogliamo che almeno il 90 per cento di queste staminali una volta raggiunto il sito si differenzino nelle cellule che vogliamo noi, e che imparino a comportarsi come tutte le altre in maniera permanente. In un cuore, ad esempio, vogliamo che creino le connessioni con le altre cellule, che si muovano allo stesso modo. Insomma vogliamo essere sicuri che quel paziente possa guarire definitivamente. Come vede, c'è ancora moltissimo da studiare: ogni sei mesi viene scoperto un nuovo tipo di cellula staminale, magari in animali diversi. E bisogna lavorare molto per capire come sono legate fra di loro, quale sia il loro albero genealogico.
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