perche' l'america perdera'



da liberazione 28 - 2 - 2003
  
La vittoria sull'Iraq sarà facile, ma non la successiva amministrazione
militare. Notizie e analisi tratte dalla rivista della Scuola di guerra
dell'esercito Usa  
Perché l'America perderà  
 
 
Gli Stati Uniti? "Votati alla sconfitta", prevede John Gentry. Ex maggiore
delle Forze Speciali con esperienze operative in Bosnia e nelle Filippine,
Gentry non è un pacifista. Ed è riuscito a far pubblicare il suo articolo
ferocemente critico delle forze armate Usa ("Votati alla sconfitta: la
cieca fiducia americana nella tecnologia militare") su Parameters: che non
è una rivista anti-americana, essendo il quadrimestrale della Scuola di
Guerra dell'Us Army. E' un segnale significativo. Al contrario dei civili
guerrafondai, tutti ex dirigenti delle industrie private dell'armamento
(Rumsfeld, Wolfowitz, Perle) che comandano al Pentagono, i professionisti
della guerra vogliono far sapere che l'America non ha i mezzi militari per
sostenere le sue mire imperiali. 
La vittoria sull'Iraq sarà facile. Non così, dicono gli esperti, la
seguente necessaria amministrazione militare, ossia l'occupazione. I
falchi, ottimisti, credono che basteranno 50mila uomini per un anno a
portare «la democrazia in Iraq». Più realisticamente, le forze armate
britanniche sono state avvertite di prepararsi a un'occupazione almeno
triennale. Eliminato Saddam che tiene unito con la sua mano di ferro un
Paese pullulante di frazioni etniche e religiose, per i servizi inglesi
sono da prevedere «conflitti civili simultanei in tutto l'Irak».
L'occupazione non sarà pacifica né incontrastata. Ci sono gli uomini
sufficienti per la riabilitazione delle infrastrutture, l'amministrazione
civile, la polizia militare e insieme probabili conflitti urbani a bassa
intensità, ossia per affrontare i compiti di un'occupazione di lunga durata? 

Tanto più se «dopo l'Irak toccherà all'Iran e alla Siria», come ha
proclamato il viceministro della Difesa John Bolton (un altro dei falchi)
alla fine di un colloquio con Sharon a metà febbraio scorso. La prospettiva
dà i brividi allo Stato Maggiore, che ha lasciato filtrare le sue ansie a
Jason Vest, il giornalista di The Nation con i migliori contatti
nell'ambiente militare. 


Chi occuperà il paese? 

Già nell'agosto 2002, ha rivelato Vest, una conferenza interna all'Us Army
segnalava che i due terzi delle Forze Speciali sono già sparse in impieghi
bellici in 85 Paesi, e questo sia detto per le truppe di elites. Quanto
alla fanteria non d'elite, necessaria per un'occupazione di lunga durata,
la forza attuale è più che dimezzata rispetto ai tempi del Vietnam. «Molte
delle specialità e servizi essenziali a vincere la guerra globale contro il
terrorismo sono sotto organico…il ritmo di accresciuto spiegamento
richiesto dopo l'11 settembre non può essere sostenuto con le attuali
strutture». 

Lingua di legno bisognosa di traduzione. A tradurla per Jason Vest è Mark
Lewis (non un pacifista: è un ex ufficiale dei Rangers): «L'esercito
americano manca di migliaia di capitani», esemplifica Lewis, cioè degli
ufficiali del grado più cruciale. «I capitani sono i comandanti più vicini
alla truppa in caserma, nell'addestramento e nel combattimento. Ebbene, il
numero di capitani che hanno lasciato l'Us Army è raddoppiato fra il 1995 e
il 2001». 

Perché? Lewis accusa le riforme delle carriere militari. «Rimodellate su
modelli efficientisti di gestione del personale proprie alle imprese
private, hanno creato una situazione che scoraggia gli ufficiali a passare
più tempo coi soldati, mentre li incentiva a partecipare ai più diversi
"corsi di specializzazione", che fanno punteggio per la carriera». Lo
conferma un rapporto del 2002 stilato non da pacifisti ma dalla Rand,
l'istituto di studi strategici vicino al complesso militare-industriale:
nell'ultimo decennio, per i nuovi ufficiali, il tempo di addestramento sul
campo s'è ridotto della metà. 

I politici falchi che comandano sul Pentagono hanno annunciato la loro
soluzione al problema della scarsità dei quadri: sarà accelerata la
promozione dei tenenti a capitani. Ciò equivale, commenta Donald
Vandergriff, a «gettare ufficiali non abbastanza sperimentati in situazioni
dove possono essere soverchiati dagli eventi» bellici. Nemmeno Vandergriff
è un pacifista: ha il grado di maggiore ed ha scritto un saggio dal titolo
Path to Victory, per denunciare l'addestramento manchevole delle truppe di
terra americane. 

Il suo timore è ben fondato, Anche la Military Review (non una rivista
anti-americana bensì la pubblicazione ufficiale dell'Army Command) ha
rivisitato la sfortunata "Operazione Anaconda" del marzo scorso in
Afghanistan. Dove truppe «mal equipaggiate e non addestrate specificamente»
per la guerra di montagna sono state mandate su cime di tremila metri
contro le residue forze di Al-Qaeda e talebane. Lungi dall'essere
schiacciati dalla presunta superiorità americana, i guerriglieri islamici
sotto attacco sono stati capaci di riorganizzarsi, rinforzare le posizioni
e poi di "scomparire" in una ritirata magistrale senza gravi perdite. 

I comandi supremi credettero di poter compensare alla scarsa qualità della
fanteria Usa con le meraviglie della tecnologia militare venduta a caro
prezzo al Pentagono dalle industrie di armamento. I commandos a terra
dovevano semplicemente "illuminare" le posizioni nemiche con puntatori al
laser o agli infrarossi, sì da guidare le bombe "intelligenti" lanciate
dall'aviazione. In realtà, come assevera un rapporto dell'Istituto di Studi
Strategici della Scuola di Guerra di Fanteria (Us Army War College), «più
di metà delle posizioni del nemico sono sfuggite alla sorveglianza
elettronica dal cielo». La guerra non è un videogioco, specie sul terreno
afghano «estremamente complesso e ricco di ripari naturali». Inoltre, anche
quando le posizioni avversarie erano identificate, le munizioni «a guida di
precisione» (Pgm) lanciate contro di essere hanno mancato di distruggerle.
Le Pgm si sono mostrate «efficacemente letali» contro gruppi sorpresi allo
scoperto o ammassati, ma inefficaci contro «posizioni di combattimento ben
preparate». In generale, «Al-Qaeda è sopravvissuta a numerosi attacchi di
bombe intelligenti». 


Bombe intelligenti, soldati no
Somalia 1993, Black Hawk Down: armatissimi commandos americani trasportati
da elicotteri dotati delle più avanzate tecnologie (Black Hawk) vengono
sorpresi, sopraffatti e massacrati. Le comunicazioni fra i guerriglieri
somali non erano state intercettate dai sofisticati apparecchi Usa perché a
bassissima tecnologia: telefonini o scritte sui muri in lingua ahmara.
Serbia 1999: l'antiquato esercito serbo esce intatto da settimane di
bombardamenti aerei della Nato. Le bombe intelligenti hanno colpito per lo
più dei "decoy", sagome di carri armati di cartone e stagnola approntati
dai serbi per ingannare i piloti americani e i loro strumenti. 

Guerra del Golfo, 1991: è andata meglio. Ma in condizioni militarmente
"anormali": gli Usa hanno potuto ammassare forze per sei mesi senza essere
contrastati, avevano di fronte un esercito iracheno "demoralizzato" e hanno
potuto attaccare quando è piaciuto loro. E nel piatto deserto, il solo
ambiente «veramente adatto all'uso di munizioni di precisione», ossia di
bombe intelligenti. 

Lo ha ricordato ancora su Parameters l'ex maggiore John Gentry: «La cieca
fiducia americana nella tecnologia militare» è «votata al fallimento»
(doomed to fail). Nelle future guerre contro il terrorismo, come s'è già
visto in Afghanistan, la potenza americana può rivelare tutte le sue falle
esponendosi a sorprese amarissime. 

I prossimi conflitti infatti, dice Gentry, saranno «operazioni complesse
civili-militari», in ambienti umani «nient'affatto semplici dal punto di
vista culturale e politico». A vincere queste operazioni, «la tecnologia
contribuisce sostanzialmente nulla. Non ci sono sensori elettronici che
possano identificare le motivazioni dei popoli, i sentimenti degli
occupati, né valutare la tenuta di organizzazioni umane» etnicamente o
religiosamente coese. Niente può sostituire «l'adeguata conoscenza previa e
la comprensione dell'ambiente umano» da parte delle truppe di terra. 


Il ruolo dell'outsourcing
Il fatto è che il Pentagono non solo manca di queste competenze, ma
positivamente nutre "il disdegno" per questo tipo di comprensione dei
popoli che si prepara ad amministrare. A dirlo non è un anti-americano: è
Robert Barry, il diplomatico statunitense che ha guidato la missione Osce
in Bosnia dal '98 al 2001, e dunque ha chiara coscienza delle difficoltà di
un'occupazione. In Bosnia, dice Barry, «dopo sei anni di presenza americana
e 100 miliardi di dollari spesi, pace e prosperità sono ancora lontane». In
Bosnia, là dove i soldati tedeschi, olandesi e italiani sono visti dalla
popolazione come gente che dà una mano, nelle aree sotto controllo Usa i
soldati americani sono detestati. Secondo un alto ufficiale inglese,
«trattano i nativi come pellerossa, e la popolazione come composta di
banditi». 

Barry dunque si preoccupa per la futura occupazione dell'Iraq, «non vedo
segni di una seria preparazione a questo compito», dice. Anch'egli è sicuro
che la truppa americana e britannica non sia sufficiente, né in numero né
in qualità, per sostenere un'occupazione durevole. 

Donald Rumsfeld, il ministro della Difesa che viene dall'industria
militare, ha una soluzione tipicamente manageriale e privatistica per
queste lacune dell'esercito di Stato: l'outsourcing. Appaltare quanti più
possibili compiti militari alle "ditte militari private" (Private Military
Corporations, Pmc) sorte come funghi negli Stati Uniti. Si tratta di
organizzazioni di mercenari, create da generali e colonnelli a riposo, e
che strappano lucrosi contratti per operazioni speciali o "coperte". La più
importante, la Military Professional Resources, è fondata dal generale Carl
Vuono, già capo di S. M. durante la guerra del Golfo e dal suo ex vice,
generale a riposo Ron Griffith. Nel '94, ha avuto dal governo Usa un
contratto per addestrare le truppe croate, le quali hanno poi strappato la
regione detta Krajna alla Serbia. Oggi, i cinquemila "volontari irakeni"
che parteciperanno alla guerra contro Saddam sono addestrati (in Ungheria)
dalla Kellog, Brown & Root, azienda di guerrieri a noleggio che - fatto
significativo - è una sussidiaria della Halliburton, il gigante petrolifero
di cui è stato presidente Dick Cheney prima di diventare vicepresidente
degli Stati Uniti (le petrolifere si sono dotate di loro "servizi armati"
per la difesa degli impianti in Paesi difficili). Un'altra, la DynCorp, ha
strappato l'appalto per condurre, in vece dell'esercito Usa, la "guerra
alla coca" in Colombia, con aerei ed elicotteri armati; ed ora è la DynCorp
che fornisce la sicurezza personale a Karzai, il presidente-fantoccio che
gli americani hanno dato all'Afghanistan. Le varie "ditte private"
americane possono mobilitare, nell'insieme, almeno 35 mila specialisti" per
operazioni di ogni genere, in segreto, senza preavviso - e senza controllo
democratico. Per questo Rumsfeld le preferisce. Si calcola che, delle
truppe americane usate in Desert Storm, il 10 per cento fossero in realtà
civili in armi, dipendenti di queste ditte. 

Ma c'è chi autorevolmente dubita che mercenari motivati dal lucro siano
alla pari dei compiti di "nation-building" (ricostruzione della vita
civile) per cui saranno impiegate in Irak. In Bosnia, la DynCorp è riuscita
a malapena a soffocare uno scandalo: i suoi guerrieri avevano organizzato
un traffico di donne. In Colombia, anche peggio: dipendenti della ditta
avevano messo su per conto loro un commercio di cocaina. Il loro impiego
suscita in ogni caso inquietanti interrogativi non solo etici, o politici,
ma legali. Queste forze non sono tenute alla disciplina militare e sono
irresponsabili rispetto alla "catena di comando" dell'Army. Inoltre: che si
fa se uno di questi guerrieri privati - giuridicamente un civile - viene
catturato con le armi in pugno dal nemico? Non si possono invocare a suo
favore le convenzioni riguardanti i prigionieri di guerra; per queste
convenzioni, sono partigiani illegittimi, passibili di esecuzione immediata. 

Quanto alle loro reali capacità belliche se le cose si mettono male, è
tutta da dimostrare. Il generale John Shalikashvili, che guidò lo Stato
Maggiore Riunito durante Desert Storm, ha ammonito che la professione della
guerra, quella vera, non potrà mai essere trattata come una qualunque
"produzione di servizi di sicurezza", come quella fornita dalle guardie
giurate, e dunque appaltabile a privati. La guerra vera, ha detto
Shalikashvili, «esige dai militari dedizione straordinaria e sacrificio
nelle condizioni più avverse»: ossia l'accettazione, in via di principio,
della morte per obbedienza agli ordini. Qualcosa che esula completamente
dal business. 

Il colonnello Charles Dunlap, un geniale intellettuale militare, ha detto
anche di più in un saggio (che è anche un racconto di fantapolitica)
pubblicato non da un giornale pacifista, ma a cura dell'Usaf Institute for
National Security Studies. Dunlap immagina che, in un prossimo futuro, un
Pentagono sempre più interessato a business, politica e dominato da idee
manageriali tipo "Qualità Totale", finirà per appaltare «le sgradevoli e
pericolose attività della guerra, necessarie ma sporche» a una ditta
privata, la Vaic (Violence Applications International Corporation).
Mercenari pagati come dipendenti dai generali a riposo che hanno fondato la
ditta. 


Nel 2010, scoppia la seconda Guerra del Golfo: guerra vera. «E quando il
Decimo Corpo Corazzato Iraniano cominciò la sua leggendaria avanzata
schiacciando ogni cosa davanti a sé, i dipendenti della Vaic vennero meno
al contratto e si dispersero. La lealtà aziendale, apparentemente, ha i
suoi limiti», ironizza Dunlap. Due anni dopo però, prosegue il suo racconto
fantapolitico, quei mercenari, assunti dai politicanti del Pentagono, sono
la forza operativa che conduce a termine un colpo di Stato "militare".
L'America ha perso la sua libertà. 

La profezia e l'apologo attendono di realizzarsi nelle prossime guerre
"contro il terrorismo"? L'ammonimento almeno è chiaro: le ditte di
mercenari nate in Usa e alimentate dai "contratti" con la Difesa sono un
pericolo potenzialmente putchista. Anzi forse, qui, la profezia si è già
avverata: la democrazia in America non sembra più tanto viva. 

Aleksandr Minak