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il manifesto - 01 Marzo 2003 
 
 
Se Pechino torna in Asia 
Dopo l'11 settembre è il terrorismo, non più la Cina, la «minaccia
principale» per gli Usa. Ma Pechino teme i rapporti fra Washington e Mosca
e si sente più a rischio di prima. Intanto, mentre si apre la divaricazione
fra Usa Europa, anche il Giappone dà segni di insofferenza verso l'alleato
americano. Un doppio scollamento dentro il campo occidentale che potrebbe
sfociare in una Santa Alleanza a geometria variabile per il controllo
dell'emisfero meridionale e l'emarginazione del mondo islamico
FRANCO MAZZEI
La «guerra globale al terrore» scatenata dagli Stati uniti dopo gli
attacchi terroristici delle Torri Gemelle, sebbene non abbia direttamente
coinvolto l'Asia orientale, ha profondamente modificato il panorama
geostrategico della regione. Prima dell'11 settembre, nella percezione di
Washington la Cina, in forte ascesa in termini di potere sia economico che
militare, rappresentava la minaccia in quanto potenza «revisionista»,
challenger nei confronti degli Stati uniti, che - unica superpotenza
rimasta - se non «egemoni» in senso stretto dispongono quantomeno della
supremazia (primacy). La tesi della «minaccia cinese» - dominante nelle
cancellerie e nel mondo accademico durante tutto il decennio successivo
allo sfaldamento dell'Unione sovietica - spingeva i falchi di Washington ad
una politica di «contenimento preventivo» nei confronti di Pechino, le cui
ambizioni avrebbero destabilizzato l'Asia orientale ledendo gli interessi
degli Stati uniti. Oggi, dopo l'11settembre, per Washington la minaccia non
è più la Cina bensì il terrorismo internazionale. Paradossalmente però
Pechino si sente ora più vulnerabile e financo accerchiata, a causa in
primo luogo del massiccio ritorno militare degli Usa in Asia centrale,
un'area considerata sotto la propria sfera d'influenza. La maggior parte
degli analisti, infatti, ritiene che la Cina sia il paese per il quale l'11
settembre potrebbe avere, nel medio e lungo periodo, le conseguenze
strategiche più sfavorevoli .

Prima degli attacchi terroristici di New York, Pechino era convinta che la
principale posta in palio per Washington fosse ancora la sicurezza
dell'Europa, insanguinata dalle guerre dei Balcani; e questo spiega
l'iniziale interpretazione data dai cinesi dell'11 settembre come un
ulteriore segno del declino americano. Dopo un primo tentennamento, la Cina
ha dovuto inghiottire l'amara pillola della nuova dottrina di Bush («o con
l'America e con il terrorismo»), collaborando con gli Stati uniti in vari
modi. Tuttavia, la sua risposta è apparsa agli americani non solo un po'
tardiva ma anche troppo condizionata.

Dopo un anno e mezzo circa, il bilancio non è rassicurante per Pechino
sotto molti aspetti. Inanzitutto, la crescente presenza militare Usa in
Asia Centrale ha in pratica vanificato i meticolosi sforzi diplomatici
intrapresi nell'ultimo decennio per estendere la propria influenza in
questa regione (si pensi all'improvvisa marginalizzazione del cosiddetto
«Gruppo di Shanghai», la cui costituzione era considerata il capolavoro
della diplomazia cinese). In secondo luogo, va menzionato il cambiamento
verificatosi nelle relazioni Usa-Russia come immediata conseguenza degli
attentati delll'11 settembre. Dopo il 1989, uno degli obiettivi strategici
prioritari della diplomazia di Pechino era stato il miglioramento dei
rapporti con Mosca, allo scopo di creare un nuovo assetto internazionale di
tipo multilaterale che contrastasse efficacemente le tendenze egemoniche
statunitensi. Pertanto, è stato un duro colpo per Pechino constatare che
l'intervento militare americano in Afghanistan sia stato fatto non solo con
l'appoggio del suo più fido alleato (il Pakistan), ma anche con la
benedizione del suo grande vicino settentrionale (la Russia), che nelle
opzioni post-bipolari di Pechino doveva essere il partner strategico e che,
invece, sembra essersi legato ancor più saldamente agli Stati uniti,
segnatamente dopo il terribile attentato terroristico del Teatro di Mosca.

In conclusione, dopo l'11 settembre il margine di manovra di Pechino si è
molto ridotto, in un momento in cui la situazione politica interna potrebbe
essere gravemente turbata da fattori di varia natura (una profonda crisi
socio-economica provocata dal fallimento della politica di liberalizzazione
in atto, ovvero agitazioni separatiste in particolare nel Tibet e nel
Xinjiang ove il fondamentalismo islamico è motivo di grave apprensione).
Anche se la situazione appare oggi più favorevole a Pechino, in conseguenza
delle crescenti difficoltà che Washington sta incontrando sulla «guerra
preventiva» contro l'Irak a causa dell'opposizione non solo di potenze con
diritto di veto nel Consiglio di sicurezza (Russia, Cina e perfino un paese
alleato come la Francia), ma anche dell'opinione pubblica globale, che,
spesso dissociata dai rispettivi governi, si rivela sempre più un attore
attivo delle relazioni internazionali (con buona pace degli studiosi
realisti), come hanno dimostrato le imponenti manifetsazioni pacifiste del
15 febbraio.

Diversamente da quella di Pechino, immediata e per molti versi sorprendente
è stata la reazione di Tokyo all'attacco terroristico di Manhattan. Il
primo ministro Koizumi non ha esitato ad annunciare che il suo paese
avrebbe fornito supporto militare agli Stati uniti nella guerra in
Afghanistan; e sulla stessa linea d'onda la Dieta nipponica, aggirando la
clausola pacifista della Costituzione (imposta dagli occupanti americani ma
ben presto interiorizzata dal popolo giapponese), ha approvato una legge
che consente, per la prima volta in questo dopoguerra, la partecipazione
attiva delle forze di auto-difesa (Fad) nipponiche all'estero in operazioni
belliche condotte senza l'egida dell'Onu, seppure con compiti
essenzialmente logistici e non di combattimento.

Il dibattito sull'opportunità per il Giappone di diventare un paese
«normale» (in termini di capacità militari) era già in atto ben prima
dell'11 settembre. Ma è evidente che la nuova legge ha provocato uno
strappo verso questa direzione, perché non solo attenua i vincoli posti
dalla clausola pacifista della Costituzione ma priva anche paesi come la
Cina della possibilità di denunciare (spesso strumentalmente) la «rinascita
del militarismo nipponico»", in quanto questo sarebbe semmai a servizio di
una «nobile causa» (la lotta al terrorismo).

L'accresciuto ruolo militare del Giappone va valutato nell'ambito della
speciale relazione che da mezzo secolo lega il Sol Levante agli Stati
uniti. Si tratta di una relazione complessa, assai asimmetrica ma cruciale
per la stabilità della regione Asia-Pacifico e forse del sistema
internazionale nel suo insieme, e che dopo gli attentati terroristici
contro le Torri Gemelle forse si trova ad una svolta decisiva. Comunque
sia, contrariamente alle aspettative di molti americani, difficilmente il
Giappone diventerà un alleato militare degli Stati uniti a tutti gli
effetti, una sorta di «Inghilterra del Pacifico»: semmai sarà su posizioni
più vicine a quella della Germania di Schroeder. Ne consegue che gli
americani dovranno imparare a convivere con questo tipo di Giappone, che
dopo mezzo secolo di fedele alleanza gradualmente esce dall'Occidente e
«rientra in Asia»; l'Asia da cui era «uscito» dopo l'olocausto atomico
allorché dovette - per «comandamento» del Tennô-«sopportare
l'insopportabile» (la resa incondizionata).

Il graduale rientro in Asia del Giappone è un problema che trascende la
mera relazione nippo-americana e più in generale i rapporti transpacifici.
Durante la Guerra fredda, il termine «Occidente» (West) era un concetto
politico che denotava quei paesi che si opponevano al comunismo e (almeno
in teoria) volevano difendere il pluralismo politico ed economico. Per più
di mezzo secolo il Giappone si è sentito membro effettivo dell'Occidente e
tale è stato considerato dalle grandi democrazie occidentali. Ma dopo la
Guerra fredda e soprattutto dopo l'11 settembre, «Occidente» è diventato
sempre più un concetto civilizational, che si riferisce ai paesi che
condividono la civiltà occidentale. E' indubbio che il Giappone si trova -
per così dire - fuori posto in un Occidente così concettualizzato; e si
comprende quindi che nell'opinione pubblica nipponica si stia rafforzando
l'asiatismo in quanto norma che condiziona il processo decisionale in
politica estera, a danno del vecchio bilateralismo che privilegiava la
relazione speciale con gli Usa, cui di fatto era affidata la gestione della
politica estera nipponica.

Del resto, non pochi studiosi, anche occidentali, hanno sollevato il dubbio
se «Occidente» sia ancora realmente un concetto coerente. Secondo molti
analisti, nel sistema transatlantico sarebbe emersa una frattura tra gli
Stati uniti e i loro partners europei, segnatamente la Germania e la
Francia che costituiscono l'asse trainante dell'Ue; e questo divide,
rafforzatosi nel corso del dibattito in atto sulla guerra preventiva contro
l'Irak, non sarebbe affatto un problema transitorio, effetto dello stile
dell'amministrazione Bush, bensì la conseguenza di un diverso modo di
vedere il locus della legittimità democratica. In realtà, ormai su quasi
tutte le più importanti questioni politiche e in particolare su quelle
concernenti il potere (la sua efficacia, la sua desiderabilità, la sua
moralità) le prospettive dell'America e dell'Europa sono divergenti.

Come ha sottolineato Robert Kagan in un suo saggio molto discusso, la
«crepa» transatlantica è profonda e destinata a durare, nonostante molti
intellettuali europei tendano a sottovalutarla. Il problema allora è
individuare le cause di questo dissenso, e al riguardo due sono le
principali spiegazioni avanzate. La prima, di scuola realista, fa derivare
il diverso atteggiamento nei confronti dell'uso del potere dalla diversa
distribuzione della forza: insomma dal fatto che gli Stati uniti ora sono
una iperpotenza mentre l'Europa è relativamente debole. Sempre secondo i
realisti, «la soglia di tolleranza», come per gli individui così anche per
gli stati, è tanto più bassa quanto maggiore è il potere di cui si dispone;
e i deboli cercano, nei limiti del possibile, di evitare l'uso della forza
preferendo ricorrere alle leggi, ai principi morali per difendere i propri
interessi.

La seconda ragione (che potremmo con qualche forzatura definire di tipo
«costruttivistico») del dissenso politico-morale può essere individuata
nella diversa esperienza che Europa e Stati uniti hanno avuto nel «secolo
breve» in relazione all'uso della forza: orribile l'esperienza dell'Europa,
dilaniata da due tremende guerre fratricide, colpita da feroci
totalitarismi e ferita al cuore dall'Olocausto; esaltante invece quella
degli Stati uniti, trasformatisi da potenza geopoliticamente eccentrica in
iperpotenza. In realtà, tutte e due le spiegazioni (quella realista e
quella costruttivistica) sono fondate ed entrambe trovano conferma
nell'analoga esperienza del Giappone, in cui alla fase di uno spietato
militarismo espansionista (modellato su quello europeo) ha fatto seguito -
attraverso la catarsi del duplice olocausto atomico - quella del Giappone
«obiettore di coscienza» del dopoguerra.

Il nuovo atteggiamento che il Giappone e l'Europa stanno assumendo nei
confronti dell'iperpotenza (il rientro in Asia dell'arcipelago nipponico e
il dissenso politico-morale di alcuni importanti paesi europei) potrebbe
avere rilevanti conseguenze anche a livello sistemico. Se si tiene presente
che dopo il bipolarismo sia l'Europa occidentale sia il Giappone hanno
perduto la rendita di posizione geopolitica, è possibile immaginare una
relativa marginalizzazione delle due periferie dell'Eurasia, quelle
periferie che attraverso le due maggiori alleanze militari oggi esistenti
(la Nato e il Patto di sicurezza nippo-americano) hanno consentito agli Usa
di non rimanere «un'isola» (condizione a cui la geopolitica li
condannerebbe, secondo la celebre espressione di Kissinger) e di
controllare la heartland, il cuore dell'Eurasia. Peraltro l'Europa
occidentale, con limitati mezzi e poche ambizioni politiche, appare ancora
politicamente divisa (basti pensare all'affannosa corsa alla spicciolata a
Washington dei singoli governi europei subito dopo l'11 settembre, e oggi
alla profonda divisione sulla guerra preventiva), mentre il Giappone, pur
continuando ad essere la seconda potenza economica del pianeta, resta
impaludato in una profondissima crisi che sembra non finire mai.

Per evitare questa marginalizzazione, ma soprattutto per cercare di frenare
con efficacia la spinta all'unilateralismo degli Usa, è necessario
«ripristinare la via della seta» (cioè rafforzare i legami tra le due
periferie euroasiatiche) e far sì che l'Europa e soprattutto il Giappone
svolgano un ruolo politico più attivo come attori internazionali, anche per
non lasciare Mosca troppo esposta alle lusinghe americane e anzi
coinvolgendola in un assetto multipolare del sistema internazionale. Ma
questo implica per il Giappone una certa «normalizzazione», vale a dire
l'abbandono di un pacifismo che a molti pare di comodo e un rafforzamento
del suo potere seppure soft e finalizzato alla difesa di valori civili, e
per l'Europa un'azione internazionale più incisiva anche in campo militare.
In questo contesto, la Cina potrebbe ricevere le necessarie sollecitazioni
per agire come un attore responsabile di issues globali e non solo
interessato a questioni riguardanti esclusivamente la propria sfera
d'influenza.

Ciò che all'interno dell'Occidente si profila è un pericoloso scollamento
tra l'Europa e il Giappone da una parte e gli Usa dall'altra. Qquesto
potrebbe favorire la spinta dell'Iperpotenza verso l'unilateralismo,
consentendole una forma di «internazionalizzazione selettiva», cioè
negoziata bilateralmente di volta in volta con una delle grandi potenze
(Europa, Russia, Cina, Giappone) sulla base di una concezione della forza
intesa non come «ultima risorsa» bensì come strumento normale di
strumentazione dell'azione politica. E ciò in polemica con le posizioni
assunte da Parigi e Bonn e della stragrande maggioranza dell'opinione
pubblica europea. Se così fosse, allora la guerra in corso contro il
terrorismo sarebbe non solo aterritoriale, asimmetrica, atemporale come è
stato giustamente detto, ma anche costituente di un nuovo ordine mondiale:
quella guerra costituente che mancò nell' '89, il che spinse alcuni
studiosi di scuola liberale a parlare ottimisticamente di annus mirabilis.

Uno degli scenari più inquietanti è proprio la nascita di una Santa
Alleanza a geometria variabile, in sostituzione dello scomparso «concerto»
sovietico-americano. Un'alleanza, questa che si profila all'orizzonte,
diretta non più contro i nazionalismi o le rivoluzioni sociali, ma contro
il terrorismo considerato elemento strutturale dell'instabile sistema
internazionale post-bipolare, e avente come obiettivi di fondo, oltre al
pieno controllo dell'emisfero meridionale, l'emarginazione del mondo
islamico e successivamente il contenimento della Cina, qualora questa
dovesse ripresentarsi come perturbatrice del nuovo ordine voluto dagli
Stati Uniti.

Ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università
«L'Orientale» di Napoli