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usa - cina - ue , strategie globali
- Subject: usa - cina - ue , strategie globali
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Sun, 02 Mar 2003 08:28:25 +0100
il manifesto - 01 Marzo 2003 Se Pechino torna in Asia Dopo l'11 settembre è il terrorismo, non più la Cina, la «minaccia principale» per gli Usa. Ma Pechino teme i rapporti fra Washington e Mosca e si sente più a rischio di prima. Intanto, mentre si apre la divaricazione fra Usa Europa, anche il Giappone dà segni di insofferenza verso l'alleato americano. Un doppio scollamento dentro il campo occidentale che potrebbe sfociare in una Santa Alleanza a geometria variabile per il controllo dell'emisfero meridionale e l'emarginazione del mondo islamico FRANCO MAZZEI La «guerra globale al terrore» scatenata dagli Stati uniti dopo gli attacchi terroristici delle Torri Gemelle, sebbene non abbia direttamente coinvolto l'Asia orientale, ha profondamente modificato il panorama geostrategico della regione. Prima dell'11 settembre, nella percezione di Washington la Cina, in forte ascesa in termini di potere sia economico che militare, rappresentava la minaccia in quanto potenza «revisionista», challenger nei confronti degli Stati uniti, che - unica superpotenza rimasta - se non «egemoni» in senso stretto dispongono quantomeno della supremazia (primacy). La tesi della «minaccia cinese» - dominante nelle cancellerie e nel mondo accademico durante tutto il decennio successivo allo sfaldamento dell'Unione sovietica - spingeva i falchi di Washington ad una politica di «contenimento preventivo» nei confronti di Pechino, le cui ambizioni avrebbero destabilizzato l'Asia orientale ledendo gli interessi degli Stati uniti. Oggi, dopo l'11settembre, per Washington la minaccia non è più la Cina bensì il terrorismo internazionale. Paradossalmente però Pechino si sente ora più vulnerabile e financo accerchiata, a causa in primo luogo del massiccio ritorno militare degli Usa in Asia centrale, un'area considerata sotto la propria sfera d'influenza. La maggior parte degli analisti, infatti, ritiene che la Cina sia il paese per il quale l'11 settembre potrebbe avere, nel medio e lungo periodo, le conseguenze strategiche più sfavorevoli . Prima degli attacchi terroristici di New York, Pechino era convinta che la principale posta in palio per Washington fosse ancora la sicurezza dell'Europa, insanguinata dalle guerre dei Balcani; e questo spiega l'iniziale interpretazione data dai cinesi dell'11 settembre come un ulteriore segno del declino americano. Dopo un primo tentennamento, la Cina ha dovuto inghiottire l'amara pillola della nuova dottrina di Bush («o con l'America e con il terrorismo»), collaborando con gli Stati uniti in vari modi. Tuttavia, la sua risposta è apparsa agli americani non solo un po' tardiva ma anche troppo condizionata. Dopo un anno e mezzo circa, il bilancio non è rassicurante per Pechino sotto molti aspetti. Inanzitutto, la crescente presenza militare Usa in Asia Centrale ha in pratica vanificato i meticolosi sforzi diplomatici intrapresi nell'ultimo decennio per estendere la propria influenza in questa regione (si pensi all'improvvisa marginalizzazione del cosiddetto «Gruppo di Shanghai», la cui costituzione era considerata il capolavoro della diplomazia cinese). In secondo luogo, va menzionato il cambiamento verificatosi nelle relazioni Usa-Russia come immediata conseguenza degli attentati delll'11 settembre. Dopo il 1989, uno degli obiettivi strategici prioritari della diplomazia di Pechino era stato il miglioramento dei rapporti con Mosca, allo scopo di creare un nuovo assetto internazionale di tipo multilaterale che contrastasse efficacemente le tendenze egemoniche statunitensi. Pertanto, è stato un duro colpo per Pechino constatare che l'intervento militare americano in Afghanistan sia stato fatto non solo con l'appoggio del suo più fido alleato (il Pakistan), ma anche con la benedizione del suo grande vicino settentrionale (la Russia), che nelle opzioni post-bipolari di Pechino doveva essere il partner strategico e che, invece, sembra essersi legato ancor più saldamente agli Stati uniti, segnatamente dopo il terribile attentato terroristico del Teatro di Mosca. In conclusione, dopo l'11 settembre il margine di manovra di Pechino si è molto ridotto, in un momento in cui la situazione politica interna potrebbe essere gravemente turbata da fattori di varia natura (una profonda crisi socio-economica provocata dal fallimento della politica di liberalizzazione in atto, ovvero agitazioni separatiste in particolare nel Tibet e nel Xinjiang ove il fondamentalismo islamico è motivo di grave apprensione). Anche se la situazione appare oggi più favorevole a Pechino, in conseguenza delle crescenti difficoltà che Washington sta incontrando sulla «guerra preventiva» contro l'Irak a causa dell'opposizione non solo di potenze con diritto di veto nel Consiglio di sicurezza (Russia, Cina e perfino un paese alleato come la Francia), ma anche dell'opinione pubblica globale, che, spesso dissociata dai rispettivi governi, si rivela sempre più un attore attivo delle relazioni internazionali (con buona pace degli studiosi realisti), come hanno dimostrato le imponenti manifetsazioni pacifiste del 15 febbraio. Diversamente da quella di Pechino, immediata e per molti versi sorprendente è stata la reazione di Tokyo all'attacco terroristico di Manhattan. Il primo ministro Koizumi non ha esitato ad annunciare che il suo paese avrebbe fornito supporto militare agli Stati uniti nella guerra in Afghanistan; e sulla stessa linea d'onda la Dieta nipponica, aggirando la clausola pacifista della Costituzione (imposta dagli occupanti americani ma ben presto interiorizzata dal popolo giapponese), ha approvato una legge che consente, per la prima volta in questo dopoguerra, la partecipazione attiva delle forze di auto-difesa (Fad) nipponiche all'estero in operazioni belliche condotte senza l'egida dell'Onu, seppure con compiti essenzialmente logistici e non di combattimento. Il dibattito sull'opportunità per il Giappone di diventare un paese «normale» (in termini di capacità militari) era già in atto ben prima dell'11 settembre. Ma è evidente che la nuova legge ha provocato uno strappo verso questa direzione, perché non solo attenua i vincoli posti dalla clausola pacifista della Costituzione ma priva anche paesi come la Cina della possibilità di denunciare (spesso strumentalmente) la «rinascita del militarismo nipponico»", in quanto questo sarebbe semmai a servizio di una «nobile causa» (la lotta al terrorismo). L'accresciuto ruolo militare del Giappone va valutato nell'ambito della speciale relazione che da mezzo secolo lega il Sol Levante agli Stati uniti. Si tratta di una relazione complessa, assai asimmetrica ma cruciale per la stabilità della regione Asia-Pacifico e forse del sistema internazionale nel suo insieme, e che dopo gli attentati terroristici contro le Torri Gemelle forse si trova ad una svolta decisiva. Comunque sia, contrariamente alle aspettative di molti americani, difficilmente il Giappone diventerà un alleato militare degli Stati uniti a tutti gli effetti, una sorta di «Inghilterra del Pacifico»: semmai sarà su posizioni più vicine a quella della Germania di Schroeder. Ne consegue che gli americani dovranno imparare a convivere con questo tipo di Giappone, che dopo mezzo secolo di fedele alleanza gradualmente esce dall'Occidente e «rientra in Asia»; l'Asia da cui era «uscito» dopo l'olocausto atomico allorché dovette - per «comandamento» del Tennô-«sopportare l'insopportabile» (la resa incondizionata). Il graduale rientro in Asia del Giappone è un problema che trascende la mera relazione nippo-americana e più in generale i rapporti transpacifici. Durante la Guerra fredda, il termine «Occidente» (West) era un concetto politico che denotava quei paesi che si opponevano al comunismo e (almeno in teoria) volevano difendere il pluralismo politico ed economico. Per più di mezzo secolo il Giappone si è sentito membro effettivo dell'Occidente e tale è stato considerato dalle grandi democrazie occidentali. Ma dopo la Guerra fredda e soprattutto dopo l'11 settembre, «Occidente» è diventato sempre più un concetto civilizational, che si riferisce ai paesi che condividono la civiltà occidentale. E' indubbio che il Giappone si trova - per così dire - fuori posto in un Occidente così concettualizzato; e si comprende quindi che nell'opinione pubblica nipponica si stia rafforzando l'asiatismo in quanto norma che condiziona il processo decisionale in politica estera, a danno del vecchio bilateralismo che privilegiava la relazione speciale con gli Usa, cui di fatto era affidata la gestione della politica estera nipponica. Del resto, non pochi studiosi, anche occidentali, hanno sollevato il dubbio se «Occidente» sia ancora realmente un concetto coerente. Secondo molti analisti, nel sistema transatlantico sarebbe emersa una frattura tra gli Stati uniti e i loro partners europei, segnatamente la Germania e la Francia che costituiscono l'asse trainante dell'Ue; e questo divide, rafforzatosi nel corso del dibattito in atto sulla guerra preventiva contro l'Irak, non sarebbe affatto un problema transitorio, effetto dello stile dell'amministrazione Bush, bensì la conseguenza di un diverso modo di vedere il locus della legittimità democratica. In realtà, ormai su quasi tutte le più importanti questioni politiche e in particolare su quelle concernenti il potere (la sua efficacia, la sua desiderabilità, la sua moralità) le prospettive dell'America e dell'Europa sono divergenti. Come ha sottolineato Robert Kagan in un suo saggio molto discusso, la «crepa» transatlantica è profonda e destinata a durare, nonostante molti intellettuali europei tendano a sottovalutarla. Il problema allora è individuare le cause di questo dissenso, e al riguardo due sono le principali spiegazioni avanzate. La prima, di scuola realista, fa derivare il diverso atteggiamento nei confronti dell'uso del potere dalla diversa distribuzione della forza: insomma dal fatto che gli Stati uniti ora sono una iperpotenza mentre l'Europa è relativamente debole. Sempre secondo i realisti, «la soglia di tolleranza», come per gli individui così anche per gli stati, è tanto più bassa quanto maggiore è il potere di cui si dispone; e i deboli cercano, nei limiti del possibile, di evitare l'uso della forza preferendo ricorrere alle leggi, ai principi morali per difendere i propri interessi. La seconda ragione (che potremmo con qualche forzatura definire di tipo «costruttivistico») del dissenso politico-morale può essere individuata nella diversa esperienza che Europa e Stati uniti hanno avuto nel «secolo breve» in relazione all'uso della forza: orribile l'esperienza dell'Europa, dilaniata da due tremende guerre fratricide, colpita da feroci totalitarismi e ferita al cuore dall'Olocausto; esaltante invece quella degli Stati uniti, trasformatisi da potenza geopoliticamente eccentrica in iperpotenza. In realtà, tutte e due le spiegazioni (quella realista e quella costruttivistica) sono fondate ed entrambe trovano conferma nell'analoga esperienza del Giappone, in cui alla fase di uno spietato militarismo espansionista (modellato su quello europeo) ha fatto seguito - attraverso la catarsi del duplice olocausto atomico - quella del Giappone «obiettore di coscienza» del dopoguerra. Il nuovo atteggiamento che il Giappone e l'Europa stanno assumendo nei confronti dell'iperpotenza (il rientro in Asia dell'arcipelago nipponico e il dissenso politico-morale di alcuni importanti paesi europei) potrebbe avere rilevanti conseguenze anche a livello sistemico. Se si tiene presente che dopo il bipolarismo sia l'Europa occidentale sia il Giappone hanno perduto la rendita di posizione geopolitica, è possibile immaginare una relativa marginalizzazione delle due periferie dell'Eurasia, quelle periferie che attraverso le due maggiori alleanze militari oggi esistenti (la Nato e il Patto di sicurezza nippo-americano) hanno consentito agli Usa di non rimanere «un'isola» (condizione a cui la geopolitica li condannerebbe, secondo la celebre espressione di Kissinger) e di controllare la heartland, il cuore dell'Eurasia. Peraltro l'Europa occidentale, con limitati mezzi e poche ambizioni politiche, appare ancora politicamente divisa (basti pensare all'affannosa corsa alla spicciolata a Washington dei singoli governi europei subito dopo l'11 settembre, e oggi alla profonda divisione sulla guerra preventiva), mentre il Giappone, pur continuando ad essere la seconda potenza economica del pianeta, resta impaludato in una profondissima crisi che sembra non finire mai. Per evitare questa marginalizzazione, ma soprattutto per cercare di frenare con efficacia la spinta all'unilateralismo degli Usa, è necessario «ripristinare la via della seta» (cioè rafforzare i legami tra le due periferie euroasiatiche) e far sì che l'Europa e soprattutto il Giappone svolgano un ruolo politico più attivo come attori internazionali, anche per non lasciare Mosca troppo esposta alle lusinghe americane e anzi coinvolgendola in un assetto multipolare del sistema internazionale. Ma questo implica per il Giappone una certa «normalizzazione», vale a dire l'abbandono di un pacifismo che a molti pare di comodo e un rafforzamento del suo potere seppure soft e finalizzato alla difesa di valori civili, e per l'Europa un'azione internazionale più incisiva anche in campo militare. In questo contesto, la Cina potrebbe ricevere le necessarie sollecitazioni per agire come un attore responsabile di issues globali e non solo interessato a questioni riguardanti esclusivamente la propria sfera d'influenza. Ciò che all'interno dell'Occidente si profila è un pericoloso scollamento tra l'Europa e il Giappone da una parte e gli Usa dall'altra. Qquesto potrebbe favorire la spinta dell'Iperpotenza verso l'unilateralismo, consentendole una forma di «internazionalizzazione selettiva», cioè negoziata bilateralmente di volta in volta con una delle grandi potenze (Europa, Russia, Cina, Giappone) sulla base di una concezione della forza intesa non come «ultima risorsa» bensì come strumento normale di strumentazione dell'azione politica. E ciò in polemica con le posizioni assunte da Parigi e Bonn e della stragrande maggioranza dell'opinione pubblica europea. Se così fosse, allora la guerra in corso contro il terrorismo sarebbe non solo aterritoriale, asimmetrica, atemporale come è stato giustamente detto, ma anche costituente di un nuovo ordine mondiale: quella guerra costituente che mancò nell' '89, il che spinse alcuni studiosi di scuola liberale a parlare ottimisticamente di annus mirabilis. Uno degli scenari più inquietanti è proprio la nascita di una Santa Alleanza a geometria variabile, in sostituzione dello scomparso «concerto» sovietico-americano. Un'alleanza, questa che si profila all'orizzonte, diretta non più contro i nazionalismi o le rivoluzioni sociali, ma contro il terrorismo considerato elemento strutturale dell'instabile sistema internazionale post-bipolare, e avente come obiettivi di fondo, oltre al pieno controllo dell'emisfero meridionale, l'emarginazione del mondo islamico e successivamente il contenimento della Cina, qualora questa dovesse ripresentarsi come perturbatrice del nuovo ordine voluto dagli Stati Uniti. Ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università «L'Orientale» di Napoli
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