critica al libro bianco



da la voce.it 
 
20-02-2003  
Libro Bianco: i sogni chiusi nel cassetto 
Chiara Saraceno 


Qualcuno ha detto che il Libro bianco sul welfare, presentato alle parti
sociali a metà febbraio, è un libro dei sogni. Mi sembra una definizione
impropria e troppo generosa. Si tratta infatti, a mio parere, di un
documento che non apporta nulla di nuovo sul piano analitico, ampiamente
scopiazzato da studi e documenti pre-esistenti e per altro mai citati,
spesso contraddittorio nel passaggio tra l’analisi e le proposte di policy,
e soprattutto contraddittorio con le altre politiche economiche e del
lavoro messe in atto dal governo e dallo stesso ministero responsabile del
Libro bianco. 

Così, a livello analitico si prende atto che i giovani faticano a uscire da
casa anche quando hanno un lavoro perché non si sentono sufficientemente
garantiti rispetto alla continuità del lavoro e del reddito. Ma poi da un
lato, con la legge sul mercato del lavoro (questa sì con una sua compatta
coerenza) si accentua la precarietà dei contratti di lavoro, dall’altro con
la legge Finanziaria si offre loro, se si sposano, la possibilità di
acquistare una abitazione; ovvero li si invita a investire tutte le loro
risorse, incerte, presenti e future nell’acquisto della casa, irrigidendone
progetti di vita e di mobilità (nonostante il documento, sorprendentemente,
consideri l’acquisto dell’abitazione un incentivo alla mobilità). Daniela
Del Boca ha giustamente notato che almeno in questo modo si rendono i
giovani un po’ meno dipendenti dai genitori per l’acquisto della casa. Ma è
l’opportunità di un incentivo all’acquisto dell’abitazione da parte dei
giovani che trovo discutibile (e certo non prioritaria), rispetto a una
popolazione giovanile il cui orizzonte di sicurezza nel breve e medio
termine è sempre più incerto e da cui ci si aspetta disponibilità alla
mobilità territoriale. Tra l’altro, se lo scopo è quello di aumentare le
nascite, è improbabile che coppie indebitate, sia pure con mutui agevolati,
e con prospettive economiche incerte, rischino di mettere al mondo un
figlio, o un figlio in più.

Analoga e più drammatica contraddizione si trova tra la dettagliata analisi
del sovraccarico di lavoro e responsabilità che grava sulle famiglie
allargate anche alla parentela e la proposta di sviluppare il diritto ai
servizi universali mediante l’incremento e l’attivazione delle reti di
solidarietà e di mutuo aiuto familiare – ovvero mediante il ricorso a
quella risorsa che è già così ampiamente attivata da essere, appunto sotto
crescente stress, anche perché ne sta fortemente mutando la composizione
demografica. Anche la questione della conciliazione tra responsabilità
familiari e lavorative, oltre a essere definita come riguardante
esclusivamente le donne, trova un forte limite nella attesa di una
perdurante e rafforzata disponibilità al lavoro di cura, ancorché scambiato
entro le reti di solidarietà informali e talvolta sostenuto da qualche
voucher.

La parte del leone a livello propositivo, per altro, è lasciata alle
detrazioni fiscali – che si tratti di sostenere il costo dei figli o di
contrastare la povertà. Questo strumento, come è argomentato da Boeri e
Perotti, è meno universalistico di quanto appaia e soprattutto non tocca la
condizione di chi è più povero, magari perché ha fatto un figlio in più (1).

È proprio sul terreno delle politiche di contrasto alla povertà che questo
documento appare non già un libro dei sogni, ma la conferma di un
arretramento. Dopo aver affermato, senza alcuna prova, che la
sperimentazione del Rmi ha dimostrato che è impossibile individuare per
legge i poveri a livello nazionale(come faranno negli altri paesi a
individuare per legge non già i poveri, ma i criteri che danno diritto al
sostegno economico e sociale?), rimanda il tutto alle Regioni, ovvero
sancisce il modello di cuius regio eius et religio nelle politiche
assistenziali che ha caratterizzato fino a oggi la situazione italiana.
Contestualmente torna all’antico con la proposta di distinguere tra poveri
meritevoli di sostegno – i casi più problematici, di esclusione estrema – e
invece i poveri che dovrebbero lavorare. Ci sarebbe da rallegrarsi se ciò
implicasse che a questi ultimi verrà garantito un lavoro a salario decente.
Dato che, ovviamente, non è così, la domanda riguarda il tipo di sostegno
che riceveranno queste persone – e i loro figli – nell’attesa del lavoro:
una detrazione fiscale da un imponibile che non c’è? Mi sembra che si sia
fatta una voluta confusione tra la necessità di differenziare molto le
misure di accompagnamento sociale a seconda delle caratteristiche
biografiche di chi ha bisogno di sostegno e l’opportunità di distinguere
tra chi, essendo povero, può ricevere sostegno economico e chi no.

Ma tutte queste osservazioni perdono peso di fronte a quella più
importante, a livello pratico. Nonostante la dichiarazione che investire
nel sociale è necessario, oltre che giusto, e che occorre aumentare
considerevolmente le risorse destinate alle politiche sociali, nella Legge
Finanziaria 2003 esse sono state diminuite. E in questi giorni il Governo
ha annunciato un ulteriore decurtamento dell’ordine del 40 per cento per
ripianare un buco del bilancio Inps. Ciò significherà che i servizi locali
dovranno venire chiusi, o fatti pagare a tariffe altissime, con buona pace
del sostegno alle famiglie e del contrasto alla povertà.