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l'oro nero e la guerra
- Subject: l'oro nero e la guerra
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Tue, 29 Oct 2002 07:04:29 +0100
il manifesto - 10 Ottobre 2002 L'oro nero bagna la guerra Si avvicina la fine dell'era del greggio abbondante e basso costo. Questo annunciava, nel 2001, un rapporto «politico» delle lobby del petrolio, di cui fa parte anche il vicepresidente Cheney. E suggeriva, evidentemente ascoltato, l'uso dell'intervento militare per garantire gli approvvigionamenti agli Stati uniti RITT GOLDSTEIN Un rapporto dell'inizio del 2001, predisposto congiuntamente dal potente Council on Foreign Relations (Cfr) e dal James A. Baker Institute for Public Policy (Jbipp), metteva in luce il fatto che gli Usa stanno per finire il petrolio, prospettando anche l'eventuale «necessità dell'intervento militare» per garantire gli approvvigionamenti petroliferi. Il Rapporto, un documento politico che formulava alcune proposte per la strategia dell'amministrazione Bush in campo energetico, plaudiva anche alla creazione, da parte di Dick Cheney, di una task force sull'energia con lo scopo di mettere a punto specifici piani energetici, e suggeriva di considerare la possibilità di includervi una «rappresentanza del Dipartimento della Difesa». Intitolato «Strategic Energy Policy Challanges for the 21st Century», il Rapporto congiunto paventa la fine del greggio abbondante e a basso prezzo. L'industria dell'energia comincerebbe ad avere scorte limitate. Il Rapporto sollecita l'amministrazione Bush a rivelare «queste dolorose verità al popolo americano». Alcune informazioni sugli autori del Rapporto. Il Council on Foreign Relations è uno dei gruppi più potenti tra quelli che influenzano la politica americana. C'è chi sostiene che sia il più potente. Tra i suoi membri vi sono numerosi esponenti del governo attuale e di governi precedenti oltre ad alcuni dei più potenti uomini d'affari sul pianeta, tra cui: Zbigniew Brzezinski, Frank C. Carlucci (presidente del gruppo Carlyle), Jimmy Carter, Richard B. Cheney (vice presidente Usa), Henry A. Kissinger, Richard N. Perle, Brent Scowcroft e molti altri. Per quanto riguarda il James A. Baker III Institute for Public Policy della Rice University, la sua influenza politica è di natura simile. Affermando che «non c'è alternativa. E non c'è tempo da perdere», il loro documento prospetta in futuro l'esplosione dei prezzi dell'energia, la recessione economica e scontri sociali negli Usa, a meno che non si trovino le risposte. Sottolineando l'urgenza delle attuali circostanze, il rapporto prospetta un periodo di almeno tre-cinque anni per creare le infrastrutture necessarie a rispondere al fabbisogno energetico dell'America con, in alcuni casi, tempi ancora più lunghi. Il documento chiede «il ripensamento del ruolo dell'approvvigionamento energetico nella politica estera americana». L'accesso al petrolio viene citato ripetutamente come un «imperativo per la sicurezza». Il Rapporto fa anche saltare il mito, molto diffuso, secondo cui gli Usa sarebbero in qualche modo al riparo dai problemi di approvvigionamento petrolifero dal Medio Oriente, perché l'America riceverebbe la maggior parte del petrolio da fonti meno instabili, fuori del Golfo Persico. Secondo il Rapporto, «la natura globale del commercio e del prezzo del petrolio significa che importa poco se il petrolio del Golfo arriva in Asia o negli Usa. I trend mediorientali nella definizione del prezzo e negli approvvigionamenti influenzerà comunque i costi energetici in tutto il globo». Il Rapporto rivela in modo esplicito e dettagliato sia una motivazione alternativa per la guerra al terrorismo americana, sia la motivazione apparente per molta parte dell'attuale politica estera dell'amministrazione Bush, la sua cosiddetta oil agenda. Sono state presentate iniziative per migliorare gli approvvigionamenti petroliferi dal Venezuela, dalla Colombia, dall'Africa occidentale, dal Caspio e dall'Indonesia. L'amministrazione ha affrontato attivamente la questione petrolifera con ciascuno di essi, e Colin Powell è recentemente tornato da due paesi africani produttori di petrolio. Uno dei «passi immediati» che il Rapporto chiede è di verificare se si possa modificare la politica Usa in modo da velocizzare la disponibilità di «petrolio dalla regione del bacino del Caspio». Questo confermerebbe vecchie accuse secondo le quali le questioni energetiche farebbero ombra all'agenda americana sull'Afghanistan. Per gli autori francesi Jean-Charles Brisard e Guillame Dasquie, gli interessi petroliferi americani hanno convinto l'amministrazione Bush a bloccare le indagini sul terrorismo e a negoziare con i Taleban, come risulta da un resoconto del 15 novembre 2001 dell'Inter Press Service (Ips). L'obiettivo Usa, ripetutamente citato, era la costruzione di oleodotti e gasdotti trans-afghani che avrebbero dovuto permettere l'accesso al petrolio e al gas del Mar Caspio. Secondo gli autori, e anche secondo un articolo del gennaio 2002 apparso su Le Monde Diplomatique, i tentativi Usa di comprare e poi di minacciare i Taleban avevano preceduto l'11 settembre. L'articolo Ips cita gli autori francesi e riferisce che, di fronte al rifiuto dei Taliban di collaborare, «la giustificazione della sicurezza energetica è diventata una giustificazione al ricorso alla forza militare», in linea con quella che il rapporto presentava come una opzione valida. Una nota a margine alla questione delle minacce militari Usa è offerta dal Gao (General Accounting Office), organismo investigativo del Congresso Usa. Questo ha fatto causa al vice presidente Dick Cheney per ottenere informazioni dettagliate sui meeting tenuti dalla task force sull'energia. I gruppi ambientalisti hanno speculato che si sta combattendo la causa, la prima in 81 anni di storia del Gao, per nascondere il livello di coinvolgimento della Enron nella task force. Tuttavia questo Rapporto solleva ulteriori preoccupazioni: se, dando seguito alle raccomandazioni del Rapporto, il Dipartimento della Difesa abbia partecipato davvero alla task force di Dick Cheney sull'energia, di cosa si sia discusso, con chi, e quando. Questi sono interrogativi che dovranno avere una risposta. Per quanto riguarda la colpa per la crisi attuale essa viene attribuita, sia pure con riluttanza, alla deregulation dei mercati energetici, e si parla anche della mancanza di una ampia politica energetica Usa e del fatto che non siano state adottate misure di conservazione e di diversificazione dell'energia. Secondo il Rapporto, con la deregulation, le compagnie hanno evitato l'alto costo rappresentato da una sovracapacità produttiva nell'industria petrolifera, optando invece per un profitto aggiuntivo. Di conseguenza, la sovracapacità dell'industria petrolifera nel mondo è scesa da circa l'8% di domanda globale nel 1990 a «un trascurabile 2% di domanda globale». Una sfida petrolifera del Medio Oriente alla politica estera Usa appare come il peggiore incubo della task force. La maggior parte della attuale capacità produttiva di riserva, dice il Rapporto, «si trova in Arabia Saudita», più una parte aggiuntiva negli Emirati Arabi Uniti. Questo rende l'America sempre più vulnerabile, mentre è in aumento la percentuale mondiale di petrolio proveniente dal Medio Oriente. Nel Rapporto si nota anche che una interruzione nell'oleodotto dell'Alaska «avrebbe lo stesso impatto di una rivoluzione che tagli le forniture da un importante produttore di petrolio mediorientale». Il Rapporto paragonava l'attuale situazione energetica Usa a una automobile che viaggi a 140 km orari con un ammortizzatore rotto: una situazione buona finché tutto fila liscio, fatale se si incontra una strada accidentata. Focalizzandosi sulle attuali limitazioni di forniture petrolifere e le gravi ripercussioni che si verificherebbero se queste venissero meno, non sorprende che il documento esprima ripetutamente preoccupazioni sulla dipendenza dal petrolio mediorientale, esprimendo le incertezze generate dalla «pressione interna» cui sono attualmente soggetti gli stati del Golfo, con riferimento a un «anti-americanismo» nella regione. Per affrontare queste questioni vengono sollecitate anche alternative diplomatiche, considerate in grado di offrire all'amministrazione delle opzioni in campo politica, ma a partire dall'11 settembre la politica sembra in sintonia solo con l'opzione, citata nel rapporto, dell'«intervento militare». Le idee presentate, riguardanti un alleggerimento del conflitto arabo-israeliano, l'ammorbidimento delle sanzioni contro l'Iraq e la «riduzione delle restrizioni sugli investimenti petroliferi all'interno dell'Iraq» restano di segno opposto rispetto alla politica attuata da Bush. Si potrebbe dire per analogia che è stata offerta la scelta tra un guanto di velluto e un pugno d'acciaio. Bush usa il secondo. L'importanza dell'Iraq come paese produttore di petrolio è menzionata ripetutamente, così come il bisogno di estendere la produzione irachena nel più breve tempo possibile per andare incontro alle previste carenze nelle scorte, carenze che nel breve termine possono essere evitate solo attraverso una maggiore produzione o conservazione. In sostanza, il Rapporto vede la politica del Golfo Persico come una minaccia significativa e come un ostacolo a maggiori approvvigionamenti energetici. Implicito nelle preoccupazioni che «gli alleati del Golfo stanno giudicando i loro interessi in politica interna ed estera sempre più in contrasto con le considerazioni strategiche degli Stati uniti», e che «appare evidente che gli investimenti non si stanno facendo in modo abbastanza tempestivo» per andare incontro ai bisogni globali, c'è il presupposto di quella che è ora diventata una posizione quasi apertamente accusatoria. L'ovvia implicazione è che se gli Usa dovessero improvvisamente ottenere un controllo saldo dei siti petroliferi mediorientali, le compagnie petrolifere americane potrebbero effettuare gli investimenti necessari a estendere le ricerche e la produzione. Questo eviterebbe temporaneamente la fine del greggio a basso prezzo e alla portata. Quest'estate, resoconti giornalistici hanno cominciato a dipingere l'Arabia Saudita come un possibile bersaglio dell'anti-terrorismo. Anche la retorica sull'Iraq è stata costantemente alimentata prima con una accusa, poi con un'altra, creando quasi una situazione da «accusa del giorno». Gli addetti alla difesa nazionale Usa sono stati a guardare mente l'Iraq diventava il «perno strategico», e si è discusso sempre di più con un'agenda basata sulla formula: «non solo un nuovo regime in Iraq» ma un «nuovo Medio Oriente». Condoleezza Rice e Dick Cheney presentano entrambi questo scenario come una rivoluzione democratica in Medio Oriente, ma preoccupazioni su pressioni interne da parte delle popolazioni di questi paesi sembrerebbero contraddirli. Altre posizioni tra cui quella di Mo Mowlam, ex ministra del governo Blair, vedono un'invasione dell'Iraq come destabilizzante per la regione. Il caos che con ogni probabilità ne seguirebbe fornirebbe il necessario pretesto per una efficace occupazione Usa degli impianti petroliferi del Medio Oriente. Ma l'invasione in Afghanistan non ha ancora portato a quegli oleodotti e a quei gasdotti considerati tanto importanti, e mentre il presidente afghano si fa proteggere dai soldati americani, nel Rapporto si sostiene ripetutamente che la sola cosa sicura che sta andando avanti è ciò che è stato chiamato «Il Nuovo Grande Gioco», la lotta per l'impero.
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