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quando il welfare produce consenso
- Subject: quando il welfare produce consenso
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Wed, 09 Oct 2002 06:46:56 +0200
il manifesto - 25 Settembre 2002 IL MODELLO SVEDESE Quando il welfare produce consenso Un voto utile Il risultato elettorale di Stoccolma smentisce i luoghi comuni dei centrosinistra europei sui poteri miracolistici del mercato e sulle «obbligatorie» convergenze al centro LUIGI CAVALLARO Non solo dalla Germania arrivano lezioni per la sinistra nostrana. Se è vero (lo ricordava ieri Luciana Castellina) che l'affermazione di Schröder richiama tutti noi sulla possibilità di vincere senza prima immolarci sull'altare del Patto di stabilità, o rinunziare a valori come il paficismo e l'ecologismo (per non parlare di un'attenta politica industriale ed energetica), la recente vittoria dei socialdemocratici in Svezia costituisce un interessante banco di prova per testare un altro assunto largamente corrente presso l'intellettualità nostrana: per reggere il confronto con la globalizzazione, il nostro welfare state dovrebbe essere ridimensionato a vantaggio dell'iniziativa privata. In Svezia, infatti, le sinistre hanno vinto non perché promettessero di «riformare» il welfare, ma - al contrario - perché hanno insistito sul suo mantenimento e ampliamento. E benché le ragioni per cui in Svezia appare essersi concretizzata quella «quadratura del cerchio» che, in altre parti d'Europa, sembra invece irraggiungibile, siano da ricercare nell'evoluzione che il regime di welfare svedese ha subito negli ultimi trent'anni, provare a metterle a fuoco può assumere il valore di un concreto suggerimento di politica economica. Come emerge nitidamente nei lavori di G¢sta Esping-Andersen, le peculiarità del modello scandinavo di «Stato del benessere» non sono tanto da ricercare nel carattere universale delle provvidenze erogate (dall'istruzione alla sanità, alle pensioni, concesse a tutti i cittadini e non solo a coloro che certificano un qualche stato di indigenza), né in una loro particolare «generosità» (basti pensare alle pensioni di cui godono i dipendenti pubblici in certi regimi «continentali»: Francia, Germania e Italia), quanto piuttosto nel fatto che, venuto a crisi quel particolare regime d'accumulazione che fu il fordismo, dunque venuto a crisi un modello occupazionale basato sul lavoro maschile standardizzato e a tempo indeterminato, sul quale era (ed è tuttora) costruito il sistema delle protezioni sociali della stragrande maggioranza dei paesi occidentali, il welfare scandinavo ha cominciato ad aggiungere (aggiungere, si badi, non sostituire) alle misure già esistenti un'enorme quantità di servizi sociali a favore delle donne occupate. In primo luogo per garantire l'assistenza ai bambini (grazie ad una rete straordinaria di asili-nido, tale per cui una famiglia svedese sopporta circa un terzo del costo che una famiglia italiana deve fronteggiare per fruire di un servizio analogo, che incide qui da noi per circa il 40% del reddito familiare medio) e, in secondo luogo, per assicurare l'assistenza agli anziani. Si è trattato di una politica a favore della famiglia, ma in un senso molto diverso dalla tradizionale accezione conservatrice, specie nei paesi con forte presenza della cultura cattolica. Mentre in questi ultimi una politica «a favore della famiglia» si identifica spesso in un insieme di trasferimenti in denaro che possano distogliere la donna dall'offrire il proprio lavoro sul mercato, la politica svedese ha mirato piuttosto ad alleggerire la donna dai carichi di cura della famiglia, diminuendo il grado della sua dipendenza dai vincoli di reciprocità che si instaurano al suo interno; è stata, cioè, una politica «women-friendly» e non una riproposizione di familismi stantii quanto oppressivi. I risultati non si sono fatti attendere. Il primo è stato la fortissima espansione dell'occupazione pubblica, oggi a circa il 30% del totale della forza-lavoro occupata, il doppio della media Ocse. In Svezia, infatti, l'offerta di servizi di cura e riproduzione, notoriamente ad alta intensità di lavoro, è stata essenzialmente gestita dallo Stato in proprio e non per delega al «terzo settore», sicché la «terziarizzazione» dell'economia è coincisa con l'estensione del welfare state, invece che con il suo ridimensionamento. Un secondo risultato è stato il mantenimento di un elevato tasso di natalità (2,1 figli per donna, contro l'1,3 circa delle cattolicissime Spagna e Italia). Evidentemente fiduciose nella rete pubblica di assistenza, le donne svedesi non hanno rinunciato ai piaceri della maternità - non hanno dovuto vivere, come le loro sorelle italiane o spagnole, lo spiacevole trade-off fra occupazione e cura della famiglia. Il terzo risultato è stato l'innalzamento del tasso di occupazione (nei paesi scandinavi si attesta fra il 75 e l'80%, contro una media del 50-60% nell'Europa continentale), che - con il mantenimento di un tasso di fecondità di poco inferiore agli anni `50 e `60 (quelli del baby-boom, per intenderci) - ha posto le pensioni svedesi al riparo dalla mannaia dei mercati finanziari. E un quarto risultato, coerente coi primi tre, è stato un mercato del lavoro caratterizzato da un elevatissimo livello di eguaglianza salariale (del resto, circa l'80% della forza-lavoro è iscritta ai sindacati, il che permette una centralizzazione delle contrattazioni salariali che è premessa indefettibile affinché l'obiettivo della stabilità dei prezzi venga sottratto alle ossessioni deflazionistiche delle autorità monetarie) e da un consistente grado di flessibilità. Del resto, perché meravigliarsi? Non è che i lavoratori siano «rigidi» per natura o maledizione. Lo diventano se debbono fronteggiare una situazione in cui il loro salario è l'unica fonte di reddito e il loro reddito è l'unico modo per accedere ai servizi di cura e riproduzione. Tutto ha un costo: il prelievo fiscale svedese è elevatissimo, circa il 58% del pil. Ma l'esperienza scandinava consente di avvalorare un'importante intuizione del Nobel James Buchanan, tra i maggiori teorici di economia della finanza pubblica, senza per ciò stesso sposarne le tesi ultraliberiste: indipendentemente dalla distribuzione effettiva dei carichi fiscali e dei benefici, ciò che conta è come la distribuzione viene percepita. E la «percezione fiscale» muta, ovviamente, a seconda dell'impiego che lo stato fa delle risorse: a seconda di cosa, come produce e per chi. Non è un caso che gli atteggiamenti di «rivolta fiscale» si sono sempre accompagnati a precise richieste di allargamento della spesa pubblica, svelando così come la «rivolta» concernesse più l'uso che il peso delle tasse. Quando si tratteggia un quadro del genere, gli scettici fanno leva su due obiezioni per sostenerne la non esportabilità. La prima è che l'esiguità della popolazione - gli svedesi sono circa sette milioni - favorirebbe la diffusione di forti legami solidaristici, difficili invece da creare in realtà più popolose. La seconda è che, anche in Svezia, la disoccupazione è giunta al 9-10%, vale a dire ad un livello analogo a quello degli altri paesi europei. La prima obiezione è semplicemente falsa. Chiunque sia un po' addentro a questi argomenti sa che le difficoltà, che impediscono ai gruppi numerosi di cooperare efficacemente in modo volontario per il raggiungimento di fini comuni, insorgono quando i gruppi superano le poche unità e che, senza un efficace sistema di regole, sanzioni e incentivi, nessuna comunità organizzata può produrre i beni pubblici di cui ha bisogno. Insomma, non è che gli svedesi sono «solidali» perché sono pochi; lo sono perché dispongono di un insieme di apparati statuali (dislocati sia nella società politica che nella società civile) che opera efficacemente sul piano preventivo e repressivo. E questa semplice verità vale per una collettività di 7 milioni di persone come per una di cinquantasette. La seconda obiezione si basa su di un'illusione ottica. E' vero, infatti, che alcune stime indicano la disoccupazione svedese al 9%, ma si tratta di un tasso che - come si è già detto - è calcolato su una forza-lavoro che tocca il 75-80% degli attivi e non il 50-60%. Se in Italia offrisse i suoi servigi sul mercato un'analoga percentuale della forza-lavoro attiva, il tasso di disoccupazione sarebbe verosilmente pari al 15-16%; specularmente, se fosse calcolato sulla medesima percentuale di attivi, il tasso di disoccupazione svedese sarebbe prossimo al 4%. Insomma, il «modello scandinavo», benché certo non immune da difficoltà, regge bene la sfida con la globalizzazione, la fine del fordismo, l'avvento dell'«economia della conoscenza» e, in genere, con tutte quelle formulette che - quasi come giaculatorie - ci sentiamo ripetere (per esempio, sull'ultimo numero della rivista Italianieuropei) per sostenere che una «sinistra moderna» deve rassegnarsi a seguire il Blair di turno e rinnegare se stessa e i suoi sostenitori sull'altare del governo.
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