dopo johannesburg



dalla rivista del manifesto ottobre 2002

        
        
  
  
  
  
   
numero  32  ottobre 2002  Sommario 

Dopo Johannesburg

FALLIMENTI E SPERANZE 
Massimo Serafini   


Una generica dichiarazione politica e un ancora più deludente piano
d’azione, privo di date vincolanti, sanzioni ed obiettivi certi e
misurabili, sono il magro risultato che gli oltre 190 capi di Stato hanno
raggiunto a Johannesburg, al Summit sullo stato di salute del pianeta,
pomposamente chiamato «Rio+10». In entrambi i documenti sono largamente
passati i due punti essenziali che gli americani volevano far approvare in
questo vertice. 
Con il primo si è sostanzialmente dichiarata la fine dell’epoca dei
trattati internazionali e multilaterali sui temi ambientali e sociali.
Lasciano il posto agli accordi bilaterali tra paesi ricchi e paesi poveri:
basta dunque con accordi come Kyoto, che costringono a costose ed
impopolari scelte energetiche, basta con impegni e scadenze precise per
sradicare la sete e la fame di miliardi di persone, basta con l’idea di
mettere al bando, in tempi certi, i prodotti chimici dannosi alla salute e
infine basta con le insopportabili restrizioni ai propri commerci, o
viceversa alle inaccettabili aperture a quelli dei paesi poveri. 
Il secondo è la privatizzazione dello sviluppo sostenibile: commerci e
barriere doganali vengono demandati al Wto e soprattutto in futuro saranno
le grandi imprese multinazionali a decidere quali provvedimenti prendere
per produrre senza inquinare. L’acqua, per fare un esempio, non sarà più un
bene comune dell’umanità, ma un bene economico come gli altri: il valore e
i possibili usi saranno determinati dal mercato. 
Un esito negativo del summit era ampiamente prevedibile. Si poteva intuire,
nettamente, dal risultato del vertice Fao di Roma o dalle deludenti
conclusioni dei molti incontri preparatori di Johannesburg. Soprattutto era
prevedibile se consideriamo il contesto generale in cui è avvenuto.
Quest’appuntamento arriva dopo un terribile decennio, nel quale il
liberismo e in generale la cultura di destra hanno egemonizzato i processi
di globalizzazione azzerando diritti sociali ed ambientali, e in questo
processo di smembramento è risultata evidente la subalternità delle
sinistre occidentali da una parte e dei paesi dell’ex blocco sovietico
dall’altra. Dieci anni nel corso dei quali l’Onu ha perso credibilità e
peso politico, trasferendoli nel G8. Era dunque evidente che tutti gli
impegni presi a Rio sarebbero stati largamente disattesi. Così l’acqua
potabile è rimasta un miraggio per quasi due miliardi d’individui (ogni
anno muoiono tre milioni di persone per malattie collegate alla non
potabilità e all’inquinamento della risorsa idrica) e l’Onu prevede che nel
prossimo decennio quasi due terzi dell’umanità sarà pressoché priva di
questa risorsa fondamentale. Inoltre il protocollo di Kyoto e i suoi
obiettivi ‘vincolanti’ non sono stati sottoscritti proprio da quei paesi
che assommano il 55% delle emissioni globali e il risultato di tutto ciò è
che i gas serra anziché ridursi sono aumentati. Stessa sorte ha subìto il
trattato sulla biodiversità. È proseguita la perdita di foreste primarie,
di zone umide, di aree di pesca e di specie di uccelli. È cresciuto il
divario fra Nord e Sud del mondo, la povertà è aumentata mentre sono stati
completamente disattesi dai paesi ricchi impegni fondamentali come
destinare lo 0,7% del proprio Pil ai paesi poveri o aggiungere ai fondi
ordinari per la cooperazione 125 miliardi di dollari l’anno. E infine gli
attentati dell’11 settembre e la guerra hanno definitivamente tolto ogni
centralità alla questione ambientale e a politiche globali capaci di
affrontarla. 
È significativo che nelle stesse ore in cui Colin Powell – fra i fischi –
ribadiva che lo stile di vita americano non è negoziabile, siglando l’esito
negativo dei lavori di Johannesburg, il suo presidente annunciasse al mondo
una nuova guerra preventiva all’Iraq. I due discorsi hanno un elemento in
comune: il petrolio. Da un lato Powell ribadisce che l’unica superpotenza
rimasta non ha nessuna intenzione, per governare il clima, di mettere mano
al proprio dispendioso ed inquinante modello energetico e dei trasporti né
tantomeno di ridurre i consumi di energia dei suoi cittadini. Al clima e
alla sua ingovernabilità ci penseranno i paesi poveri rimanendo
perennemente poveri, e la tecnologia nucleare quando le concentrazioni di
CO2 in atmosfera avranno raggiunto il limite massimo consentito.
Dall’altro, Bush decide di militarizzare le vie di accesso alle principali
riserve petrolifere del pianeta per garantirne il controllo alla
superpotenza americana. L’uso delle armi dopo l’11 settembre diventa il
solo strumento con cui gli americani pensano di governare il mondo e le sue
risorse a cominciare dal petrolio. 
L’andamento negativo di Johannesburg era dunque largamente segnato da
quest’insieme di fattori politici ed economici. Non potevano bastare, per
invertire la tendenza, la nascita e lo sviluppo di una contestazione
giovanile e di massa a questi processi e neppure la forte e drammatica
accelerazione degli eventi calamitosi connessi al cambiamento del clima. La
prima ha comunque rappresentato la sola vasta reazione all’egemonia
liberista sui processi di globalizzazione e alla guerra che ne è diventata
lo strumento. La seconda ha reso evidente agli occhi di grandi masse che la
degenerazione del clima del pianeta non appartiene più ad un futuro incerto
e lontano, ma è già una realtà di oggi. In altre parole il disastro
climatico non è più una disputa scientifica sulla credibilità o meno dei
modelli previsionali contenuti nei vari rapporti sul clima, ma un iniziale
e tragico avverarsi di quelle previsioni. 
Mentre a Johannesburg si decideva di dissimulare il reale stato di pericolo
in cui versa la terra o si dichiarava che è troppo costoso tentare di
proteggerla, erano ancora in funzione le idrovore per pompare via l’acqua
da Praga, Dresda e da tante meno famose cittadine dell’Europa centrale e in
Cina dieci milioni di persone rischiavano di essere travolte dalle acque di
un lago. In questo mese di agosto, su gran parte del pianeta, si sono
manifestati fenomeni meteorologici inconsueti ed estremi: da un lato piogge
e tifoni hanno messo in ginocchio intere popolazioni, dall’altro siccità e
temperature impressionanti hanno avuto conseguenze altrettanto drammatiche
per altre. Tutto ciò non è bastato – e non poteva bastare – per convincere
gli Stati Uniti (responsabili del 36% di tutte le emissioni climalteranti)
e i paesi Opec ad inserire un obiettivo preciso (l’Europa chiedeva il 15%)
di crescita delle nuove fonti rinnovabili. Addirittura per concedere un
semplice auspicio di crescita delle energie pulite si è preteso che fra
queste fossero considerati i rifiuti e il grande idroelettrico (cioè le
grandi dighe che hanno già costretto ottanta milioni di persone a
spostamenti forzati dai loro territori). 
Con altrettanta indifferenza e sordità è stata accolta la scoperta che 200
fra meteorologi e fisici, su incarico dell’Onu, hanno fatto sull’esistenza
di un’enorme nuvola tossica su gran parte dell’Asia. La libera circolazione
dei capitali, cavallo di battaglia del Wto (lo strumento con cui gli Usa
pensano di realizzare lo sviluppo sostenibile), ha regalato alle
popolazioni asiatiche salari che sono elemosine da guadagnarsi nelle
fabbriche più sudicie ed inquinanti che il ricco Occidente non vuole più. E
per di più, gli ha regalato anche un’enorme nuvola tossica, composta da
minuscole particelle di solfati, fuliggine, carbone organico polveri e
minerali: un terribile aerosol che diffonde tubercolosi e tumori, oltre a
rifrangere i raggi del sole che rimbalzano nello spazio, provocando una
forte diminuzione della luce, con conseguente variazione dei cicli
biologici sulla terra. E pur tuttavia, se la crescita del movimento e il
rapido precipitare della questione ambientale non sono stati sufficienti a
determinare una diversa conclusione del summit, essi però hanno reso molto
più fragile di quello che appare il risultato ottenuto dagli Usa e
soprattutto hanno aperto varchi importanti su cui è possibile sviluppare
iniziative per consolidarli ed allargarli. 
In primo luogo non era scontato che l’onda lunga nata a Seattle avesse
questa capacità di durare. Altrettanto non scontato era il fatto che avesse
la forza di mobilitarsi sui grandi temi ambientali e di farlo rendendo
protagonisti della mobilitazione ambientalista nuovi soggetti. Non è senza
significato che le lotte contro la privatizzazione dell’acqua in Sud Africa
vedano come protagonisti principali i giovani neri delle bidonville di
Johannesburg o che i ‘senza terra’ dell’America latina – ma anche africani
– siano i principali soggetti delle lotte per la conservazione delle
foreste, per il rifiuto degli organismi geneticamente modificati o per la
messa al bando dei prodotti chimici in agricoltura. 
Il controvertice e la grande manifestazione che lo ha concluso non sono
stati solo momenti di denuncia. In entrambe le iniziative, molto
partecipate, era forte e radicata la consapevolezza che devastazione
ambientale e povertà sono frutti del modello di sviluppo capitalistico e
non suoi ritardi. Non minore è stata la consapevolezza che lo sviluppo
dell’ambientalismo dipende dalla sua capacità di relazionarsi con le lotte
sociali. Clima e povertà sono stati l’asse di riflessione e di proposta del
movimento. Insomma nelle convulse giornate di Johannesburg il tema
ambientale ha acquisito una valenza diversa. Non si tratta più
dell’intuizione di una minoranza, ma comincia ad essere un’esperienza di
massa oltre che una convinzione scientifica ormai maggioritaria. Su questi
temi il movimento è sicuramente cresciuto e, verificandosi i drammi di
Dresda e Praga si è compreso, più che con tanti discorsi ambientalisti,
dove può portare un certo modello di ‘sviluppo’; tutto ciò ha spinto
l’Europa a una posizione più coraggiosa e di dissenso con le scelte
americane. 
Sarebbe un errore sopravvalutare questo risultato, perché, nello stesso
tempo, perdura una sostanziale subalternità europea agli americani: pur di
arrivare ad un accordo, infatti, sono stati ingoiati molti bocconi amari:
dalla rinuncia al 15% di fonti rinnovabili, alla data certa per la messa al
bando dei prodotti chimici pericolosi. Ma altrettanto sbagliato sarebbe
sottovalutarlo. Il ruolo dell’Europa, soprattutto sui grandi temi
ambientali, si può rivelare decisivo per la nascita di un referente per i
paesi poveri alternativo agli Stati Uniti. E qualche cosa in questa
direzione si è visto. Ha un valore politico e può aprire spazi importanti
al movimento il fatto che l’Europa abbia guadagnato la firma di Russia e
Cina al protocollo di Kyoto, pur nella sua versione più ambigua e cioè
quella che accentua la capacità delle foreste di assorbire CO2 e affida la
realizzazione degli obiettivi di riduzione dei gas serra al commercio delle
emissioni più che ad interventi strutturali. 
Insomma, a guardar bene, a Johannesburg, sulle grandi questioni ambientali
e sociali – effetto serra, energia, risorse idriche, agricoltura di qualità
e Ogm – si è delineata una potenziale rotta di collisione fra l’Europa e la
superpotenza americana. Contrasto che si sta già estendendo ad altri temi,
a cominciare dalla guerra. Non è senza significato che il principale
oppositore alla guerra all’Iraq sia la Germania. Certo si tratta di
processi molto fragili e contraddittori. Anche in Europa l’onda lunga delle
destre è tuttora prevalente. Così come stenta a partire un processo di
rinnovamento della sinistra e una sua permeabilità ai nuovi movimenti che
agitano la società. Sicuramente l’esito delle elezioni tedesche – proprio
perché lo si è giocato sul ‘no alla guerra’ e sulle alluvioni, sarà
importante per capire se la contraddizione emersa a Johannesburg fra Europa
e Usa può evolvere ed approfondirsi. Ma uno sviluppo effettivo di questa
contraddizione dipende soprattutto dalle capacità del movimento di compiere
un vero e proprio salto di qualità, acquisendo capacità vertenziali e di
radicamento sui grandi temi ambientali, di opposizione alla guerra e alle
ingiustizie sociali. 
Un salto di qualità che permetta di andare oltre gli appuntamenti decisi da
altri, per concentrarsi su quelli che consentono di mettere radici e
concretizzare legami e alleanze sufficienti ad incidere sulla politica
ufficiale e ad essere elemento decisivo del suo rinnovamento. Infatti, un
movimento ambientalista dopo Johannesburg difficilmente potrà crescere se
si limita a invocare l’applicazione di Kyoto senza contemporaneamente saper
costruire sul territorio vertenze capaci di imporre una svolta radicale
sulle politiche energetiche, in grado di ridurre drasticamente la
dipendenza dal petrolio attraverso lo sviluppo delle fonti rinnovabili e
del risparmio energetico. Ma aprire una vertenza di questo tipo obbliga, se
la si vuole vincere, ad avere la forza e la capacità di far crescere nuovi
poteri alternativi. Non è più possibile rivendicare l’acqua come bene
collettivo, battersi contro la sua privatizzazione e poi paralizzarsi
proprio quando l’intero meridione d’Italia è travolto dalla siccità,
lasciando le popolazioni esasperate sole davanti a ministri che promettono
di bombardare le nuvole per far piovere o elencano la solita lunga serie di
inutili opere pubbliche quando anche minori investimenti andrebbero
utilizzati e basterebbero a mettere a posto la rete idrica e a dare l’acqua. 
Il Social forum europeo di novembre è una scadenza decisiva per capire se
ci sono le condizioni per compiere questo salto.