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dopo johannesburg
- Subject: dopo johannesburg
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 07 Oct 2002 06:47:34 +0200
dalla rivista del manifesto ottobre 2002 numero 32 ottobre 2002 Sommario Dopo Johannesburg FALLIMENTI E SPERANZE Massimo Serafini Una generica dichiarazione politica e un ancora più deludente piano d’azione, privo di date vincolanti, sanzioni ed obiettivi certi e misurabili, sono il magro risultato che gli oltre 190 capi di Stato hanno raggiunto a Johannesburg, al Summit sullo stato di salute del pianeta, pomposamente chiamato «Rio+10». In entrambi i documenti sono largamente passati i due punti essenziali che gli americani volevano far approvare in questo vertice. Con il primo si è sostanzialmente dichiarata la fine dell’epoca dei trattati internazionali e multilaterali sui temi ambientali e sociali. Lasciano il posto agli accordi bilaterali tra paesi ricchi e paesi poveri: basta dunque con accordi come Kyoto, che costringono a costose ed impopolari scelte energetiche, basta con impegni e scadenze precise per sradicare la sete e la fame di miliardi di persone, basta con l’idea di mettere al bando, in tempi certi, i prodotti chimici dannosi alla salute e infine basta con le insopportabili restrizioni ai propri commerci, o viceversa alle inaccettabili aperture a quelli dei paesi poveri. Il secondo è la privatizzazione dello sviluppo sostenibile: commerci e barriere doganali vengono demandati al Wto e soprattutto in futuro saranno le grandi imprese multinazionali a decidere quali provvedimenti prendere per produrre senza inquinare. L’acqua, per fare un esempio, non sarà più un bene comune dell’umanità, ma un bene economico come gli altri: il valore e i possibili usi saranno determinati dal mercato. Un esito negativo del summit era ampiamente prevedibile. Si poteva intuire, nettamente, dal risultato del vertice Fao di Roma o dalle deludenti conclusioni dei molti incontri preparatori di Johannesburg. Soprattutto era prevedibile se consideriamo il contesto generale in cui è avvenuto. Quest’appuntamento arriva dopo un terribile decennio, nel quale il liberismo e in generale la cultura di destra hanno egemonizzato i processi di globalizzazione azzerando diritti sociali ed ambientali, e in questo processo di smembramento è risultata evidente la subalternità delle sinistre occidentali da una parte e dei paesi dell’ex blocco sovietico dall’altra. Dieci anni nel corso dei quali l’Onu ha perso credibilità e peso politico, trasferendoli nel G8. Era dunque evidente che tutti gli impegni presi a Rio sarebbero stati largamente disattesi. Così l’acqua potabile è rimasta un miraggio per quasi due miliardi d’individui (ogni anno muoiono tre milioni di persone per malattie collegate alla non potabilità e all’inquinamento della risorsa idrica) e l’Onu prevede che nel prossimo decennio quasi due terzi dell’umanità sarà pressoché priva di questa risorsa fondamentale. Inoltre il protocollo di Kyoto e i suoi obiettivi ‘vincolanti’ non sono stati sottoscritti proprio da quei paesi che assommano il 55% delle emissioni globali e il risultato di tutto ciò è che i gas serra anziché ridursi sono aumentati. Stessa sorte ha subìto il trattato sulla biodiversità. È proseguita la perdita di foreste primarie, di zone umide, di aree di pesca e di specie di uccelli. È cresciuto il divario fra Nord e Sud del mondo, la povertà è aumentata mentre sono stati completamente disattesi dai paesi ricchi impegni fondamentali come destinare lo 0,7% del proprio Pil ai paesi poveri o aggiungere ai fondi ordinari per la cooperazione 125 miliardi di dollari l’anno. E infine gli attentati dell’11 settembre e la guerra hanno definitivamente tolto ogni centralità alla questione ambientale e a politiche globali capaci di affrontarla. È significativo che nelle stesse ore in cui Colin Powell – fra i fischi – ribadiva che lo stile di vita americano non è negoziabile, siglando l’esito negativo dei lavori di Johannesburg, il suo presidente annunciasse al mondo una nuova guerra preventiva all’Iraq. I due discorsi hanno un elemento in comune: il petrolio. Da un lato Powell ribadisce che l’unica superpotenza rimasta non ha nessuna intenzione, per governare il clima, di mettere mano al proprio dispendioso ed inquinante modello energetico e dei trasporti né tantomeno di ridurre i consumi di energia dei suoi cittadini. Al clima e alla sua ingovernabilità ci penseranno i paesi poveri rimanendo perennemente poveri, e la tecnologia nucleare quando le concentrazioni di CO2 in atmosfera avranno raggiunto il limite massimo consentito. Dall’altro, Bush decide di militarizzare le vie di accesso alle principali riserve petrolifere del pianeta per garantirne il controllo alla superpotenza americana. L’uso delle armi dopo l’11 settembre diventa il solo strumento con cui gli americani pensano di governare il mondo e le sue risorse a cominciare dal petrolio. L’andamento negativo di Johannesburg era dunque largamente segnato da quest’insieme di fattori politici ed economici. Non potevano bastare, per invertire la tendenza, la nascita e lo sviluppo di una contestazione giovanile e di massa a questi processi e neppure la forte e drammatica accelerazione degli eventi calamitosi connessi al cambiamento del clima. La prima ha comunque rappresentato la sola vasta reazione all’egemonia liberista sui processi di globalizzazione e alla guerra che ne è diventata lo strumento. La seconda ha reso evidente agli occhi di grandi masse che la degenerazione del clima del pianeta non appartiene più ad un futuro incerto e lontano, ma è già una realtà di oggi. In altre parole il disastro climatico non è più una disputa scientifica sulla credibilità o meno dei modelli previsionali contenuti nei vari rapporti sul clima, ma un iniziale e tragico avverarsi di quelle previsioni. Mentre a Johannesburg si decideva di dissimulare il reale stato di pericolo in cui versa la terra o si dichiarava che è troppo costoso tentare di proteggerla, erano ancora in funzione le idrovore per pompare via l’acqua da Praga, Dresda e da tante meno famose cittadine dell’Europa centrale e in Cina dieci milioni di persone rischiavano di essere travolte dalle acque di un lago. In questo mese di agosto, su gran parte del pianeta, si sono manifestati fenomeni meteorologici inconsueti ed estremi: da un lato piogge e tifoni hanno messo in ginocchio intere popolazioni, dall’altro siccità e temperature impressionanti hanno avuto conseguenze altrettanto drammatiche per altre. Tutto ciò non è bastato – e non poteva bastare – per convincere gli Stati Uniti (responsabili del 36% di tutte le emissioni climalteranti) e i paesi Opec ad inserire un obiettivo preciso (l’Europa chiedeva il 15%) di crescita delle nuove fonti rinnovabili. Addirittura per concedere un semplice auspicio di crescita delle energie pulite si è preteso che fra queste fossero considerati i rifiuti e il grande idroelettrico (cioè le grandi dighe che hanno già costretto ottanta milioni di persone a spostamenti forzati dai loro territori). Con altrettanta indifferenza e sordità è stata accolta la scoperta che 200 fra meteorologi e fisici, su incarico dell’Onu, hanno fatto sull’esistenza di un’enorme nuvola tossica su gran parte dell’Asia. La libera circolazione dei capitali, cavallo di battaglia del Wto (lo strumento con cui gli Usa pensano di realizzare lo sviluppo sostenibile), ha regalato alle popolazioni asiatiche salari che sono elemosine da guadagnarsi nelle fabbriche più sudicie ed inquinanti che il ricco Occidente non vuole più. E per di più, gli ha regalato anche un’enorme nuvola tossica, composta da minuscole particelle di solfati, fuliggine, carbone organico polveri e minerali: un terribile aerosol che diffonde tubercolosi e tumori, oltre a rifrangere i raggi del sole che rimbalzano nello spazio, provocando una forte diminuzione della luce, con conseguente variazione dei cicli biologici sulla terra. E pur tuttavia, se la crescita del movimento e il rapido precipitare della questione ambientale non sono stati sufficienti a determinare una diversa conclusione del summit, essi però hanno reso molto più fragile di quello che appare il risultato ottenuto dagli Usa e soprattutto hanno aperto varchi importanti su cui è possibile sviluppare iniziative per consolidarli ed allargarli. In primo luogo non era scontato che l’onda lunga nata a Seattle avesse questa capacità di durare. Altrettanto non scontato era il fatto che avesse la forza di mobilitarsi sui grandi temi ambientali e di farlo rendendo protagonisti della mobilitazione ambientalista nuovi soggetti. Non è senza significato che le lotte contro la privatizzazione dell’acqua in Sud Africa vedano come protagonisti principali i giovani neri delle bidonville di Johannesburg o che i ‘senza terra’ dell’America latina – ma anche africani – siano i principali soggetti delle lotte per la conservazione delle foreste, per il rifiuto degli organismi geneticamente modificati o per la messa al bando dei prodotti chimici in agricoltura. Il controvertice e la grande manifestazione che lo ha concluso non sono stati solo momenti di denuncia. In entrambe le iniziative, molto partecipate, era forte e radicata la consapevolezza che devastazione ambientale e povertà sono frutti del modello di sviluppo capitalistico e non suoi ritardi. Non minore è stata la consapevolezza che lo sviluppo dell’ambientalismo dipende dalla sua capacità di relazionarsi con le lotte sociali. Clima e povertà sono stati l’asse di riflessione e di proposta del movimento. Insomma nelle convulse giornate di Johannesburg il tema ambientale ha acquisito una valenza diversa. Non si tratta più dell’intuizione di una minoranza, ma comincia ad essere un’esperienza di massa oltre che una convinzione scientifica ormai maggioritaria. Su questi temi il movimento è sicuramente cresciuto e, verificandosi i drammi di Dresda e Praga si è compreso, più che con tanti discorsi ambientalisti, dove può portare un certo modello di ‘sviluppo’; tutto ciò ha spinto l’Europa a una posizione più coraggiosa e di dissenso con le scelte americane. Sarebbe un errore sopravvalutare questo risultato, perché, nello stesso tempo, perdura una sostanziale subalternità europea agli americani: pur di arrivare ad un accordo, infatti, sono stati ingoiati molti bocconi amari: dalla rinuncia al 15% di fonti rinnovabili, alla data certa per la messa al bando dei prodotti chimici pericolosi. Ma altrettanto sbagliato sarebbe sottovalutarlo. Il ruolo dell’Europa, soprattutto sui grandi temi ambientali, si può rivelare decisivo per la nascita di un referente per i paesi poveri alternativo agli Stati Uniti. E qualche cosa in questa direzione si è visto. Ha un valore politico e può aprire spazi importanti al movimento il fatto che l’Europa abbia guadagnato la firma di Russia e Cina al protocollo di Kyoto, pur nella sua versione più ambigua e cioè quella che accentua la capacità delle foreste di assorbire CO2 e affida la realizzazione degli obiettivi di riduzione dei gas serra al commercio delle emissioni più che ad interventi strutturali. Insomma, a guardar bene, a Johannesburg, sulle grandi questioni ambientali e sociali – effetto serra, energia, risorse idriche, agricoltura di qualità e Ogm – si è delineata una potenziale rotta di collisione fra l’Europa e la superpotenza americana. Contrasto che si sta già estendendo ad altri temi, a cominciare dalla guerra. Non è senza significato che il principale oppositore alla guerra all’Iraq sia la Germania. Certo si tratta di processi molto fragili e contraddittori. Anche in Europa l’onda lunga delle destre è tuttora prevalente. Così come stenta a partire un processo di rinnovamento della sinistra e una sua permeabilità ai nuovi movimenti che agitano la società. Sicuramente l’esito delle elezioni tedesche – proprio perché lo si è giocato sul ‘no alla guerra’ e sulle alluvioni, sarà importante per capire se la contraddizione emersa a Johannesburg fra Europa e Usa può evolvere ed approfondirsi. Ma uno sviluppo effettivo di questa contraddizione dipende soprattutto dalle capacità del movimento di compiere un vero e proprio salto di qualità, acquisendo capacità vertenziali e di radicamento sui grandi temi ambientali, di opposizione alla guerra e alle ingiustizie sociali. Un salto di qualità che permetta di andare oltre gli appuntamenti decisi da altri, per concentrarsi su quelli che consentono di mettere radici e concretizzare legami e alleanze sufficienti ad incidere sulla politica ufficiale e ad essere elemento decisivo del suo rinnovamento. Infatti, un movimento ambientalista dopo Johannesburg difficilmente potrà crescere se si limita a invocare l’applicazione di Kyoto senza contemporaneamente saper costruire sul territorio vertenze capaci di imporre una svolta radicale sulle politiche energetiche, in grado di ridurre drasticamente la dipendenza dal petrolio attraverso lo sviluppo delle fonti rinnovabili e del risparmio energetico. Ma aprire una vertenza di questo tipo obbliga, se la si vuole vincere, ad avere la forza e la capacità di far crescere nuovi poteri alternativi. Non è più possibile rivendicare l’acqua come bene collettivo, battersi contro la sua privatizzazione e poi paralizzarsi proprio quando l’intero meridione d’Italia è travolto dalla siccità, lasciando le popolazioni esasperate sole davanti a ministri che promettono di bombardare le nuvole per far piovere o elencano la solita lunga serie di inutili opere pubbliche quando anche minori investimenti andrebbero utilizzati e basterebbero a mettere a posto la rete idrica e a dare l’acqua. Il Social forum europeo di novembre è una scadenza decisiva per capire se ci sono le condizioni per compiere questo salto.
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