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la crisi europa stati uniti
- Subject: la crisi europa stati uniti
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Tue, 01 Oct 2002 06:50:19 +0200
il manifesto - 18 Settembre 2002 EUROPA-STATI UNITI Interessi antitetici e subalternità JOSEPH HALEVI La nuova guerra all'Iraq a chi serve? All'economia americana, che vede in questo un cemento alla sua egemonia anche economica. Ma non serve all'Europa, anche da un punto di vista economico. Vediamo perché. Sul piano logico gli interessi del capitalismo europeo e del capitalismo americano dovrebbero apparire come divergenti. Fa eccezione la Gran Bretagna: la City di Londra funziona da spalla al mercato di Wall Street. Se tali divaricazioni non emergono è dovuto alla sudditanza politica e alla conseguente impotenza degli europei. L'ultimo decennio ha visto acuirsi la stagnazione dell'economia europea, principalmente a causa delle politiche di restrizione imposte dagli accordi di Maastricht. In tale quadro, la crescita americana assieme alla rivalutazione del dollaro hanno sostenuto le esportazioni europee. Inoltre, la bolla speculativa di Wall Street aprì alle società europee possibilità di piazzamenti finanziari a rendimenti ipotetici molto alti. Comunque sia, il sostegno al sistema finanziario Usa non poteva che venire da Giappone ed Europa: per gli Stati Uniti, l'unico modo per non affrontare il pagamento del deficit estero (mantenendo contemporanemente i vantaggi antifilazionistici di bassi prezzi all'importazione) risiedeva nel garantire un incessante flusso di capitali verso i propri mercati finanziari. Tale sa situazione di dipendenza non ha per nulla portato la dirigenza americana a considerare gli equilibri macroeconomici mondiali come parte della sua politica. Al contrario. La rivalutazione del dollaro nei confronti dello yen nel 1995, effettuata da Washington di concerto con la Bundesbank e la Bank of Japan, venne motivata unicamente dalla paura che le istituzioni del Giappone, la cui industria veniva soffocata dall'apprezzamento dello yen, cominciassero a vendere buoni del tesoro e obbligazioni americane. E' sbagliato pensare che il governo e le dirigenze finanziarie Usa non fossero a conoscenza delle possibili catastrofiche ripercussioni di questa manovra sul resto dell'Asia orientale, le cui monete erano ancorate al dollaro. A ben guardare, però, gli Usa guadagnarono dalla crisi asiatica, sia in termini di afflusso dei capitali che erano riusciti a fuggire, che in termini di importazioni di produzioni tecnologicamente avanzate a bassissimo prezzo. Non è un caso che il grande boom dell'investimento negli equipaggiamenti della new economy inizia con la crisi asiatica del 1997. A ogni successiva crisi, come quella del Brasile e della Russia, si rafforzava la posizione dei mercati finanziari Usa. Il resto del mondo - dall'Europa al Giappone, per non parlare delle economie cui il Fondo monetario internazionale imponeva (e impone) il pagamento attraverso le esportazioni di un debito inestinguibile - accettava senza fiatare di sostenere il deficit estero Usa, rinviandovi i soldi per comprare obbligazioni e speculare a Wall Street. La festa ora è finita, ma gli Usa non hanno nessuna intenzione di far fronte alla questione del debito estero in maniera coordinata, né i nani politici europei e nipponici sollevano la questione. Tutto sta a indicare che gli Stati uniti marciano verso una grande grande deflazione da debito e a mio avviso, sono già entrati in questa fase. Il comportamento dei fondi di pensione privati è un buon indicatore. I fondi stanno lasciando il mercato azionario in cui non hanno più fiducia e si sono massiciamente orientati verso gli strumenti di maturazione a termine fisso. Senza tale spostamento, la svalutazione del dollaro sarebbe stata ben più forte, perché lo spostamento verso le «maturities» ha ridotto la liquidità delle società dei fondi pensione, limitando la loro facoltà a investire nel mercato dei cambi senza alleggerire il proprio portafoglio finanziario. Il calo dei valori borsistici e comunque la loro stagnazione, riducendo l'interesse di inviare capitali sui mercati Usa, pone questi ultimi di fronte all'altra bolla finanziaria: quella dell'indebitamento estero. Garantire la capacità di non pagamento diventa una questione essenziale per mantenere in piedi, senza subire irreparabili scosse, i circuiti finanziari americani - americani non mondiali. Contemporaneamente, imporre il non pagamento dei proprio deficit obbligando il resto del mondo a fornire capitali è anche condizione per il mantenimento dell'egemonia politica. E'fantasioso sperare in un ritorno alle esuberanze speculative clintoniane, in cui anche il capitalismo europeo trovò la sua convenienza. Non vi sarà una grande crescita Usa, né vi saranno grandi guadagni speculativi a Wall Street. L'interesse di piazzare lì i soldi sta scemando rapidamente. Ma le autorità Usa non demordono. Assolutamente non si deve pagare, né quindi si deve coordinare una qualche forma di aggiustamento del deficit in maniera non deflazionistica. Lo scenario è piuttosto l'opposto: alla deflazione americana deve corrispondere una ancora maggiore deflazione mondiale, in modo da obbligare gli altri paesi ad accettare ogni forma di pagamento internazionale effettuata dagli Usa. E'improbabile, dunque, che le dirigenze economiche europee non siano consapevoli di tali tendenze e che non colleghino le guerre in corso e quella in preparazione contro l'Iraq, preludio a quella contro l'Iran, allo sforzo disperato di Washington di eternare in qualsiasi circostanza la propria egemonia e non solvibilità.
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