la crisi europa stati uniti



     
il manifesto - 18 Settembre 2002 
 
EUROPA-STATI UNITI 
Interessi antitetici e subalternità 
JOSEPH HALEVI
La nuova guerra all'Iraq a chi serve? All'economia americana, che vede in
questo un cemento alla sua egemonia anche economica. Ma non serve
all'Europa, anche da un punto di vista economico. Vediamo perché. Sul piano
logico gli interessi del capitalismo europeo e del capitalismo americano
dovrebbero apparire come divergenti. Fa eccezione la Gran Bretagna: la City
di Londra funziona da spalla al mercato di Wall Street. Se tali
divaricazioni non emergono è dovuto alla sudditanza politica e alla
conseguente impotenza degli europei. L'ultimo decennio ha visto acuirsi la
stagnazione dell'economia europea, principalmente a causa delle politiche
di restrizione imposte dagli accordi di Maastricht. In tale quadro, la
crescita americana assieme alla rivalutazione del dollaro hanno sostenuto
le esportazioni europee. Inoltre, la bolla speculativa di Wall Street aprì
alle società europee possibilità di piazzamenti finanziari a rendimenti
ipotetici molto alti. Comunque sia, il sostegno al sistema finanziario Usa
non poteva che venire da Giappone ed Europa: per gli Stati Uniti, l'unico
modo per non affrontare il pagamento del deficit estero (mantenendo
contemporanemente i vantaggi antifilazionistici di bassi prezzi
all'importazione) risiedeva nel garantire un incessante flusso di capitali
verso i propri mercati finanziari.

Tale sa situazione di dipendenza non ha per nulla portato la dirigenza
americana a considerare gli equilibri macroeconomici mondiali come parte
della sua politica. Al contrario. La rivalutazione del dollaro nei
confronti dello yen nel 1995, effettuata da Washington di concerto con la
Bundesbank e la Bank of Japan, venne motivata unicamente dalla paura che le
istituzioni del Giappone, la cui industria veniva soffocata
dall'apprezzamento dello yen, cominciassero a vendere buoni del tesoro e
obbligazioni americane. E' sbagliato pensare che il governo e le dirigenze
finanziarie Usa non fossero a conoscenza delle possibili catastrofiche
ripercussioni di questa manovra sul resto dell'Asia orientale, le cui
monete erano ancorate al dollaro. A ben guardare, però, gli Usa
guadagnarono dalla crisi asiatica, sia in termini di afflusso dei capitali
che erano riusciti a fuggire, che in termini di importazioni di produzioni
tecnologicamente avanzate a bassissimo prezzo. Non è un caso che il grande
boom dell'investimento negli equipaggiamenti della new economy inizia con
la crisi asiatica del 1997. A ogni successiva crisi, come quella del
Brasile e della Russia, si rafforzava la posizione dei mercati finanziari
Usa. Il resto del mondo - dall'Europa al Giappone, per non parlare delle
economie cui il Fondo monetario internazionale imponeva (e impone) il
pagamento attraverso le esportazioni di un debito inestinguibile -
accettava senza fiatare di sostenere il deficit estero Usa, rinviandovi i
soldi per comprare obbligazioni e speculare a Wall Street.

La festa ora è finita, ma gli Usa non hanno nessuna intenzione di far
fronte alla questione del debito estero in maniera coordinata, né i nani
politici europei e nipponici sollevano la questione. Tutto sta a indicare
che gli Stati uniti marciano verso una grande grande deflazione da debito e
a mio avviso, sono già entrati in questa fase. Il comportamento dei fondi
di pensione privati è un buon indicatore. I fondi stanno lasciando il
mercato azionario in cui non hanno più fiducia e si sono massiciamente
orientati verso gli strumenti di maturazione a termine fisso. Senza tale
spostamento, la svalutazione del dollaro sarebbe stata ben più forte,
perché lo spostamento verso le «maturities» ha ridotto la liquidità delle
società dei fondi pensione, limitando la loro facoltà a investire nel
mercato dei cambi senza alleggerire il proprio portafoglio finanziario. Il
calo dei valori borsistici e comunque la loro stagnazione, riducendo
l'interesse di inviare capitali sui mercati Usa, pone questi ultimi di
fronte all'altra bolla finanziaria: quella dell'indebitamento estero.

Garantire la capacità di non pagamento diventa una questione essenziale per
mantenere in piedi, senza subire irreparabili scosse, i circuiti finanziari
americani - americani non mondiali. Contemporaneamente, imporre il non
pagamento dei proprio deficit obbligando il resto del mondo a fornire
capitali è anche condizione per il mantenimento dell'egemonia politica.
E'fantasioso sperare in un ritorno alle esuberanze speculative clintoniane,
in cui anche il capitalismo europeo trovò la sua convenienza. Non vi sarà
una grande crescita Usa, né vi saranno grandi guadagni speculativi a Wall
Street. L'interesse di piazzare lì i soldi sta scemando rapidamente. Ma le
autorità Usa non demordono. Assolutamente non si deve pagare, né quindi si
deve coordinare una qualche forma di aggiustamento del deficit in maniera
non deflazionistica. Lo scenario è piuttosto l'opposto: alla deflazione
americana deve corrispondere una ancora maggiore deflazione mondiale, in
modo da obbligare gli altri paesi ad accettare ogni forma di pagamento
internazionale effettuata dagli Usa.

E'improbabile, dunque, che le dirigenze economiche europee non siano
consapevoli di tali tendenze e che non colleghino le guerre in corso e
quella in preparazione contro l'Iraq, preludio a quella contro l'Iran, allo
sforzo disperato di Washington di eternare in qualsiasi circostanza la
propria egemonia e non solvibilità.