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la lezione del carac enron
- Subject: la lezione del carac enron
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Sat, 21 Sep 2002 06:58:48 +0200
dal corriere.it Giovedì 19 Settembre 2002 Anatomia di uno scandalo L’aristocrazia senza morale dei supermanager pigliatutto La lezione del crac Enron? Mettere un tetto all’abuso indecente delle stock option Tra le principali cause di degenerazione del modello americano c’è anche lo squilibrio politico-sociale a favore del top management delle grandi società che si è man mano prodotto negli ultimi vent’anni e che ha permesso a questa «nuova aristocrazia» di appropriarsi di corrispettivi che non hanno più alcuna relazione di nessun tipo con le prestazioni fornite, con i risultati raggiunti, con il loro tipo di attività, con l’andamento reale delle aziende. Questi valori non rappresentano più un corrispettivo per dei servizi professionali, ma un’appropriazione basata su una incontrollata posizione di potere. In una relazione del 1998 affermavo: «Nel frattempo nella grande impresa è avvenuta, negli ultimi vent’anni, una nuova grande rivoluzione. Spariti i robber baron , spariti i tycoon , spariti i grandi imprenditori alla Henry Ford, spariti i grandi manager alla Watson, se non per pochi casi che fanno più folklore che sistema, il potere di questo settore determinante della vita economica è stato, lentamente ma tenacemente, scalato da una nuova classe, fatta per lo più di volti anonimi, che si è autopromossa a "nuova aristocrazia", che con le antiche aristocrazie ha numerose analogie e molte differenze. L’elemento comune principale è che essa preleva un "surplus" che non ha più alcuna relazione con i servizi resi, ma che deriva solo da una posizione di potere occupato. I compensi e le forme partecipative prelevati dal big management del big business sono diventati di natura e proporzione tali da non potere più, in nessun modo, essere ricondotti ad un corrispettivo per un qualsiasi lavoro professionale direttivo. Essi sono un prelievo e non più un corrispettivo. Una delle differenze principali con le vecchie aristocrazie è che queste avevano la funzione di dirigere e proteggere la loro popolazione, mentre l’aristocrazia industriale non ha alcuna pretesa di questo tipo: essa vuol solo servirsi della popolazione di appartenenza, non dirigerla. Un’altra differenza è che essa non assicura ai suoi membri una solida stabilità. Saldamente insediata come classe, la nuova aristocrazia industriale è sottoposta, nei suoi singoli membri, a rapide mutazioni: il mercato e la competizione non permettono il prolungarsi a lungo di posizioni parassitarie o anche solo protette. Quello qui discusso è uno sviluppo che Alexis de Tocqueville (nel capitolo XX del suo "La democrazia in America" del 1835 - intitolato appunto "Come l’aristocrazia può nascere dall’industria") prevedeva con queste parole: "Perciò, a mano a mano che la massa della nazione si volge alla democrazia, la classe particolare che si occupa dell’industria diviene più aristocratica... Io penso che nel suo complesso l’aristocrazia industriale, che vediamo sorgere sotto i nostri occhi, sia una delle più dure che mai siano apparse sulla Terra, ma al tempo stesso una delle più ristrette e meno pericolose. Tuttavia proprio verso questa parte gli amici della democrazia devono continuamente rivolgere lo sguardo e diffidare poiché, se la diseguaglianza permanente delle condizioni e l’aristocrazia dovessero penetrare di nuovo nel mondo, si può prevedere che penetreranno da questa porta"». Per quanto ne so questa tesi, benché basata su fatti di plateale evidenza, non è stata sinora oggetto di attenzione negli Stati Uniti. Ma anche qui incominciano i primi segnali. Tre studiosi dell’Harvard Law School e uno della University of Berkeley in California hanno in corso di pubblicazione sul prossimo numero della Chicago Law Review uno studio dal titolo Managerial power and rent extraction . Dalla recensione di questo studio pubblicata sul l’ Economist del 13 luglio dal sottotitolo The pay of chief executives can seem ridiculous. Often it is , sembra che dallo stesso emerga la tesi che la teoria contrattuale non spiega più i contenuti reali dei compensi dei top manager . Qui cominciamo ad addentrarci nel cuore dei problemi veri, nell’indecente abuso delle stock option e nella conseguente spinta a realizzare concentrazioni ed acquisizioni prive di ogni contenuto industriale. LO SCONTRO CON GLI AMMINISTRATORI COME SCONTRO POLITICO. Ma il problema non è tanto nelle manipolazioni di bilancio che sono solo una conseguenza e uno strumento; il problema è nel potere assoluto, arbitrario, mitico che la società americana ha riconosciuto ai corporate executive . Il problema sta nell’assenza di bilanciamento dei poteri. E, quindi, è una questione che va al cuore della vita democratica. Altro che quattro regolette contabili violate! Altro che la teoria delle poche «mele marce» della quale si è fatto portavoce il presidente Bush. Del resto la convinzione che siamo di fronte ad una vicenda storicamente rilevante incomincia a farsi strada. Daniel Yergin (l’autore di Commanding Heights , uno studio storico dedicato agli scontri tra il libero mercato e la regolamentazione governativa) afferma: «Il suono del collasso di WorldCom è il suono della fine di un’epoca. I suoi riflessi si sentiranno in tutto il Paese e molto forte a Washington» ( Financial Times , 13-14 luglio 2002). E Peter Clapman, il potente presidente del Tira-Cref (il fondo che gestisce 280 miliardi di dollari degli insegnanti Usa) ha affermato: «Sento molti che sostengono una tesi bizzarra: Enron, WorldCom & Co., dicono, sono solo mele marce. E chiariti i loro problemi non v’è necessità di reazioni eccessive che rischiano di porre troppi paletti al mercato. Io sostengo il contrario. Ci sono troppe mele marce. E o si rimette in sesto l’intero sistema con regole chiare (che non sono dirigismo) o si rischia grosso». In forma estremamente incisiva William Crist, presidente di Calpers, il più grande e forse il più potente fondo americano, ha detto: «Il presidente Bush non coglie per niente il punto. Non sono le attività criminali in primo piano... il fatto è che le grandi società sono gestite da insider per il loro proprio interesse». E Kevin Phillips pubblica un libro dal titolo Wealth and Democracy: how great fortunes and government created America’s aristocracy . I ceo (chief executive officer, amministratori delegati, ndr), dunque, come casta o come aristocrazia. Finalmente siamo arrivati a toccare il cuore del problema. La profezia di Tocqueville si è dimostrata ancora una volta corretta. Ma proprio per questo, realizzare una svolta significativa verso un diverso e migliore sistema non sarà per nulla facile. Il compito di George Bush non è sostanzialmente molto diverso di quello che deve affrontare Putin nel tentare di mettere la museruola agli ex comunisti che si sono trasformati in magnati industriali ed oligarchi finanziari ed hanno preso tutto per sé il potere economico in Russia. La differenza è che Putin è solo mentre Bush arranca dietro le migliori istituzioni americane che hanno assunto la leadership e lo trascinano in avanti. AZIONE E RETICENZE. Resta da discutere la domanda se sia vero che l’America si è messa al lavoro per rimediare alla crisi finanziaria e di credibilità con prontezza e bene, mostrando una «straordinaria capacità di reazione», come ha scritto Sergio Romano. La risposta non è univoca ed è certamente negativa per il presidente e per le principali lobby economiche. Lasciamo la parola ad alcuni dei più autorevoli organi di stampa americana e internazionali. Il 17 giugno Business Week , in un articolo intitolato: «Ma quale pulizia? Mentre Washington vacilla, la riforma finanziaria sta andando rapidamente da nessuna parte», affermava: «Ma ora la spinta per una riforma legislativa post Enron è in stallo, vittima dell’indifferenza del presidente, dell’ostilità repubblicana, della fiera opposizione delle lobby del business e della disorganizzazione dei riformisti democratici». E ancora il 27 giugno Joseph Stiglitz affermava: «Ormai è diventato un problema politico. E la Sec (la Consob americana, ndr ) si vede costretta ad agire. Ma per ora non vedo alcuna azione adeguata». Poi Bush ha parlato, a Wall Street il 9 luglio, e in seguito in Alabama. Ma ogni volta i suoi discorsi sono apparsi poco o nulla convincenti. Long on rhetoric and short on substance , scrive il New York Times , mentre il Washington Post : «George W. Bush ha continuato la sua offensiva retorica contro gli scandali societari, chiedendo ai due rami del Congresso di concordare un pacchetto unitario di riforma post Enron prima della pausa di agosto. Un’azione rapida è un’eccellente idea se ciò volesse dire unire il Congresso sul progetto di legge approvato dal Senato con la schiacciante maggioranza di 97 a 0. Ma rifiutandosi di venire allo scoperto apertamente in appoggio a questo progetto, Bush sta rallentando il momento di una vera riforma». E ancora il 18 luglio, il più famoso e popolare economista americano, il premio Nobel ’70 Paul Samuelson, esprimendo un giudizio di assoluta insufficienza su quanto si è fatto e su quanto si è promesso di fare afferma: «Il danno più grave per la credibilità della finanza Usa in questo momento lo fanno gli scandali finanziari. La " lobby dei ceo" sta facendo di tutto perché rimangano nascoste le frodi e gli imbrogli finanziari di cui, a quanto pare, si è fatto un enorme uso. E Bush è con loro. Del resto quando era a capo di società petrolifere si comportava come i capi della Enron, iscrivendo falsi profitti che facevano lievitare i titoli e poi vendendoli». Riepilogando: 1) il presidente si è mosso tardi e sino ad ora ha fatto prevalentemente retorica; 2) la Sec, presieduta da un avvocato d’affari che per tutta la vita è stato consulente e portavoce della lobby delle grandi società di revisione, è stata lentissima, incerta e ambigua; 3) la congregazione dei manager d’impresa si è fatta notare per un’assenza totale dal dibattito e per un fragoroso silenzio, con pochissime eccezioni individuali. 4) Il Congresso è stato a lungo lentissimo e confuso. La Camera dei Rappresentanti aveva da tempo in bollitura un provvedimento in concreto inutile. Solo recentemente il Senato ha approvato all’unanimità dei presenti (97 voti contro 0) un provvedimento di una qualche serietà. E questo provvedimento, pur non avendo trovato il supporto esplicito del presidente, sotto l’incalzare degli eventi è diventato, il 26 luglio, il progetto di tutto il Congresso ed è diventato legge. Questo provvedimento porta innovazioni importanti. Ma i punti principali restano aperti. Quelli essenziali sono tre. 1) Introdurre la regola che il costo delle stock option venga spesato nei conti economici delle società e che i relativi schemi vengano sempre approvati dagli azionisti. Si tratta di regole decisive per frenare gli abusi attuali. Secondo me non basta: è necessario fissare anche un limite legale alle stock option e ai compensi totali dei ceo. Ma questo, oggi in America, pare impossibile. I sostenitori di questa innovazione contabile sono molti e autorevoli, come lo stesso Greenspan, in passato contrario. Ma non vanno avanti perché la lobby dei ceo e lo stesso Bush non sono d’accordo. 2) Potenziare il numero degli amministratori indipendenti (non facenti parte, cioè, del management ). Questa proposta ha buone possibilità di andare avanti, essendo appoggiata anche da Bush e da istituzioni come la Borsa di New York. Ma i consiglieri indipendenti possono incidere ben poco laddove la figura del presidente delle società coincide con quella dell’amministratore delegato. È, insomma, indispensabile che il presidente del consiglio d’amministrazione sia indipendente e diverso dal ceo. Solo così si instaura una vera dialettica nell’azienda e i consiglieri indipendenti possono contare qualcosa. Anche questa è una proposta che sta facendo passi avanti sia pure faticosamente. 3) Serve un organismo forte e indipendente per monitorare e guidare la professione degli esperti contabili. Serve, a dire il vero, da almeno 20 anni ma la lobby delle società di revisione (che tra l’altro ha versato oltre due milioni di dollari di contributi elettorali a 63 dei 70 membri della Commissione finanza della Camera dei rappresentanti e a tutti i 21 membri della Commissione bancaria del Senato, cioè i due organismi legislativi competenti in questa materia) si è sempre opposta con durezza. La legge ha approvato finalmente l’istituzione di questo organismo. Ma se funzionerà concretamente è tutto da vedere. Chi avrà la forza e il coraggio di imporre le riforme? Bush non è Roosevelt e il presidente della Sec, Harvey Pitt, già avvocato d’affari delle maggiori società di revisione, non sembra il soggetto ideale per resistere alle loro lobby . Vale la pena di riflettere sulle parole di Paul Volcker che, chiamato a tentare il salvataggio dell’Andersen, provò a ripristinare standard accettabili di rigore e serietà nella professione: «In verità - si è sfogato con Business Week - non vidi nessuno davanti a me. Ricevetti molti attestati di simpatia, ma la corporate America non era là, voleva essere lasciata in pace». Insomma, quello che si è fatto finora in America è poco, anche se alcune iniziative recenti cominciano a toccare punti importanti. Un dato positivo è che, nonostante lentezze e reticenze di governo e Parlamento, si stanno muovendo forze e istituzioni di mercato: si sono messi in moto gli investitori più saggi come Warren Buffett e un gruppo limitato ma significativo di società espressione del sano conservatorismo americano (dalla Coca-Cola alla Ford) che hanno «scavalcato a sinistra» il presidente Bush, mentre la dormiente Sec si è svegliata ed è in preda a un nervoso attivismo. La Borsa di New York avanza proposte positive mentre i grandi fondi pensione dichiarano che in futuro eserciteranno il loro peso, anche politico, in modo nuovo. Ad aver fallito è soprattutto il nuovo sistema di deregolamentazione imposto sulla base di un liberismo troppo dogmatico. L’autoregolamentazione del mercato non ha funzionato. Sull’onda della deregulation i mercati hanno indirizzato migliaia di miliardi di dollari in impieghi che non daranno mai un penny di frutto. Nelle telecomunicazioni, ad esempio, abbiamo assistito a sovrainvestimenti e fusioni che sono stati una pura devastazione economica. AMERICA E ITALIA. Giudicando con severità quanto accaduto in America non intendo certo dire che in Italia avremmo fatto di meglio o che siamo in una situazione migliore. In realtà il nostro Paese - che peraltro è immerso in un conflitto d’interessi inestricabile e istituzionalizzato a tutti i livelli - ha cose primordiali cui pensare prima di poter seriamente parlare di questi nodi. I problemi dell’Italia sono diversi e andranno analizzati a parte. Ma la vicenda americana, con la crisi dell’unico credibile sistema al quale ci rapportavamo e ci ispiravamo, ha conseguenze profondissime anche per noi.
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