auto la fine di un cattivo modello



     
 
il manifesto - 04 Luglio 2002 
 
L'AUTOMOBILE/DIBATTITO
La fine di un cattivo modello
GUIDO VIALE *
E'difficile vedere nella crisi della Fiat soltanto il risultato di una
cattiva gestione (ci sarà anche quella, ma forse si può fare di meglio che
insegnare a padroni e manager il loro mestiere: d'altronde la «vetturetta»
con cui circa cinquant'anni fa la Cgil voleva insegnare il mestiere a
Valletta non è un bel precedente: non ha giovato né agli operai né allo
sviluppo). Forse è meglio vedere nella crisi della Fiat la manifestazione
precoce - in un paese che rappresenta un anello particolarmente debole
dello sviluppo capitalistico - di un passaggio storico che coinvolge, se
non i fondamenti del sistema produttivo (ma coinvolge anche quelli), per lo
meno l'organizzazione della mobilità nel suo complesso; e questo in una
società in cui la mobilità è diventata una componente essenziale
dell'esistenza di ciascuno di noi. La motorizzazione privata ha fatto il
suo tempo; potrà forse sopravvivere a se stessa più o meno a lungo (dipende
anche da noi), ma niente le potrà restituire il ruolo che ha avuto nel
secolo scorso. Poco più di cento anni fa l'invenzione del motore a scoppio
ha provocato una rivoluzione nei trasporti e nei modi di vita. In
cinquant'anni l'automobile, nata come bene di lusso per pochi, ha
sostituito cavallo, carri e carrozze nel trasporto urbano (nel trasporto
interurbano erano già stati sostituiti dal treno a partire da un secolo
prima). L'affermazione del trasporto basato sul motore a scoppio, ancorché
inizialmente limitato ai ceti abbienti e poi al trasporto merci, è stata
una grande conquista per la vita urbana: ha liberato le strade dalla
presenza dei cavalli, delle loro onnipresenti deiezioni e dai loro cadaveri
abbandonati quando - molto spesso - schiattavano di fatica lungo il
percorso. L'inquinamento da moltiplicazione dei motori non era ancora
avvertito come problema (non si vedeva). I pericoli dovuti alla velocità e
alla invadenza delle automobili, invece, sì; ma erano stati «bypassati» in
nome del progresso.

Nella seconda metà del secolo scorso, la «democratizzazione» della
motorizzazione privata nei paesi dell'Occidente prospero - un'auto ogni due
abitanti in Europa e Giappone; una ogni 1,7 abitanti negli Stati Uniti e in
Italia - ha trasformato l'automobile nel principale problema ambientale -
ma anche economico e sociale - a cui il pianeta deve fare fronte: paesaggi
sventrati da autostrade, viadotti, svincoli, gallerie, parcheggi; campi,
prati e boschi ricoperti da croste d'asfalto; dissoluzione della struttura
urbana compatta a favore della «città diffusa» (e degli orribili suburbi
americani); inquinamento dell'aria; un numero di morti sulle strade
paragonabile solo a quelli della seconda guerra mondiale; consumo di
combustibili fossili e produzione di CO2 (i trasporti pesano per il 40% su
entrambe queste variabili, e metà di questo impatto è riconducibile
all'automobile privata: quanto basterebbe per rispettare i parametri di
Kyoto); un onere insostenibile - mediamente il 20, ma per alcuni fino e
oltre il 40% del bilancio familiare - per un numero crescente di persone;
aumento incontrollato della mobilità, ma anche del tempo perso in
imbottigliamenti, code e ricerca di parcheggi. Ma soprattutto distruzione
sistematica della socialità, attraverso la trasformazione dello spazio
(fisico) pubblico in scoli di traffico, garage a cielo aperto e chiusura
dei cittadini - adulti, vecchi e soprattutto bambini - tra le lamiere delle
loro auto (quando si trasferiscono da un posto all'altro) o tra le pareti
domestiche, in compagnia della televisione, quando restano a casa. In altre
parole, l'idiotismo di un isolamento pressoché totale. L'automobile,
promessa di libertà (di movimento), ne è diventata la peggior nemica.

A poco più di cent'anni dall'invenzione del motore a scoppio una nuova
tecnologia offre oggi la possibilità per liberarci per sempre da tutto ciò.
Non si tratta dell'auto elettrica o delle celle a combustibile (l'uso
dell'idrogeno), che non eliminano né lo spreco di energia (quale che sia la
sua origine: fossile - ahimé ancora per molto - nucleare - dionescampi - o
solare. Perché la principale riserva di energia che abbiamo a disposizione
resta il risparmio), né, soprattutto, l'occupazione del suolo e degli spazi
pubblici. Non c'è posto, sul pianeta Terra, per un tasso di motorizzazione
all'europea - equivalente, al 2030, a cinque miliardi di automobili - né
per il tasso auspicato da Loris Campetti - un'auto per famiglia -
equivalente, alla stessa data, e tenedo conto del fatto che le famiglie del
Terzo mondo saranno un po' più ampie, ad almeno due miliardi di automobili.
E' ora di dircelo - e di dirlo - chiaro, altrimenti non facciamo che
imbrogliare noi stessi, e con noi gli altri. O vogliamo mantenere solo per
noi dell'Occidente ricco il fasullo «privilegio» di un modello di consumo
non raggiungibile né praticabile dal resto dell'umanità?

La nuova tecnologia che può liberarci dall'inferno della motorizzazione
privata è la fatidica «rete», messa al lavoro per trasformare la mobilità
da bene a servizio: da attività subordinata al possesso di un'auto (chi non
ce l'ha, spesso oggi non può più spostarsi) a potenzialità garantita da un
servizio accessibile a tutti: cioè dal trasporto flessibile, o a domanda
(in termini tecnici, Drts, Demand responsive transport system), il taxi
collettivo e - in via transitoria - il car-sharing e il car-pooling. In
altre parole, mezzi sempre in moto, invece che fermi ad arrugginire -
mediamente - ventidue ore su ventiquattro; che effettuano in tempo reale un
servizio porta a porta - che l'auto privata non garantisce più, perché non
si riesce mai a parcheggiare dove si vuole - senza perdite di tempo e
ingorghi, ed a costi - economici e ambientali - infinitamente inferiori a
quello che spende il paese (la famigerata «azienda Italia») per mantenere
un parco veicoli di oltre trenta milioni di vetture. Non c'è altra
soluzione: né per le forze legate al capitale, né per chi pensa che un
altro mondo è possibile. Basta non chiudere gli occhi di fronte alla realtà.

Naturalmente, come in tutte le grandi fasi di transizione, il problema non
è solo quello di orientare la direzione del processo verso obiettivi
condivisibili - questione tutt'altro che scontata: l'attaccamento di
ciascuno di noi alla sua auto può tradursi in un disastro planetario - ma
anche e soprattutto quello di chi ne paga i costi. E qui posso ben capire
le preoccupazioni di Loris Campetti. Ma la soluzione non può essere quella
di sostenere con qualche innovazione un modo di trasporto condannato a
morte dal suo stesso successo. Una scelta del genere non fa che trascinare
i lavoratori in un tunnel senza uscita.

La soluzione è prospettare un passaggio morbido e graduale - beato
riformismo! - verso un nuovo sistema di mobilità. Un sistema in cui le
conquiste tecnologiche dell'epoca dell'automobile vengano salvaguardate e
valorizzate (perché anche il trasporto a domanda ha bisogno di veicoli), ma
per il quale si devono individuare al più presto le forme di gestione e le
opportunità - anche occupazionali - che offre. E' evidente infatti che un
sistema di trasporto a domanda non può essere governato solo dai
costruttori; soprattutto quando questi non hanno fatto nulla per anticipare
i tempi. Ci vogliono anche gli enti locali, le associazioni degli utenti,
le cooperative di autisti, il cervello dei programmatori, ecc. E Torino,
come sede di una grande sperimentazione, sarebbe un posto ideale.

* Autore di «Tutti in taxi», ed. Feltrinelli.