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l'industria in crescita? no si ritira
- Subject: l'industria in crescita? no si ritira
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 15 Apr 2002 17:30:20 +0200
dal corriere Mercoledì 10 Aprile 2002 Ipotesi controcorrente L’industria è in crescita? No, si ritira Caro direttore, se è possibile inoltrarsi in temi diversi dall’articolo 18 o dalle alterne previsioni sull’intensità della ripresa, vorrei si considerasse con pacatezza e obiettività un’ipotesi: il capitalismo italiano tende al ripiegamento e le politiche pubbliche, per programma o per istinto, lo stanno assecondando. Per inquadrare l’ipotesi che avanzo elencherò qualche fatto in modo necessariamente sbrigativo ed assiomatico ma sempre suscettibile di più puntuali specificazioni e di abbondante documentazione a sostegno. Alcune grandi imprese via via abbandonano i settori o i luoghi della competizione internazionale, si collocano in settori tariffati (elettricità, telecomunicazioni, gestione di infrastrutture) e si affidano al mercato interno. Parallelamente i sistemi normativi e di regolazione si aggiustano, per quanto è possibile, in chiave conservativa o protezionistica addirittura con iniziative esplicite di ministerializzazione del rapporto con le imprese ed i soggetti economici. Ciò avviene nelle comunicazioni, nell’energia e in particolare nelle opere pubbliche e nella finanza con una abnorme rivincita delle concessioni e uno stravolgimento politico-istituzionale delle fondazioni bancarie. E anche in settori industriali strategici (difesa, aerospazio) con esiti che possono mettere in discussione in alcuni casi la partecipazione delle nostre imprese ad architetture progettuali e industriali che oltrepassino la componentistica. Di converso c’è chi spinge Finmeccanica a «conglomerarsi» ulteriormente come una sorta di Iri implicito. Alle aziende piccole e medie giungono messaggi che riguardano più l’imprenditore che l’impresa, più il consenso che la politica industriale. Si allude sempre e solo (senza peraltro concretezza alcuna) ai costi; si allenta il quadro giuridico; si trovano soldi per alleggerire il peso della formazione ordinaria, ma non per la ricerca e il trasferimento tecnologico. Per l’export e l’internazionalizzazione, fin qui, chiacchiere ad interim . Questa spinta ad abbassare l’asticella piuttosto che a sostenere la qualificazione riguarda anche la legislazione di sistema. Tramonta il concetto di obbligo scolastico. La regolazione dei flussi di immigrazione è compromessa da spinte ideologiche. Si gioca la riforma del mercato del lavoro prevalentemente su scelte di bandiera e si arriva al punto di promettere l’espansione della base produttiva e occupazionale solo per via di flessibilità del lavoro. Si trascura il mercato dei prodotti e dei servizi a cominciare dal blocco sostanziale dei processi di liberalizzazione. Anche le privatizzazioni sono ferme. Lo sguardo degli operatori internazionali percepisce staticità e chiusura, con l’eccezione di qualche iniziativa di medio rango. Le politiche economiche viaggiano a termine, con interventi spot di dubbio funzionamento e che non vedono oltre il 2003, chiedendo poi alla ripresa americana quello che non può darci, e cioè il buon posizionamento competitivo. Nulla di strutturale per la finanza pubblica, esposta peraltro ad aspettative incombenti grazie a una pedagogia ingannevole che scarica le responsabilità e non le assume. Ciò che viene chiamato riforma (pensioni, fisco, scuola, lavoro, opere pubbliche) annuncia doppi o tripli standard, doppi mercati, diritti ineguali frantumando il corpo sociale e indebolendo la coesione. Ricordo che Confindustria stimolò il precedente governo in vista del dopo euro a un puntiglioso benchmark , cioè a un costante confronto con il resto d’Europa. Si fece allora una fotografia criticabile, perché statica e quindi inespressiva della tendenza. L’intenzione tuttavia era giusta. Perché questo tema oggi è scomparso? Perché lo si è lasciato dissolvere dentro la stuzzichevole querelle sull’«alzare la voce in Europa» sapendo bene di consentire così un pericoloso alibi al ripiegamento del sistema? Perché Confindustria - dal convegno di Parma dell’anno scorso, in campagna elettorale, a quello sempre a Parma che comincerà venerdì - non misura con l’asticella europea la legislazione nazionale che si è prodotta in questi mesi e che viene incoronata dalle norme sul conflitto d’interessi? Ecco allora l’ipotesi: dopo l’euro invece della modernizzazione avremo forse un ripiegamento in un nuovo patto domestico fra politica ed economia. Nel tempo di oggi un’illusione davvero pericolosa. Se l’ipotesi che ho descritto (me ne rendo conto, in modo necessariamente schematico e forse unilaterale) è del tutto infondata, nessun problema. Se avesse qualche fondamento sarebbe il caso che a preoccuparsene non fosse soltanto l’opposizione. di PIERLUIGI BERSANI*
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