l'industria in crescita? no si ritira



dal corriere

 
  
 
   
  
 Mercoledì 10 Aprile 2002 
 
Ipotesi controcorrente

L’industria è in crescita? No, si ritira


Caro direttore, se è possibile inoltrarsi in temi diversi dall’articolo 18
o dalle alterne previsioni sull’intensità della ripresa, vorrei si
considerasse con pacatezza e obiettività un’ipotesi: il capitalismo
italiano tende al ripiegamento e le politiche pubbliche, per programma o
per istinto, lo stanno assecondando. Per inquadrare l’ipotesi che avanzo
elencherò qualche fatto in modo necessariamente sbrigativo ed assiomatico
ma sempre suscettibile di più puntuali specificazioni e di abbondante
documentazione a sostegno. 
Alcune grandi imprese via via abbandonano i settori o i luoghi della
competizione internazionale, si collocano in settori tariffati
(elettricità, telecomunicazioni, gestione di infrastrutture) e si affidano
al mercato interno. Parallelamente i sistemi normativi e di regolazione si
aggiustano, per quanto è possibile, in chiave conservativa o
protezionistica addirittura con iniziative esplicite di
ministerializzazione del rapporto con le imprese ed i soggetti economici. 
Ciò avviene nelle comunicazioni, nell’energia e in particolare nelle opere
pubbliche e nella finanza con una abnorme rivincita delle concessioni e uno
stravolgimento politico-istituzionale delle fondazioni bancarie. E anche in
settori industriali strategici (difesa, aerospazio) con esiti che possono
mettere in discussione in alcuni casi la partecipazione delle nostre
imprese ad architetture progettuali e industriali che oltrepassino la
componentistica. Di converso c’è chi spinge Finmeccanica a «conglomerarsi»
ulteriormente come una sorta di Iri implicito. 
Alle aziende piccole e medie giungono messaggi che riguardano più
l’imprenditore che l’impresa, più il consenso che la politica industriale.
Si allude sempre e solo (senza peraltro concretezza alcuna) ai costi; si
allenta il quadro giuridico; si trovano soldi per alleggerire il peso della
formazione ordinaria, ma non per la ricerca e il trasferimento tecnologico.
Per l’export e l’internazionalizzazione, fin qui, chiacchiere ad interim .
Questa spinta ad abbassare l’asticella piuttosto che a sostenere la
qualificazione riguarda anche la legislazione di sistema. Tramonta il
concetto di obbligo scolastico. La regolazione dei flussi di immigrazione è
compromessa da spinte ideologiche. 
Si gioca la riforma del mercato del lavoro prevalentemente su scelte di
bandiera e si arriva al punto di promettere l’espansione della base
produttiva e occupazionale solo per via di flessibilità del lavoro. Si
trascura il mercato dei prodotti e dei servizi a cominciare dal blocco
sostanziale dei processi di liberalizzazione. Anche le privatizzazioni sono
ferme. Lo sguardo degli operatori internazionali percepisce staticità e
chiusura, con l’eccezione di qualche iniziativa di medio rango. 
Le politiche economiche viaggiano a termine, con interventi spot di dubbio
funzionamento e che non vedono oltre il 2003, chiedendo poi alla ripresa
americana quello che non può darci, e cioè il buon posizionamento
competitivo. Nulla di strutturale per la finanza pubblica, esposta peraltro
ad aspettative incombenti grazie a una pedagogia ingannevole che scarica le
responsabilità e non le assume. 
Ciò che viene chiamato riforma (pensioni, fisco, scuola, lavoro, opere
pubbliche) annuncia doppi o tripli standard, doppi mercati, diritti
ineguali frantumando il corpo sociale e indebolendo la coesione. 
Ricordo che Confindustria stimolò il precedente governo in vista del dopo
euro a un puntiglioso benchmark , cioè a un costante confronto con il resto
d’Europa. Si fece allora una fotografia criticabile, perché statica e
quindi inespressiva della tendenza. L’intenzione tuttavia era giusta.
Perché questo tema oggi è scomparso? Perché lo si è lasciato dissolvere
dentro la stuzzichevole querelle sull’«alzare la voce in Europa» sapendo
bene di consentire così un pericoloso alibi al ripiegamento del sistema?
Perché Confindustria - dal convegno di Parma dell’anno scorso, in campagna
elettorale, a quello sempre a Parma che comincerà venerdì - non misura con
l’asticella europea la legislazione nazionale che si è prodotta in questi
mesi e che viene incoronata dalle norme sul conflitto d’interessi? Ecco
allora l’ipotesi: dopo l’euro invece della modernizzazione avremo forse un
ripiegamento in un nuovo patto domestico fra politica ed economia. Nel
tempo di oggi un’illusione davvero pericolosa. Se l’ipotesi che ho
descritto (me ne rendo conto, in modo necessariamente schematico e forse
unilaterale) è del tutto infondata, nessun problema. Se avesse qualche
fondamento sarebbe il caso che a preoccuparsene non fosse soltanto
l’opposizione. 
 
di PIERLUIGI BERSANI*