l'autore preso nella rete



dal manifesto

     
    
 
    
 

07 Marzo 2002 
  
 
   
L'autore preso nella rete 
Le innovazioni tecnologiche e sociali prodotte dal cyberspazio esprimono
una cooperazione di uomini e donne non vincolata dalle leggi dell'economia 
SEBASTIANO TRIULZI 




Le strade che attraversano le nostre città, la teoria della relatività di
Einstein o le opere di Shakespeare sono beni che appartengono alla
collettività e nessuno può esercitare un qualche diritto di proprietà
rispetto a queste risorse, né può decidere se possano essere o meno
utilizzate da altri. Nella nostra era digitale è questa libertà che rende
possibili l'innovazione e la creatività, e il grado di maturità di una
società si evince proprio dalla protezione che essa accorda a tali risorse.
Anche Internet è un bene comune: solo che la gestione e il controllo di
questa risorsa sono oggi concentrati nelle mani di pochi. Come questo sia
potuto accadere e quali conseguenze comporti, lo spiega Lawrence Lessig in
un libro uscito qualche mese fa negli stati Uniti (The future of ideas,
Random House, $30.00).
Le nostre istituzioni politiche - scrive Lawrence Lessig, che è docente di
diritto costituzionale alla Stanford University - adeguatamente oliate
dall'industria della cultura, che vedeva minacciati i propri interessi
finanziari, hanno ratificato una legislazione draconiana, restrittiva della
libertà inizialmente accordata ad Internet. Il digital millennium copyright
act statunitense e la recente direttiva 2001/29 della comunità europea,
costituiscono una pericolosa deriva alla "rivoluzione" innescata dalla
rete, dal momento che stabiliscono per legge chi ha diritto d'accesso e
quali contenuti è possibile consultare. Con l'estensione della protezione
della proprietà intellettuale fino all'estremo, Internet sta per essere
trasformato da legislatori, tribunali e da un esercito di legali, in un
luogo dove il copyright è lo strumento di controllo della Rete. Secondo le
nuove norme, un individuo che adoperi un'opera "craccata" (ovvero una copia
non autorizzata), può essere perseguito indipendentemente dal fatto che
tale utilizzazione sia giustificata dal fair use. Inoltre la nuova legge
sul software, voluta dalle lobby americane e prontamente adottata in
Europa, stabilisce che il titolare del diritto d'autore non è colui che ha
creato l'opera, bensì l'azienda per cui lavora. In spregio, quindi, del
principio sul quale si regge l'idea stessa del diritto d'autore, che
considera l'artista esclusivo proprietario della propria creazione.
Là dove il processo creativo è frutto della commistione di più discipline
artistiche, sono maggiormente visibili le conseguenze paradossali del fatto
che ogni cosa ormai sembra avere un copyright. L'industria del cinema, per
esempio, spende fior di quattrini per controllare che ogni oggetto presente
sulla scena abbia una speciale autorizzazione ad essere ripreso: "Il film
L'esercito delle 12 scimmie - continua Lessig - è stato fermato dal
tribunale dopo vent'otto giorni che era uscito nelle sale perché un artista
aveva dichiarato che una sedia utilizzata nel film assomigliava ad uno
schizzo di una sedia che aveva disegnato". La creatività è diventata una
questione legale - come testimoniato da Franco Carlini sulle pagine del il
manifesto il 10 febbraio scorso -, così come la ricerca scientifica:
recentemente un professore della Princeton University, Edward Felten, è
stato costretto a rinunciare alla pubblicazione di un proprio lavoro,
perché correva il rischio di incorrere nelle pesanti sanzioni, introdotte
dal nuovo codice, previste a carico di chi divulghi sistemi in grado di
decifrare le tecnologie di protezione del copyright. Il risultato di tale
eccessiva tutela nei confronti della proprietà intellettuale, o di
qualsiasi altra forma che ad essa si avvicini, è quello di restringere lo
spazio della sperimentazione collettiva e di soffocare sul nascere ogni
nuova forma di produzione. "Con la scusa di proteggere i detentori dei
diritti originali abbiamo stabilito un regime in cui il futuro sarà come lo
permette l'industria del copyright".

Inoltre, cercare di applicare ad Internet le politiche del copyright
adottate per altre tecnologie, si è dimostrata una scelta eccessivamente
sbilanciata a protezione di quell'industria che proprio grazie al diritto
d'autore ricava lauti profitti. "Inizialmente - scrive Lessig - la legge
del copyright regolava gli editori: il suo scopo era riprodurre mappe carte
e libri grafici. Qualsiasi altro aspetto della vita creativa era libero. La
musica poteva essere suonata in pubblico senza alcuna licenza; un racconto
poteva essere trasformato in piece anche se il racconto aveva il copyright;
una storia poteva essere adattata in una storia diversa: la creatività era
vista come l'atto di prendere qualcosa e trasformarlo in qualcosa di nuovo,
anche se lievemente". Oggi non è più così: sebbene l'innovazione
tecnologica permetta di immettere sulla rete tutta la cultura che uomini e
donne hanno prodotto o producono fin dalla notte dei tempi, e in modo tale
da poter condividere questa cultura liberamente con gli altri, l'industria
culturale utilizza le leggi sulla proprietà intellettuale per proteggersi
contro quelle innovazioni che avrebbero potuto minare il proprio potere.
Secondo tali presupposti, è lecito chiedersi quali siano i reali benefici
del copyright e soprattutto chi ne siano i destinatari. Se nel mondo antico
chiunque sapesse scrivere poteva copiare un libro, con l'invenzione del
torchio per la stampa l'opera letteraria divenne un bene commerciale con un
proprio valore economico. Alla base della costituzione di un sistema di
concessioni atte ad assicurare agli editori l'esclusiva produzione di una
data opera, vi era la necessità di "coprire" i costi per l'acquisto dei
manoscritti, del compenso versato ai correttori, della spesa per l'affitto
dei macchinari. Per il pubblico questo significava la cancellazione della
libertà, riconosciuta di fatto fino ad allora, di copiare libri. La nascita
della concorrenza tra i diversi stampatori determinò l'obbligo di
costituire una sorta di regolamentazione: la prima fu emanata nel 1517 a
Venezia col nome di "Parte". Paradossalmente furono dunque gli editori ad
invocare un corpo di norme in grado di proteggere la loro esclusiva
sull'opera d'ingegno: oggi come ieri, dunque, sebbene lo scopo principale
del diritto d'autore sia quello di fornire incentivi a creare, a diffondere
espressioni ed idee, nella realtà tale normativa ha per gli artisti un
valore meramente simbolico. Come ha giustamente messo in luce Ruth Towse
nel volume Dal vinile ad internet (a cura di Francesco Silva e Giovanni
Ramello, Edizioni fondazione Giovanni Agnelli, 1999) "al fine di appurare
in che misura la legge sul diritto d'autore costituisce un incentivo
all'attività creativa [...] è necessario sapere quanto ogni singolo artista
ricava dai propri diritti".
L'analisi dei dati Siae di un anno preso dal mucchio, il 1996, è invero
impietosa: con quasi 41.000 iscritti e un utile netto di oltre 143 miliardi
di lire, l'81% degli autori ha ricevuto in un anno meno di 50.000 lire. Se
si considera che al tempo la quota annuale di iscrizione era di 150.000
lire, è gioco forza affermare che le somme percepite non bastano al
sostentamento, e vivere dei diritti d'autore per molti è una pura utopia.
"La maggior parte delle entrate derivanti dalle royalties che la legge sul
diritto d'autore consente di ottenere - denuncia Towse - va soprattutto
agli editori [...] Se il fine del diritto d'autore è quello di fornire un
incentivo a creare e diffondere opere, il suo scopo non l'ha centrato".

Quando, nel luglio del 2000, tra le fanfare dei maggiori produttori di
software, la commissione giustizia del Senato approvò la legge di riforma
del diritto d'autore in Italia, non si volle dar ascolto alle voci che si
alzarono per denunciare i pericolosi effetti collaterali della 248/2000.
All'introduzione di nuove norme sulla duplicazione, per cui non sussiste
più differenza fra chi effettua una copia non autorizzata per uso
personale, e chi lo fa invece per venderla e guadagnarci, si sono
affiancati regolamenti simili a quelli che si adottano per i pentiti, come
gli sconti di pena a chi denuncia altre persone. Inoltre è stato
formalizzato l'obbligo di apporre sulle proprie opere il bollino Siae,
anche se non iscritti alla società degli editori ed autori, con la
minaccia, oltretutto, di gravi sanzioni in caso di inadempienza. Ed è stato
costituito, presso la presidenza del consiglio, un comitato per la tutela
della proprietà intellettuale, dal nome tanto sinistro e dalle così oscure
funzioni che lo stesso ufficio stampa della presidenza afferma, con il
cambio di governo, di averne perso le tracce. Come spesso è accaduto nella
storia della nostra penisola, ben poca strada bisogna fare per passare dal
tragico al grottesco: la legge 248 prevede un limite invalicabile per le
fotocopie; non si può infatti riprodurre più del 15% di un libro. "E' una
norma del tutto assurda - afferma un avvocato che ha chiesto di mantenere
l'anonimato - introdotta con lo scopo di scoraggiare le fotocopie: gli
editori avevano visto che il fenomeno colpiva determinati settori, in
primis l'editoria universitaria, e avevano deciso di porvi un freno".
Questo non impedisce però agli studenti all'università a studiare sulle
fotocopie, senza di certo pensare di commettere chissà quale reato. In tal
senso, è opportuno ricordare un singolare caso giudiziario: un anno fa, nel
febbraio del 2001, un giudice del tribunale di Roma ha assolto quattro
extracomunitari che vendevano compact disk pirata in strada perché spinti
dal bisogno di sopravvivere. Al di là della umanità dimostrata dal giudice,
è interessante notare questo passaggio della sentenza: "La norma repressiva
di base, la protezione penalistica del diritto d'autore è desueta di fatto
per l'abitudine di molte persone di tutti i ceti sociali che ricorrono
all'acquisto di cd per strada o li scaricano da internet [...] La normativa
penalistica a favore del copyright risulta tendenzialmente abrogata di
fatto ad opera dello stesso popolo per desuetudine".
Lo sviluppo della tecnologia dell'informazione digitale ha cambiato
profondamente le nostre abitudini: fare una copia è diventata una attività
tanto semplice da essere alla portata di tutti, cosicché nessuno è più
disposto a rinunciare all'esercizio di tale libertà. Dato che le pene non
hanno modo di esercitare un potere deterrente sui milioni di utenti della
rete, le istituzioni non conoscono altra risposta che quella di adottare
misure sempre più draconiane. E' questo un processo ben visibile anche
nell'uso del linguaggio della comunicazione: termini come pirata e
pirateria, ad esempio, hanno poco a che vedere con l'idea della
riproduzione, ed anzi per alcuni sogliono evocare quelle avventurose
vicende di arrembaggi ai galeoni spagnoli che coloravano i propri mondi
dell'infanzia. Il messaggio altre volte è più esplicito: in una recente
pubblicità si poteva vedere un uomo nel suo ufficio che veniva tratto in
arresto perché reo di usare un software "craccato".

Spesso questa politica è controproducente, anche dal punto di vista del
marketing. L'esempio di Napster, il più popolare sito al mondo per lo
scambio di musica on line costretto a far pagare i brani musicali scaricati
dal suo sito in seguito ad una causa giudiziaria avviata dalle "cinque
sorelle" dell'industria discografica (Warner, Bertelsmann Bmg, Emi, Sony,
Universal-Vivendi), è altamente significativo: le vendite di compact disk
nel 2001 sono crollate e questo, secondo alcuni analisti è da imputare
proprio al bavaglio messo a Napster, che rappresentava semmai una sorta di
volano pubblicitario al mercato discografico. In un luogo come Internet,
che viene considerano da molti utenti terra di tutti e di nessuno, le major
si muovono in un modo che chiamare impacciato è dir poco: il settimanale
"Time", qualche giorno fa, bocciava senza appello i nuovi servizi a
pagamento per la musica digitale messi in piedi dalle cinque più grandi
società discografiche, perché eccessivamente costosi per i naviganti e
infinitamente poco pratici. Infatti, sia MusicNet che Pressplay, i cui
prezzi di abbonamento variano dai 10 ai 25 dollari al mese, non solo
offrono una scelta limitata di brani, non solo questi brani spariscono una
volta terminato l'abbonamento, ma non viene nemmeno consentito al pubblico
di copiare i file audio su un cd. Il tutto quando esistono in rete servizi,
come ad esempio Morpheus, che offrono la possibilità di scambiare e
riprodurre on line la musica gratuitamente.
Così, apportando come scusa la difesa dell'arte, e in realtà minacciandone
l'esistenza poiché essa è per natura scambio, osmosi, è contaminazione,
nutrimento del passato come del presente, le imprese più importanti cercano
di aggiudicarsi i mercati attraverso il diritto. Attraverso gli accordi per
il libero commercio, si è imposto infatti il diritto d'autore ovunque,
anche là dove non era mai esistito come in Cina: il tutto per favorire le
grandi multinazionali della produzione culturale e dell'industria hi-tech..
Non a caso la Disney, preoccupata che i suoi diritti su Topolino stavano
per decadere, è stata una degli sponsor principali della legge sul
copyright negli Usa. Con l'approvazione del digital millennium copyright
act, i diritti d'autore sono stati estesi fino a 70 anni dalla morte
dell'autore, mentre sino ad allora terminavano a trenta anni dalla prima
pubblicazione; inoltre, l'esclusiva sulle opere in mano alle corporation è
stata portata a 95 anni. Tale normativa ha salvato quelle aziende che,
agendo nel monopolio più assoluto, traggono i propri maggiori guadagni
dalle opere protette: basti pensare a cosa significa nell'economia della
Aol Time Warner l'estensione dell'esclusiva per kolossal cinematografici
come Il Mago di Oz e Via col Vento, o, in Italia, per la Mondadori detenere
i diritti di un autore come Pirandello, morto nel 1936, e le cui opere, nei
teatri e nelle librerie, riscuotono sempre un enorme successo. La realtà è
che sprovvisti di tale proroga, famosissimi romanzi quali Addio alle armi
di Hemingway o Il grande Gatsby di Fitzgerald, e altrettanto notissime
musiche, quali quelle di George Gershwin, sarebbero state a disposizione di
chiunque, libere dal diritto d'autore, e gli artisti avrebbero potuto
utilizzarle senza dover versare alcun obolo o compenso.

Il fatto che la salvaguardia degli interessi dell'industria culturale venga
prima dell'"interesse generale" della società, dovrebbe spingerci a
chiederci se il potere dei monopoli ha un senso e se rappresenta un
vantaggio per la collettività. "Siamo una democrazia - conclude Lessig -
sempre più governata dai giudici: eleggiamo un congresso (un parlamento per
noi, n.d.r.) che è sempre più incatenato ai lobbisti. [...] Senza
accorgercene, senza resistere e senza farci domande, ci muoviamo attraverso
questo momento di innovazione abbracciando una architettura del controllo.
Quelli minacciati dalle tecnologie della libertà hanno imparato come
spegnere queste tecnologie: l'interruttore sta per essere buttato e noi non
stiamo facendo nulla".