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l'autore preso nella rete
- Subject: l'autore preso nella rete
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Sat, 09 Mar 2002 13:34:21 +0100
dal manifesto 07 Marzo 2002 L'autore preso nella rete Le innovazioni tecnologiche e sociali prodotte dal cyberspazio esprimono una cooperazione di uomini e donne non vincolata dalle leggi dell'economia SEBASTIANO TRIULZI Le strade che attraversano le nostre città, la teoria della relatività di Einstein o le opere di Shakespeare sono beni che appartengono alla collettività e nessuno può esercitare un qualche diritto di proprietà rispetto a queste risorse, né può decidere se possano essere o meno utilizzate da altri. Nella nostra era digitale è questa libertà che rende possibili l'innovazione e la creatività, e il grado di maturità di una società si evince proprio dalla protezione che essa accorda a tali risorse. Anche Internet è un bene comune: solo che la gestione e il controllo di questa risorsa sono oggi concentrati nelle mani di pochi. Come questo sia potuto accadere e quali conseguenze comporti, lo spiega Lawrence Lessig in un libro uscito qualche mese fa negli stati Uniti (The future of ideas, Random House, $30.00). Le nostre istituzioni politiche - scrive Lawrence Lessig, che è docente di diritto costituzionale alla Stanford University - adeguatamente oliate dall'industria della cultura, che vedeva minacciati i propri interessi finanziari, hanno ratificato una legislazione draconiana, restrittiva della libertà inizialmente accordata ad Internet. Il digital millennium copyright act statunitense e la recente direttiva 2001/29 della comunità europea, costituiscono una pericolosa deriva alla "rivoluzione" innescata dalla rete, dal momento che stabiliscono per legge chi ha diritto d'accesso e quali contenuti è possibile consultare. Con l'estensione della protezione della proprietà intellettuale fino all'estremo, Internet sta per essere trasformato da legislatori, tribunali e da un esercito di legali, in un luogo dove il copyright è lo strumento di controllo della Rete. Secondo le nuove norme, un individuo che adoperi un'opera "craccata" (ovvero una copia non autorizzata), può essere perseguito indipendentemente dal fatto che tale utilizzazione sia giustificata dal fair use. Inoltre la nuova legge sul software, voluta dalle lobby americane e prontamente adottata in Europa, stabilisce che il titolare del diritto d'autore non è colui che ha creato l'opera, bensì l'azienda per cui lavora. In spregio, quindi, del principio sul quale si regge l'idea stessa del diritto d'autore, che considera l'artista esclusivo proprietario della propria creazione. Là dove il processo creativo è frutto della commistione di più discipline artistiche, sono maggiormente visibili le conseguenze paradossali del fatto che ogni cosa ormai sembra avere un copyright. L'industria del cinema, per esempio, spende fior di quattrini per controllare che ogni oggetto presente sulla scena abbia una speciale autorizzazione ad essere ripreso: "Il film L'esercito delle 12 scimmie - continua Lessig - è stato fermato dal tribunale dopo vent'otto giorni che era uscito nelle sale perché un artista aveva dichiarato che una sedia utilizzata nel film assomigliava ad uno schizzo di una sedia che aveva disegnato". La creatività è diventata una questione legale - come testimoniato da Franco Carlini sulle pagine del il manifesto il 10 febbraio scorso -, così come la ricerca scientifica: recentemente un professore della Princeton University, Edward Felten, è stato costretto a rinunciare alla pubblicazione di un proprio lavoro, perché correva il rischio di incorrere nelle pesanti sanzioni, introdotte dal nuovo codice, previste a carico di chi divulghi sistemi in grado di decifrare le tecnologie di protezione del copyright. Il risultato di tale eccessiva tutela nei confronti della proprietà intellettuale, o di qualsiasi altra forma che ad essa si avvicini, è quello di restringere lo spazio della sperimentazione collettiva e di soffocare sul nascere ogni nuova forma di produzione. "Con la scusa di proteggere i detentori dei diritti originali abbiamo stabilito un regime in cui il futuro sarà come lo permette l'industria del copyright". Inoltre, cercare di applicare ad Internet le politiche del copyright adottate per altre tecnologie, si è dimostrata una scelta eccessivamente sbilanciata a protezione di quell'industria che proprio grazie al diritto d'autore ricava lauti profitti. "Inizialmente - scrive Lessig - la legge del copyright regolava gli editori: il suo scopo era riprodurre mappe carte e libri grafici. Qualsiasi altro aspetto della vita creativa era libero. La musica poteva essere suonata in pubblico senza alcuna licenza; un racconto poteva essere trasformato in piece anche se il racconto aveva il copyright; una storia poteva essere adattata in una storia diversa: la creatività era vista come l'atto di prendere qualcosa e trasformarlo in qualcosa di nuovo, anche se lievemente". Oggi non è più così: sebbene l'innovazione tecnologica permetta di immettere sulla rete tutta la cultura che uomini e donne hanno prodotto o producono fin dalla notte dei tempi, e in modo tale da poter condividere questa cultura liberamente con gli altri, l'industria culturale utilizza le leggi sulla proprietà intellettuale per proteggersi contro quelle innovazioni che avrebbero potuto minare il proprio potere. Secondo tali presupposti, è lecito chiedersi quali siano i reali benefici del copyright e soprattutto chi ne siano i destinatari. Se nel mondo antico chiunque sapesse scrivere poteva copiare un libro, con l'invenzione del torchio per la stampa l'opera letteraria divenne un bene commerciale con un proprio valore economico. Alla base della costituzione di un sistema di concessioni atte ad assicurare agli editori l'esclusiva produzione di una data opera, vi era la necessità di "coprire" i costi per l'acquisto dei manoscritti, del compenso versato ai correttori, della spesa per l'affitto dei macchinari. Per il pubblico questo significava la cancellazione della libertà, riconosciuta di fatto fino ad allora, di copiare libri. La nascita della concorrenza tra i diversi stampatori determinò l'obbligo di costituire una sorta di regolamentazione: la prima fu emanata nel 1517 a Venezia col nome di "Parte". Paradossalmente furono dunque gli editori ad invocare un corpo di norme in grado di proteggere la loro esclusiva sull'opera d'ingegno: oggi come ieri, dunque, sebbene lo scopo principale del diritto d'autore sia quello di fornire incentivi a creare, a diffondere espressioni ed idee, nella realtà tale normativa ha per gli artisti un valore meramente simbolico. Come ha giustamente messo in luce Ruth Towse nel volume Dal vinile ad internet (a cura di Francesco Silva e Giovanni Ramello, Edizioni fondazione Giovanni Agnelli, 1999) "al fine di appurare in che misura la legge sul diritto d'autore costituisce un incentivo all'attività creativa [...] è necessario sapere quanto ogni singolo artista ricava dai propri diritti". L'analisi dei dati Siae di un anno preso dal mucchio, il 1996, è invero impietosa: con quasi 41.000 iscritti e un utile netto di oltre 143 miliardi di lire, l'81% degli autori ha ricevuto in un anno meno di 50.000 lire. Se si considera che al tempo la quota annuale di iscrizione era di 150.000 lire, è gioco forza affermare che le somme percepite non bastano al sostentamento, e vivere dei diritti d'autore per molti è una pura utopia. "La maggior parte delle entrate derivanti dalle royalties che la legge sul diritto d'autore consente di ottenere - denuncia Towse - va soprattutto agli editori [...] Se il fine del diritto d'autore è quello di fornire un incentivo a creare e diffondere opere, il suo scopo non l'ha centrato". Quando, nel luglio del 2000, tra le fanfare dei maggiori produttori di software, la commissione giustizia del Senato approvò la legge di riforma del diritto d'autore in Italia, non si volle dar ascolto alle voci che si alzarono per denunciare i pericolosi effetti collaterali della 248/2000. All'introduzione di nuove norme sulla duplicazione, per cui non sussiste più differenza fra chi effettua una copia non autorizzata per uso personale, e chi lo fa invece per venderla e guadagnarci, si sono affiancati regolamenti simili a quelli che si adottano per i pentiti, come gli sconti di pena a chi denuncia altre persone. Inoltre è stato formalizzato l'obbligo di apporre sulle proprie opere il bollino Siae, anche se non iscritti alla società degli editori ed autori, con la minaccia, oltretutto, di gravi sanzioni in caso di inadempienza. Ed è stato costituito, presso la presidenza del consiglio, un comitato per la tutela della proprietà intellettuale, dal nome tanto sinistro e dalle così oscure funzioni che lo stesso ufficio stampa della presidenza afferma, con il cambio di governo, di averne perso le tracce. Come spesso è accaduto nella storia della nostra penisola, ben poca strada bisogna fare per passare dal tragico al grottesco: la legge 248 prevede un limite invalicabile per le fotocopie; non si può infatti riprodurre più del 15% di un libro. "E' una norma del tutto assurda - afferma un avvocato che ha chiesto di mantenere l'anonimato - introdotta con lo scopo di scoraggiare le fotocopie: gli editori avevano visto che il fenomeno colpiva determinati settori, in primis l'editoria universitaria, e avevano deciso di porvi un freno". Questo non impedisce però agli studenti all'università a studiare sulle fotocopie, senza di certo pensare di commettere chissà quale reato. In tal senso, è opportuno ricordare un singolare caso giudiziario: un anno fa, nel febbraio del 2001, un giudice del tribunale di Roma ha assolto quattro extracomunitari che vendevano compact disk pirata in strada perché spinti dal bisogno di sopravvivere. Al di là della umanità dimostrata dal giudice, è interessante notare questo passaggio della sentenza: "La norma repressiva di base, la protezione penalistica del diritto d'autore è desueta di fatto per l'abitudine di molte persone di tutti i ceti sociali che ricorrono all'acquisto di cd per strada o li scaricano da internet [...] La normativa penalistica a favore del copyright risulta tendenzialmente abrogata di fatto ad opera dello stesso popolo per desuetudine". Lo sviluppo della tecnologia dell'informazione digitale ha cambiato profondamente le nostre abitudini: fare una copia è diventata una attività tanto semplice da essere alla portata di tutti, cosicché nessuno è più disposto a rinunciare all'esercizio di tale libertà. Dato che le pene non hanno modo di esercitare un potere deterrente sui milioni di utenti della rete, le istituzioni non conoscono altra risposta che quella di adottare misure sempre più draconiane. E' questo un processo ben visibile anche nell'uso del linguaggio della comunicazione: termini come pirata e pirateria, ad esempio, hanno poco a che vedere con l'idea della riproduzione, ed anzi per alcuni sogliono evocare quelle avventurose vicende di arrembaggi ai galeoni spagnoli che coloravano i propri mondi dell'infanzia. Il messaggio altre volte è più esplicito: in una recente pubblicità si poteva vedere un uomo nel suo ufficio che veniva tratto in arresto perché reo di usare un software "craccato". Spesso questa politica è controproducente, anche dal punto di vista del marketing. L'esempio di Napster, il più popolare sito al mondo per lo scambio di musica on line costretto a far pagare i brani musicali scaricati dal suo sito in seguito ad una causa giudiziaria avviata dalle "cinque sorelle" dell'industria discografica (Warner, Bertelsmann Bmg, Emi, Sony, Universal-Vivendi), è altamente significativo: le vendite di compact disk nel 2001 sono crollate e questo, secondo alcuni analisti è da imputare proprio al bavaglio messo a Napster, che rappresentava semmai una sorta di volano pubblicitario al mercato discografico. In un luogo come Internet, che viene considerano da molti utenti terra di tutti e di nessuno, le major si muovono in un modo che chiamare impacciato è dir poco: il settimanale "Time", qualche giorno fa, bocciava senza appello i nuovi servizi a pagamento per la musica digitale messi in piedi dalle cinque più grandi società discografiche, perché eccessivamente costosi per i naviganti e infinitamente poco pratici. Infatti, sia MusicNet che Pressplay, i cui prezzi di abbonamento variano dai 10 ai 25 dollari al mese, non solo offrono una scelta limitata di brani, non solo questi brani spariscono una volta terminato l'abbonamento, ma non viene nemmeno consentito al pubblico di copiare i file audio su un cd. Il tutto quando esistono in rete servizi, come ad esempio Morpheus, che offrono la possibilità di scambiare e riprodurre on line la musica gratuitamente. Così, apportando come scusa la difesa dell'arte, e in realtà minacciandone l'esistenza poiché essa è per natura scambio, osmosi, è contaminazione, nutrimento del passato come del presente, le imprese più importanti cercano di aggiudicarsi i mercati attraverso il diritto. Attraverso gli accordi per il libero commercio, si è imposto infatti il diritto d'autore ovunque, anche là dove non era mai esistito come in Cina: il tutto per favorire le grandi multinazionali della produzione culturale e dell'industria hi-tech.. Non a caso la Disney, preoccupata che i suoi diritti su Topolino stavano per decadere, è stata una degli sponsor principali della legge sul copyright negli Usa. Con l'approvazione del digital millennium copyright act, i diritti d'autore sono stati estesi fino a 70 anni dalla morte dell'autore, mentre sino ad allora terminavano a trenta anni dalla prima pubblicazione; inoltre, l'esclusiva sulle opere in mano alle corporation è stata portata a 95 anni. Tale normativa ha salvato quelle aziende che, agendo nel monopolio più assoluto, traggono i propri maggiori guadagni dalle opere protette: basti pensare a cosa significa nell'economia della Aol Time Warner l'estensione dell'esclusiva per kolossal cinematografici come Il Mago di Oz e Via col Vento, o, in Italia, per la Mondadori detenere i diritti di un autore come Pirandello, morto nel 1936, e le cui opere, nei teatri e nelle librerie, riscuotono sempre un enorme successo. La realtà è che sprovvisti di tale proroga, famosissimi romanzi quali Addio alle armi di Hemingway o Il grande Gatsby di Fitzgerald, e altrettanto notissime musiche, quali quelle di George Gershwin, sarebbero state a disposizione di chiunque, libere dal diritto d'autore, e gli artisti avrebbero potuto utilizzarle senza dover versare alcun obolo o compenso. Il fatto che la salvaguardia degli interessi dell'industria culturale venga prima dell'"interesse generale" della società, dovrebbe spingerci a chiederci se il potere dei monopoli ha un senso e se rappresenta un vantaggio per la collettività. "Siamo una democrazia - conclude Lessig - sempre più governata dai giudici: eleggiamo un congresso (un parlamento per noi, n.d.r.) che è sempre più incatenato ai lobbisti. [...] Senza accorgercene, senza resistere e senza farci domande, ci muoviamo attraverso questo momento di innovazione abbracciando una architettura del controllo. Quelli minacciati dalle tecnologie della libertà hanno imparato come spegnere queste tecnologie: l'interruttore sta per essere buttato e noi non stiamo facendo nulla".
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