i rischi della svalutazione dello yen



dal manifesto

    
    
 
    
 

13 Gennaio 2002 
  
 
  
I rischi della svalutazione dello yen
In 2 mesi la moneta nipponica ha perso il 10% minacciando la competitività
degli altri paesi del Sud est asiatico 
JOSEPH HALEVI 




La crisi argentina rischia di apparire, dal punto di vista valutario, uno
spettacolo marginale rispetto a quello pirotecnico che potrebbe scatenarsi
in Asia. Recentemente i giornali economici in lingua inglese hanno dato
molto risalto alle dichiarazioni del ministro delle finanze giapponese
Masajuro Shiokawa in cui riconosceva che lo yen si era svalutato troppo
rapidamente negli ultimi due mesi: oltre il 10% rispetto al dollaro, mentre
per l'intero 2001 il deprezzamento è stata di circa il 14%. Gran parte del
calo è avvenuto da fine di settembre a seguito della vendita da parte del
governo di Tokyo di un ammontare di yen pari a 24 miliardi di dollari.
Di fronte alla prospettiva di un ulteriore peggioramento della già
declinante situazione economica mondiale il governo è ricorso alla
tradizionale manovra del tasso di cambio. Il Giappone, infatti, ha delle
capacità produttive enormi, ampiamente inutilizzate e non ha per nulla
deindustrializzato malgrado l'ormai decennale stagnazione recessiva. Ciò
significa che può ripartire su tutte le attività industriali appena si
presenta l'occasione. Ma non essendoci, sia internamenente che a livello
mondiale, alcun movimento spontaneo verso la ripresa, il Giappone cerca di
stimolare l'economia puntando nuovamente sull'export, riducendo il tasso di
cambio.
L'ultimo trimestre del 2001 ha visto accelerarsi un trend già in atto: il
Giappone perdeva esportazioni senza aumentare le importazioni. Le
esportazioni nette sono in genere un drenaggio di domanda dal resto del
mondo. Ma se queste calano perchè si abbassa l'attività internazionale
significa che il paese perde sull'estero senza però contribuire alla
domanda effettiva mondiale. A dicembre era arrivato poi un dato terribile
in un ramo ove il Giappone è un leader mondiale, quello delle macchine
utensili: ordini ed export sono diminuiti di oltre il 40% su base annua. E
la produzione industriale, principale fonte del surplus estero nipponico,
ha toccato in dicembre il livello più basso degli ultimi 14 anni.
In queste condizioni il governo ha evidentemente ripreso a spingere lo yen
verso il basso. Tale orientamento ha, però, irritato i vicini asiatici:
Cina, Corea del sud e Taiwan, ma anche l'eonomicamente piccola Malaysia. La
Cina, che ha mantenuto la parità con il dollaro e le cui esportazioni si
orientano in maniera crescente verso prodotti più avanzati, non può
permettersi di vedersi concorrenziare dall'agguerrito Giapppone soprattutto
in questo periodo di vacche magre. Lo stesso vale per la Corea, il cui
modello è quello giapponese per cui esporta macchine, acciaio, navi,
elettronica, automobili. Cina e Corea hanno formalmente protestato presso
il governo di Tokyo per il rapido calo dello yen e il ministro delle
finanze coreano Jin Nyum ha detto che il suo governo sarà obbligato a
deprezzare il won. Dal canto suo, il premier malese Mahathir, incontrando a
Kuala-Lumpur il collega nipponico Koizumi, ha affermato che anche il
ringgit verrà svalutato se continua la discesa dello yen. Vi è quindi il
rischio di una guerra di cambi tipicamente neomercantlistica e recessiva.
Come quelle di religione, le guerre monetarie attraverso svalutazioni
competitive esprimono il degrado e la disintegrazione del sistema commerciale.
Può il Giappone comportarsi diversamente? Certamente, dicono i fasulli
esperti delle società borsistiche: riformare per deregolamentare. I falsi
esperti hanno nel mirino i miliardi di yen depositati dai risparmiatori in
conti presso le banche nazionali a bassissimi tassi di interesse. I vari
fondi di investimento - Usa - vorrebbero appropriarsi di questi soldi per
rilanciare la bolla speculativa. Per il Giappone però la deregolamentazione
anglo-americana significherebbe innescare un processo di
deindustrializzaione che non porterebbe benefici nemmeno ai grandi gruppi
industriali. D'altra parte un'ulteriore svalutazione dello yen darebbe la
stura ad una nuova e ben più devastante crisi asiatica. L'alternativa
sarebbe un coordinamento monetario e - oggi con la crisi - anche sul piano
degli investimenti tra i vari paesi della regione, Cina e Giappone in primo
luogo. Però questo non è possibile perchè ci sono di mezzo loro cioè gli
americani che, durante la prima crisi asiatica, hanno violentemente
bloccato - con l'appoggio dell'Europa - qualsiasi proposta che uscisse
dalla pura deregolamentazione dei conti di capitale voluta dal Fmi. Nella
sostanza l'attuale scontro tra Tokyo, Pechino, Seul e Kuala Lumpur mostra
come le contraddizioni tra l'area asiatica - la cui economia è cresciuta
accorpata agli Usa, per volontà di Washington - e gli Stati uniti se le
devono risolvere all'interno dell'Asia stessa, ma senza autonomia
decisionale rispetto a Washington.
La vicenda in corso - pur facendo risaltare la dipendenza politica, prima
ancora che economica, dell'area nei confronti delle prerogative Usa - può
ricadere negativamente sui rapporti interni agli Stati uniti. Il governo di
Washington è favorevole alla svalutazione dello yen, che fa litigare gli
asiatici tra loro e mette in difficoltà l'euro, aumentando il flusso delle
esportazioni giapponesi verso l'Europa. Tuttavia anche l'America è in crisi
e l'unità tra la componente politica ed economica del potere americana non
è garantita per sempre.
Si legge infatti in un dispaccio, legato alla vicenda dello yen, della
società borsistica Bloomberg dell'11 gennaio: "negli Usa, l'Associazione
nazionale delle industrie manifatturiere ha inviato una lettera al
sottosegretario per gli Affari Internazionali, John Taylor, chiedendo un
incontro per parlare della forza del dollaro. 'Il dollaro è diventato il
fattore più negativo per i produttori manifatturieri' ha dichiarato Frank
Vargo, vice presidente per gli affari internazionali dell'associazione". E'
possibile che l'attuale calo dello yen, assieme alla crisi, abbia ridato
fiato ai quei settori che vogliono una revisione del tasso di cambio del
dollaro, spingendoli - dopo anni di silenzio - a scontrarsi con quei rami
che hanno maggiormente beneficiato della trasformazione dell'economia Usa
in un'economia di importazioni. Insomma, ciò che accade in Asia può
diventare un problema profondamente interno agli Usa.