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il nuovo volto del mondo
- Subject: il nuovo volto del mondo
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 07 Jan 2002 17:47:38 +0100
---------------------------------------------------------------------------- ---- LE MONDE diplomatique - Dicembre 2001 ---------------------------------------------------------------------------- ---- Il nuovo volto del mondo di Ignacio Ramonet A tre mesi dagli eventi dell'11 settembre, è venuto il momento di fare un primo bilancio di tutto ciò che è oramai cambiato nella geopolitica planetaria, con conseguenze dirette sulla vita di ognuno di noi. Indiscutibilmente, dopo il ciclo che ha avuto inizio il 9 novembre 1989 - data della caduta del muro di Berlino - si è aperto ora un nuovo periodo storico. Tutto incomincia da quel fatidico martedì 11 settembre, con la scoperta di una nuova arma: un aereo di linea, imbottito di kerosene e trasformato in un missile ad alto potere distruttivo. Sconosciuta fino a quel momento, questa mostruosa bomba incendiaria colpisce l'America di sorpresa, simultaneamente e ripetutamente. Lo shock è di una violenza tale da scuotere realmente il mondo. Ciò che cambia di colpo è la percezione stessa del terrorismo. Si parla immediatamente di «iperterrorismo (1)», a significare che non sarà più quello di prima. È stata superata una soglia impensabile, inconcepibile. Quest'aggressione smisurata non può essere paragonata a nessuno degli attacchi finora avvenuti. Tanto che non si sa neppure come chiamarla. Attentato? Attacco? Atto di guerra? Come se i limiti della violenza estrema si fossero dilatati di colpo. E come se non fosse più possibile tornare indietro. È chiaro a tutti che i crimini dell'11 settembre hanno inaugurato un nuovo corso, e che si ripeteranno (2). Forse altrove, certo in circostanze diverse, ma si ripeteranno. La storia dei conflitti insegna che, quando appare una nuova arma, per quanto mostruosi ne siano gli effetti, sarà sempre riutilizzata. È stato così per l'uso bellico dei gas dopo il 1918, o per i bombardamenti aerei delle città, dopo quello di Guernica nel 1937. Ed è anche questo che alimenta, a cinquantasei anni da Hiroshima, il terrore nucleare. Gli autori dell'aggressione del'11 settembre hanno rivelato una crudeltà inaudita e un altissimo grado di sofisticazione. Hanno voluto colpire con forza, colpire al cuore e colpire le menti. E hanno ricercato effetti di almeno tre tipi: danni alle persone e alle cose, un impatto simbolico e un gigantesco shock mediatico. Gli effetti del primo tipo sono ben noti: la distruzione di circa 4.000 vite umane, il crollo delle due torri del World Trade Center e di un'ala del Pentagono; e probabilmente, se il quarto aereo non si fosse schiantato in Pennsylvania, anche la distruzione della Casa bianca. Ma questi effetti distruttivi evidentemente non costituivano il principale obiettivo. Se infatti gli aerei si fossero scagliati contro qualche centrale nucleare o contro una diga, avrebbero provocato devastazioni apocalittiche e decine di migliaia di morti (3)... Il secondo obiettivo mirava a colpire l'immaginazione e a svilire, offendere e degradare i principali simboli della grandezza statunitense: i simboli della sua egemonia imperiale in materia economica (il World Trade Center), militare (il Pentagono) e politica (la Casa bianca). Il terzo obiettivo, che non è stato posto in rilievo come gli altri due, era di ordine mediatico. Con una sorta di colpo di stato televisivo, Osama bin Laden, presunta mente dell'aggressione, ha puntato a occupare gli schermi, a imporre le sue immagini e le scene della sua opera di distruzione. E ha assunto così, a tutto danno dell'amministrazione americana (4), il controllo di tutti gli schermi televisivi degli Stati uniti e del mondo intero. In questo modo ha potuto svelare e dimostrare l'inusitata vulnerabilità americana, esibendo in ogni casa la propria potenza malefica e trasformandosi in regista della coreografia del suo crimine. È una sorta di narcisismo a completare l'altra immagine che ha dominato l'inizio di questa crisi: quella dello stesso bin Laden. Sullo sfondo di una caverna afghana, l'autoritratto di un uomo dallo sguardo stranamente dolce... Da un giorno all'altro, questa immagine ha fatto di un uomo sconosciuto ai più fino alla vigilia dell'11 settembre il personaggio più celebre del mondo. Dal giorno in cui un dispositivo tecnico globale consente di diffondere immagini in diretta su tutto il pianeta, si sapeva che tutto era pronto per la comparsa di un «messianismo mediatico». In particolare, la vicenda di Lady Diana ci aveva già insegnato che i media, molto più numerosi di un tempo, sono di fatto più uniformi e omologati di quanto siano mai stati. E che tutto questo sarebbe andato un giorno a vantaggio di un qualche profeta elettronico (5). Il primo di questa specie è Osama bin Laden. La sua aggressione dell'11 settembre gli ha dato accesso a tutti gli schermi del mondo, offrendogli l'opportunità di proclamare il suo messaggio planetario. Genio del male o moderno dottor Mabuse per gli uni, agli occhi di altri milioni di persone, in particolare nel mondo arabo-musulmano, bin Laden appare un eroe. E persino qualcosa di più: un messia, «designato e inviato da Dio per liberare l'umanità dal male...». E che a questo fine - per quanto paradossale ciò possa sembrare - non esita a inventare un terrorismo di tipo nuovo (6). È facile comprendere che siamo ormai di fronte a un terrorismo globale. Globale dal punto di vista della sua organizzazione, ma anche della sua portata e dei suoi obiettivi. E un terrorismo che non rivendica nulla di preciso: né l'indipendenza di un territorio, né concessioni politiche concrete, né tantomeno l'instaurazione di un tipo particolare di regime. La stessa aggressione dell'11 settembre non è stata finora rivendicata ufficialmente. Questa nuova forma di terrore si manifesta come una sorta di castigo, di punizione per un «comportamento generale», non meglio precisato, degli Stati uniti e più in generale dei paesi occidentali. Tanto il presidente George W. Bush (che ha parlato di crociata, per ritrattare subito dopo), che lo stesso bin Laden hanno descritto questo attacco in termini di scontro di civiltà, o addirittura di guerra tra religioni: «Il mondo si è scisso in due campi - ha affemato bin Laden - l'uno sotto il segno della croce, come ha detto il capo dei miscredenti Bush; l'altro sotto quello dell'islam (7)». Gli Stati uniti, che sono stati aggrediti per la prima volta sul loro stesso territorio (8), nel santuario della loro metropoli, e in modo particolarmente sanguinoso, hanno deciso di reagire rovesciando i termini stessi della politica internazionale. Nel timore di una loro risposta precipitosa e impulsiva, il mondo ha in un primo tempo trattenuto il fiato. Invece, sotto l'influenza del Segretario di stato Colin Powell, rivelatosi la personalità più lucida dell'amministrazione americana (9), gli Stati uniti sono riusciti a mantenere il loro sangue freddo; e hanno saputo trarre profitto dall'emozione internazionale e dalle solidarietà espresse da quasi tutte le cancellerie (con la significativa eccezione dell'Iraq) per rafforzare la loro egemonia planetaria. Fin dal momento della scomparsa dell'Urss, nel dicembre 1991, si sapeva che gli Stati uniti erano l'unica iperpotenza. Ma c'erano, qui e là, alcuni recalcitranti - come la Russia, la Cina e a modo suo anche la Francia - che esitavano ad ammetterlo. Gli eventi dell'11 settembre hanno spazzato via ogni dubbio residuo: Mosca, Pechino, Parigi e tanti altri hanno esplicitamente riconosciuto la supremazia americana. Numerosi dirigenti - primo fra tutti il presidente francese Jacques Chirac - si sono precipitati a Washington, ufficialmente per esprimere le loro condoglianze, ma in realtà per fare atto di fedeltà incondizionata... Tutti hanno capito che non era il momento dei distinguo. «Chi non è con noi è con i terroristi», aveva avvertito Bush, aggiungendo che avrebbe preso buona nota di chiunque, in questo particolare momento, sarebbe rimasto passivo... Una volta constatato questo allineamento universale - compreso anche quello delle Nazioni unite e dell'organizzazione dell'Atlantico del Nord (Nato) - Washington ha adottato un comportamento sovrano; in altri termini, non ha tenuto in minimo conto le raccomandazioni o gli auspici dei paesi alleati. La coalizione che si è costituita obbedisce a una geometria variabile. Washington si è sempre riservata di scegliere il partner del momento e fissargli unilateralmente la missione da svolgere, senza lasciargli alcun margine di manovra. «La partecipazione dell'Europa a questa guerra - ha constatato un analista americano - avviene su basi unilaterali, che presuppongono la chiara accettazione di un'unica autorità: il comando americano (10)». E non soltanto in campo militare. Anche in quello dell'intelligence, la cosiddetta «guerra invisibile»: più di cinquanta paesi hanno posto i loro servizi agli ordini della Central Intelligence Agency (Cia) e del Federal Bureau of Investigations (Fbi). In tutto il mondo, sono stati arrestate più di 360 persone sospette, accusate di aver avuto rapporti con la rete di Al Qaeda e con bin Laden (11). Se la supremazia degli Stati uniti era grande, oggi è schiacciante, e le altre potenze occidentali (Francia, Germania, Giappone, Italia e persino il Regno unito) appaiono al confronto dei lillipuziani. La prova più eclatante dell'impressionante potere di intimidazione esercitato dagli Stati uniti si è avuta fin dall'indomani dell'11 settembre. Un dominio assoluto Ordinando, il 9 settembre, l'assassinio del comandante Massud, capo militare dell'Alleanza del Nord in Afghanistan, bin Laden aveva creduto di eliminare un elemento decisivo, del quale Washington avrebbe potuto servirsi dopo gli attentati. Evidentemente pensava che gli Stati uniti non avrebbero più potuto contare sull'appoggio dell'Alleanza del Nord. E se avessero persistito in questo proposito, con l'obiettivo di rovesciare il regime dei taliban che gli offriva la propria protezione, avrebbero dovuto scontrarsi con l'ostacolo del Pakistan, un paese con 150 milioni di abitanti e una potenza militare non trascurabile, in possesso dell'arma nucleare. Sempre secondo bin Laden, Islamabad non avrebbe mai accettato lo smantellamento del regime dei taliban, attraverso i quali il Pakistan aveva realizzato un'ambizione ancestrale: quella di conquistare finalmente l'Afghanistan e di ridurlo di fatto al rango di un suo protettorato. Più a nord anche la Russia, i cui rapporti con Washington si erano deteriorati a causa del grave disaccordo su quel progetto di scudo antimissile caro al presidente Bush, avrebbe rifiutato di collaborare con gli americani e di offrire loro facilitazioni presso i suoi alleati in Asia centrale, l'Uzbekistan e il Tagikistan. Secondo questo ragionamento, improntato al buon senso, dopo l'11 settembre gli Stati uniti avrebbero dovuto limitarsi a usare missili cruise per bombardamenti da grande distanza: una risposta forse spettacolare, ma senza reali conseguenze... Alla prova dei fatti, tuttavia, si è visto che bin Laden aveva fatto male i suoi calcoli. In meno di ventiquattr'ore l'alto comando pakistano, posto con fermezza davanti alla scelta tra aiutare gli Stati uniti o affrontare considerevoli rischi in settori strategici prioritari quali il Kashmir, la rivalità con l'India e la detenzione dell'arma nucleare, ha deciso - come è noto - di sacrificare l'Afghanistan. Dal canto suo, la Russia non ha avuto un attimo di esitazione. Vladimir Putin è stato anzi il primo a contattare Bush, l'11 settembre, per esprimergli la propria solidarietà. Una solidarietà che in Asia centrale è arrivata al punto da suscitare emozione tra gli alti gradi dell'esercito. Ormai si parla addirittura di un eventuale ingresso della Russia nella Nato (12). Questo nuovo atteggiamento della Russia significa, in parole povere, che su scala planetaria non esiste più alcuna possibilità di costituire una coalizione militare in grado di controbilanciare gli Stati uniti. Il dominio militare americano è ormai assoluto. A questo riguardo, la «punizione» inferta dagli Stati uniti all'Afghanistan, con bombardamenti a tappeto giorno e notte, rappresenta un terrificante avvertimento a tutti i paesi del mondo. Chiunque si opponga agli Stati uniti si ritroverà al loro cospetto, senza alleati, esposto a bombardamenti ad oltranza, fino ad essere riportato all'età della pietra... L'elenco dei prossimi, eventuali «bersagli» è stato annunciato pubblicamente sulle colonne dei giornali americani: l'Iraq, l'Iran, la Siria, lo Yemen, il Sudan, la Corea del Nord. E c'è un'altra lezione da imparare dopo l'11 settembre: sebbene la globalizzazione prosegua e si affermi come principale caratteristica del mondo contemporaneo, l'attuale crisi ne ha rivelato la vulnerabilità. Ecco perché gli Stati uniti sostengono l'urgenza di creare quello che si potrebbe definire l'apparato di sicurezza della globalizzazione. Con l'adesione della Russia, l'ingresso della Cina nell'Organizzazione mondiale del commercio (Omc) e adducendo il pretesto della lotta mondiale contro il terrorismo, che consente di ridurre ovunque le libertà e il perimetro della democrazia (13), ci sono ormai tutte le condizioni per una rapida costituzione di questo dispositivo globale di sicurezza, che sarà senza dubbio affidato alla nuova Nato (14). Ma si è fatta sentire anche qualche voce che denuncia la responsabilità, quanto meno parziale, della globalizzazione liberista negli avvenimenti dell'11 settembre. In primo luogo perché essa ha inasprito le ingiustizie, le disuguaglianze e la povertà su scala planetaria (15), e ha quindi aggravato la disperazione e il rancore di persone ormai pronte alla rivolta, o anche all'adesione ai gruppi islamisti radicali come Al Qaeda, che nel mondo arabo-musulmano fanno appello alla violenza estrema. Inoltre, attraverso l'indebolimento degli stati, la svalutazione della politica e lo smantellamento degli apparati normativi, la globalizzazione ha favorito il rafforzamento di strutture «molli», non gerarchiche né verticali, ma disarticolate o reticolari. Ad esempio, sia le imprese globali che le organizzazioni non governative si sono moltiplicate grazie a questa situazione, della quale però hanno approfittato anche organizzazioni parassitarie: mafie, reti criminali, sette, associazioni a delinquere di ogni tipo e gruppi terroristici, che occupano in maniera caotica gli spazi disponibili (16). Da questo punto di vista, Al Qaeda è un'organizzazione che aderisce perfettamente all'era della globalizzazione, con le sue ramificazioni multinazionali, le sue reti finanziarie, i suoi collegamenti nel campo dei media e delle comunicazioni, i suoi canali di approvvigionamento, i suoi poli umanitari, i suoi centri di propaganda, le sue filiali e sotto-filiali... Nel corso della sua storia, il mondo ha conosciuto le città-stato (Atene, Venezia), le regioni-stato (nell'epoca feudale) e gli stati-nazione (nel corso del XIX e del XX secolo). Ora, con la globalizzazione, vediamo apparire le reti-stato, o addirittura l'individuo-stato, di cui bin Laden è il primo esempio evidente. Anche se per il momento ha ancora bisogno - come Bernardo l'Eremita aveva bisogno di un guscio vuoto - di uno stato vuoto (ieri la Somalia, oggi l'Afganistan), da occupare e porre interamente al servizio delle sue ambizioni. Tutto questo è favorito dalla globalizzazione, che domani incoraggerà il sorgere di imprese-stato. Le quali, sull'esempio di bin Laden, occuperanno questo o quello stato svuotato e destrutturato, in preda a un disordine endemico, per utilizzarlo a proprio piacimento. Anche a questo riguardo, bin Laden può essere visto come un terrificante precursore. note: (1) Cfr. François Helsbourg, Hyperterrorisme: la nouvelle guerre, Odile Jacob, Parigi, 2001. Si legga inoltre Pascal Boniface, Les Guerres de demain, Seuil, Parigi, 2001. (2) Come non chiedersi, dopo l'11 settembre, se sia ragionevole proseguire la costruzione del futuro super-Airbus gigante, aberrante sul piano ecologico, quando si sa fin d'ora che potrebbe costituire un'arma demenziale nelle mani di un pilota impazzito? (3) Peraltro, abbiamo appreso in quest'occasione che né le centrali nucleari né le dighe sono a prova di aerei-bomba ... (4) Washington non ha tardato a comprendere l'entità della sfida, e ha tentato di rispondere - secondo noi in maniera maldestra - con il divieto di mostrare i corpi delle vittime, per non offrire agli autori dell'aggressione il piacere di contemplare l'aspetto più tragico della vulnerabilità americana. (5) Si legga La Tyrannie de la communication, e in particolare il capitolo «Messianisme médiatique», coll. «Folio Actuel», N° 92, Gallimard- Galilée, Parigi, 2001. (6) Leggere Jean Baudrillard, «L'esprit du terrorisme», Le Monde, 3 novembre 2001. (7) Le Monde, 3 novembre 2001. (8) Pearl Harbour, situata nelle Hawai, il 7 dicembre 1941 faceva parte di quella che era ancora, all'epoca, una colonia degli Stati uniti. (9) Si legga Paul-Marie de la Gorce, «Discordie a Washington», Le Monde diplomatique/il manifesto, novembre 2001. (10) International Herald Tribune, Parigi, 21 novembre 2001. (11) International Herald Tribune, 24 novembre 2001. (12) Ibidem. (13) «Negli Stati uniti e in Europa, lo stato di diritto si è fermato un attimo dopo l'11 settembre», ha dichiarato Freimut Duve su Le Monde del 7 novembre 2001. Si legga inoltre Patti Waldmeir e Brian Groom, «In liberty's name», Financial Times, Londra, 21 novembre 2001. (14) International Herald Tribune, 21 novembre 2001. (15) Si legga, tra l'altro, l'intervista a Kofi Annan, Le Figaro, 5 novembre 2001. E inoltre: Financial Times, Londra, 21 novembre 2001; El País, Madrid, 19 novembre 2001; e l'intervista a Joseph E. Stiglitz, nuovo premio Nobel per l'economia, Le Monde, 6 novembre 2001. (16) Si legga Ignacio Ramonet, Geopolitica del caos, Asterios, 1998.
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