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la roulette delle pensioni
- Subject: la roulette delle pensioni
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 21 Dec 2001 06:45:29 +0100
dal manifesto 18 Dicembre 2001 La roulette delle pensioni Gli interessi dei grandi gruppi finanziari dietro la riforma. Soffocate le pensioni pubbliche, tutto in mano ai Fondi. Eppure è sparita anche la "gobba". Parla Roberto Pizzuti PAOLO ANDRUCCIOLI Il ministro del welfare, Roberto Maroni si è impegnato a portare la delega pensioni al consiglio dei ministri di domani. La "riforma" previdenziale berlusconiana scatena però più tensioni che consensi, sia tra i sindacati, che tra gli industriali. Lo scontro è ancora aperto. Siamo andati a chiedere il senso di tutta l'operazione a Roberto Pizzuti, professore di politica economica all'Università di Roma, La Sapienza. Professore, una delle motivazioni comuni per giustificare interventi sulle pensioni è legata alla sostenibilità economica del sistema. Come stanno veramente le cose? Secondo un ragionamento ricorrente, il sistema non sarebbe sostenibile e dunque vanno ridotte le prestazioni. D'altra parte - si dice - il sistema pubblico ha oneri troppo elevati che ridurrebbero la competitività delle imprese. Si vuole quindi ridurre il sistema per liberare risorse e abbassare i costi pubblici, dando spazio ai fondi pensione a capitalizzazione che in Italia non sono ancora sviluppati. Per superare "l'anomalia" italiana si vorrebbe eliminare anche il Tfr. Per quanto riguarda la sostenibilità, c'è da ricordare che non c'è nessuna emergenza. Anzi. Per il rapporto tra prestazioni e contributi, il disavanzo del sistema previdenziale nel 2000 è stato di poco meno di 30.000 miliardi. Ma questo disavanzo è stato più che compensato dai 40.000 miliardi di imposte che pagano i pensionati con i loro contributi. Il bilancio pubblico è quindi migliorato di 10.000 miliardi. Nei conti e nelle statistiche previdenziali italiane sono incluse però voci che in altri paesi vengono scorporate (esempio: i prepensionamenti in Germania sono registrati come politica industriale, in Italia sotto la voce pensioni). Il Tfr, per esempio, è calcolato in Italia nella spesa previdenziale e ammonta a circa due punti di Pil. Se questa è la situazione attuale, bisogna però fare chiarezza sul futuro. C'è sempre la mina della cosiddetta gobba... Dopo le riforme realizzate negli anni novanta, le previsioni non sono affatto allarmanti. Prima si parlava di un rapporto spesa/Pil del 23-25%, ora siamo invece a poco più del 14%, anche con la famosa "gobba". Ma se è vero quello che dice il rapporto Brambilla che ipotizza un tasso di crescita del 2% per il prossimo mezzo secolo, allora anche la gobba sparisce, ovvero la linea del rapporto crescita/spesa pensionistica è piatta. Ma se il Pil crescerà più del 2%, allora ci sarebbe addirittura una riduzione del rapporto spesa pensionistica/Pil, il contrario della gobba. Il vero problema del nostro sistema pensionistico è la bassa copertura soprattutto per le nuove forme contrattuali. La pensione futura dei lavoratori di oggi coprirà il 30-35% dell'ultima retribuzione. In più c'è da dire che le imprese stanno per fare ricorso a una nuova ondata di prepensionamenti e questo, naturalmente, appesantirà ancora di più il sistema previdenziale nel suo complesso per favorire le esigenze di ristrutturazione delle imprese. Non c'è dunque alcuna anomalia italiana rispetto al sistema previdenziale. Certo c'è il problema dell'invecchiamento demografico, ma è una questione comune a tutti i paesi. In altri paesi però la riduzione del tasso di natalità si affronta con politiche mirate, come è successo in Svezia dove la tendenza si è già ribaltata. Ci sono però i problemi dei costi e della cosiddetta sostenibilità che vengono utilizzati dalle imprese che chiedono una nuova riforma strutturale. A questo riguardo ho fatto alcuni calcoli sui dati Eurostat e Ocse. Fatto pari a cento il costo del lavoro per unità di prodotto, si scopre che quello italiano è il più basso in Europa. Se le imprese dicono di essere poco competitive per questo motivo, dicono una cosa non vera. Quanto al cuneo fiscale, bisogna ricordare che il nostro è più basso di quello francese e tedesco. Quindi non sono questi i problemi, ma vengono sbandierati dalle imprese che preferiscono continuare a chiedere la riduzione del costo del lavoro piuttosto che investire in innovazione per competere. Dietro la richiesta di una nuova riforma ci sono dunque interessi forti (che tra l'altro non sono omogenei fra loro). Sono comunque tutte richieste parziali. Che cosa si intende per richieste parziali e quali sono gli interessi forti che stanno dietro la nuova riforma? Prima di tutto ci sono gli interessi a sviluppare i fondi pensione. Su questo punto c'è da dire però che una loro crescita troppo rapida coinciderebbe con una sottrazione di risparmio nazionale alle nostre imprese, soprattutto alle piccole e medie. In Borsa c'è molta domanda, ma la nostra Borsa presenta scarsissima offerta di titoli nazionali per cui un aumento della domanda generata dalla creazione dei fondi pensione inevitabilmente implicherebbe un investimento all'estero. Ma il nostro sistema è fatto di piccole e medie imprese che hanno già difficoltà a trovare finanziamenti in Italia, figuriamoci all'estero. Dunque, l'impiego del Tfr (magari con qualche misura nascosta di tipo forzoso) si tradurrebbe in due problemi di costo e di reperibilità di finanziamenti per le piccole imprese. Le grandi imprese, da parte loro, sono sì disponibili a cedere il Tfr, ma chiedono in cambio di essere rimborsate dei maggiori oneri. Oltre questo scambio, i grandi gruppi economici chiedono che in ogni caso si riduca il costo del lavoro, vale a dire che si riducano le aliquote contributive pensionistiche. Ma questo significa creare degli oneri che saranno o a carico dei lavoratori in quanto a contribuzione, o/e nuovi oneri a carico del bilancio pubblico sotto forma di fiscalizzazione parziale dei contributi. Dietro la riforma si cela un disegno che punta a una nuova redistribuzione del reddito a danno dei lavoratori dipendenti i quali perderebbero il Tfr, finanzierebbero la previdenza integrativa che alla fine sostituirebbe la previdenza pubblica. I lavoratori dipendenti avrebbero probabilmente lo stesso ammontare pensionistico nella somma tra quel poco di pensioni pubblica che rimarrà e pensione privata, ma perderebbero quasi del tutto il Tfr, che costituisce un elemento di risparmio molto importante (oggi, tra l'altro, è anche una sorta di assicurazione contro la disoccupazione). Ma è proprio questa la posta in gioco. In più, affidare il reddito degli anziani a un mercato come quello borsistico e finanziario è certamente molto rischioso. Ee i fondi sono anche più costosi. Non c'è nessuna teoria economica per affermare che un sistema così possa garantire maggiori rendimenti, almeno a parità di rischio di un sistema a ripartizione. Bisogna dunque intendersi: o si vuole sviluppare una previdenza intregativa per bilanciare la perdita del sistema pubblico e allora si può dire che è un'operazione possibile, che però va fatta con gradualità. Altra cosa invece è tendere a sostituire sostanzialmente il sistema pensionistico pubbli co con i fondi pensione. Allora si avrebbe un aumento dell'instabilità complessiva del sistema economico e sociale, una redistribuzione del reddito a discapito dei lavoratori e una riduzione della domanda di consumi che in questa fase andrebbe invece supportata. La riforma si giustifica dunque solo per gli interessi parziali dei grandi gruppi economici e finanziari, che però non coincidono con gli interessi generali della società, ma neppure con quelli delle piccole e medie imprese.
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