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rassegna stampa: LA GRANDE DISTRIBUZIONE PARLA STRANIERO



a cura di AltrAgricoltura Nord Est
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tratto da Green Planet - 11/01/04
LA GRANDE DISTRIBUZIONE PARLA STRANIERO
L'alimentare dipende ormai per due terzi dall'estero. Sos di Coldiretti: è
in corso un processo di espulsione della merce italiana.

Il supermarket parla straniero e in tavola addio made in Italy
La metà di carne e latte da Francia e Germania. Allarme per frutta,
formaggi, yogurt e salumi
Da Auchan a Carrefour, da Metro a Rewe, le grandi catene francesi e
tedesche puntano al primato
Posti a rischio
ROMA - La diga ha ceduto quasi completamente, il made in Italy rischia, e
ora forse ancora di più dopo il crac Parmalat. Il 45% del latte che
consumiamo arriva da Francia e Germania, il 50% della carne bovina sui
banchi dei supermercati è - ancora - tedesca o francese, il 40% di quella
suina proviene da oltralpe (Baviera e Olanda), Germania e Usa monopolizzano
il mercato del grano, fornendoci il 60% della materia prima usata per
pasta, pane e biscotti.
E il cavallo di Troia per l'invasione sembra essere la grande distribuzione
estera che, silenziosamente ha colonizzato a macchia di leopardo il
territorio, facendo dell´Italia un paese che nell´alimentare dipende ormai
per il 65% dalle maxi-catene straniere.
I numeri delle quote di mercato per centrali di acquisto sono quelli di una
resa pressocchè totale.
Negli ipermercati e supermercati leader è tornata la Coop, che grazie ad un
accordo siglato due settimane fa con la piccola Sigma, pesa sul totale
della spesa per il 19,6%.
Ma sotto il precario primato del polo italiano batte bandiera straniera:
Rinascente e Intermedia, con il marchio francese Auchan, controllano il
17,4% del mercato; Gs-Carrefour (ancora Francia) il 15,6%; Interdis e
Me.ca.des, sotto l´insegna tedesca della Metro, sono solidi al 14%; Conad
ha stretto un accordo con il gigante francese Leclerc e staziona sul 9,2%;
la Rewe Italia, filiale del colosso germanico, ha il 2,3%. In mezzo a loro
resiste (ma chissà per quanto) un polo italiano indipendente costituito da
Esselunga (famiglia Caprotti), Selex e Agorà, che stoicamente "tiene" quota
16,4%.
"L´Italia è terra di conquista in un settore strategico come quello
alimentare - avvertono dal quartier generale della Coop, il colosso
cooperativo italiano che da una decina di anni si è lanciato negli
ipermercati - e bisogna stare attenti, perché la grande distribuzione non è
neutrale nelle scelte. A parità o con lieve differenza di prezzo si tende a
privilegiare i propri bacini produttivi nazionali: e così sugli scaffali,
oltre a carne, latte e farina, si vedranno sempre più prodotti stranieri,
dagli ortaggi ai succhi di frutta".
Arance, zucchero e formaggi-base francesi; yogurt, salami e patate
tedesche: il tricolore si ritira dai prodotti generici e a pagarne le
spese, alla fine, sono i produttori italiani, che , privi di un sistema
moderno che consente lo sfogo dell´export, si trovano le porte chiuse anche
sul mercato nazionale.
"Ci sono migliaia di posti a rischio se non si interviene - avvertono
ancora i tecnici della Coop - perché la filiera italiana è fragile". Ma
rischia anche la dinamica dell´inflazione.
"Una volta preso il controllo della distribuzione - dicono - chi garantisce
che l´extra profitto dei produttori non venga scaricato sugli scaffali di
un paese terzo?"
L´allarme della residua grande distribuzione nazionale è condiviso dalla
Coldiretti, l´organizzazione dei produttori agricoli.
"Stiamo facendo un censimento dei consumi - spiegano - e la sensazione è
che il processo di espulsione della merce italiana sia in corso. E anche
che vengano spacciati o mascherati per italiani prodotti che tali non sono:
la materia d´origine non è roba di casa nostra".
Per Paolo Bedoni, presidente di Coldiretti, l´unica difesa possibile a
monte è l´incentivazione del marchio "made in Italy". "Bisogna collegare la
filiera della produzione agricola a quella distributiva - dice - e
rafforzare l´obbligo dell´indicazione di provenienza su tutta la merce, non
solo sui prodotti doc o dop.
Il prodotto deve essere strettamente legato al territorio, perché il "made
in Italy"è un nome vincente, la gente lo riconosce e lo vuole. Solo così
potremo salvare posti di lavoro e , grazie alla trasparenza e alla tutela
della qualità, rafforzare un settore strategico"
IL CASO
Standa, Gs e in parte Rinascente: ecco come è finito l´impegno della nostra
grande industria nella distribuzione Fininvest, Benetton, Agnelli così
hanno mollato i big italiani
Il colosso Usa Wal-Mart potrebbe ora tentare lo sbarco Nel settore gli
stranieri superano largamente il 50%. I casi di Spagna, Portogallo e Grecia
MILANO - Ha mollato (senza troppa gloria) la Fininvest. Si sono defilati
(in cambio di un congruo assegno) Benetton e Del Vecchio. Persino la
famiglia Agnelli, secondo molti, potrebbe procedere in tempi nemmeno troppo
lunghi all´addio a La Rinascente. Negli ultimi dieci anni la grande
distribuzione italiana ha cambiato volto.
Non solo per il boom degli iper-mercati ma soprattutto per l´"invasione"
dei big stranieri. Che poco alla volta, soprattutto nella grandissima
distribuzione, sono arrivati a superare largamente il 50% del mercato di
casa nostra.
Il fenomeno, a dire il vero, è comune ad altri paesi europei. Negli ultimi
anni anche in Spagna, Grecia e Portogallo gli operatori locali hanno ceduto
il passo ai gruppi esteri nell´ambito del processo di consolidamento del
settore che interessa tutto il Vecchio continente. Dove si è formato un
Olimpo di giganti circoscritto a gruppi francesi, inglesi e tedeschi, con
l´aggiunta dell´olandese Ahold.
La particolarità italiana è che a passare la mano sono stati alcuni dei
grandi protagonisti della finanza nazionale, che pure avevano in teoria la
strada spianata per creare un vero campione di casa nostra.
I primi a cedere sono stati gli Agnelli: nel ´97 hanno aperto il capitale
della Rinascente ai francesi di Auchan (un gruppo familiare che si divide
gli utili ogni anno in una festa campestre estiva).
Il colosso parigino poco alla volta ha fatto salire la sua partecipazione e
secondo molti tra breve potrebbe conquistare il controllo del gruppo,
magari cedendo i marchi che meno gli interessano. La grande distribuzione è
anche il teatro di uno dei pochi flop industriali della famiglia Berlusconi.
La Fininvest ha tentato per anni di rilanciare la Standa, ma poi ha deciso
di farsi da parte. Girando a Gs l´Euromercato e poi, attraverso
l´interregno di Franchini, girando nel 2000 la divisione alimentare della
"casa degli italiani", per ironia della sorte, ai tedeschi della Rewe.
Quella dei Benetton e di Del Vecchio nel settore è stata invece
un´avventura quasi lampo. Iniziata a fine ´94 con l´acquisizione della Gs
nell´ambito della privatizzazione e chiusa sei anni dopo con la cessione a
Promodes-Carrefour dell´azienda, con una lauta plusvalenza.
Dal 2000 l´invasione si è in apparenza fermata: non tanto perché manchino
gli acquirenti, ma piuttosto per la latitanza di possibili prede. Il valzer
di fusioni e acquisizioni a livello mondiale nel mondo di super e
ipermercati non si è infatti mai arrestato.
Negli ultimi mesi non appena l´inglese Safeway ha annunciato di essere
oggetto di un´Opa sono piovute offerte da ogni angolo del mondo, con il
governo inglese sceso in campo per "pilotare" il successo della proposta
made in England. In prima fila per l´acquisizione c´era l´americana
Wal-Mart, primo dei colossi a stelle e strisce a tentare l´avventura
europea. E secondo molti osservatori proprio Wal-Mart potrebbe prima o poi
cercare di mettere un piede anche sul mercato italiano.
LA DIFESA
Benoit Lheureux (Auchan) "L´invasione? Non esiste"
Il vostro non è affatto un mercato facile
ROMA - L´Italia terreno di conquista per i gruppi alimentari stranieri?
Semmai di «collaborazione e di investimento» in «un mercato interessante e
dalle grandi potenzialità, anche se ancora ingessato da troppi vincoli».
Per Benoit Lheureux, amministratore delegato del settore alimentare di
Auchan Rinascente, i nodi da sciogliere non sono legati al timore di
un´invasione di merci estere negli ipermercati. Ma «ai 25 anni di ritardo»
che hanno allungato le distanze da paesi come la Francia, dove la grande
distribuzione ha libertà d´azione. Dove i centri commerciali aprono senza
attendere anni e dove il mondo del lavoro mostra «grande flessibilità».
Come spiega l´interesse di gruppi alimentari europei a catene italiane?
«Guardi che quello italiano non è un mercato facile: pesano i costi, e le
tasse che soffocano gli investimenti. Nonostante tutto siamo in presenza di
un mercato moderno, maturo. Il futuro della grande distribuzione dipende
però dalla volontà politica».
Cosa manca allora?
«In Francia i Comuni hanno tutto l´interesse a permettere l´apertura di
centri commerciali. In Italia, invece il settore non si è sviluppato come
merita. La temuta invasione straniera? Per quel che ci riguarda è un
allarme infondato: da Auchan solo l´1% dei prodotti non è italiano. Il
nostro mestiere è vendere ai clienti ciò che vogliono, a prezzi
competitivi, come abbiamo fatto nonostante gli aumenti in alcuni settori
della produzione».
L´ACCUSA
Vincenzo Tassinari (Coop): "Consumatori colonizzati"
Che miopia i grandi gruppi nazionali
ROMA - «Il rischio che corriamo è quello di essere colonizzati come
consumatori. E la colpa principalmente è di quei grandi gruppi industriali,
come Agneli, Benetton, Del Vecchio e Berlusconi, che non hanno creduto
nell´alimentare e nella distribuzione e l´hanno venduto agli stranieri».
Non usa mezzi termini Vincenzo Tassinari, presidente nazionale della Coop,
quando analizza la situazione di supermercati e ipermercati italiani.
Presidente Tassinari, ma italiano o straniero un negozio è sempre un
negozio. Per i consumatori cosa cambia?
«In apparenza niente, nella sostanza tutto. Primo, perchè i grandi
distributori stranieri favoriscono i loro produttori e il made in Italy si
riduce sugli scaffali; secondo, perché potrebbero avere la tentazione di
scaricare in casa nostra la loro inflazione alla produzione; terzo, perché
se i nostri produttori non vendono dovranno chiudere, è crescerà la
disoccupazione».
La ritirata italiana, però, è in corso da tempo...
«E´ colpa di illustri soggetti imprenditoriali, che hanno risolto le loro
difficoltà facendo cassa a spese dell´alimentare. Nessuno ha pensato che la
distribuzione è un settore strategico per un Paese moderno. Io penso che
una delle priorità di una nazione evoluta sia l´indipendenza commerciale.
In Spagna, Portogallo, e Grecia ormai quasi il 100% della distribuzione è
in mano straniera»
Repubblica, 29 dicembre 2003
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tratto da Green Planet - 17/01/04
L'ALIMENTARE GUADAGNA SEMPRE MENO
Heinz vuole cedere Scaldasole, in cerca di acquirente anche Yomo, Del
Monte, Cirio, De Rica, Bertolli.

«È tutto un mondo che si è messo in vendita. Peccato che ora ci siano pochi
compratori pronti ad acquistare».
Parola di Gianni Tamburi, banchiere d'affari, fondatore della Tamburi &
Associati, che sintetizza così la situazione dell'industria alimentare made
in Italy.
D'altronde sul mercato c'è un grande affollamento di marchi e di aziende.
Si sa, ad esempio che il colosso americano Heinz vuole cedere Scaldasole,
il numero uno dello yogurt biologico.
Ma è in cerca di un acquirente anche la Yomo controllata dai fratelli Vesely.
Per non parlare delle aziende ex Cragnotti dove spiccano marchi come Del
Monte, Cirio, De Rica, Bertolli.
Parmalat, a parte, quindi, sono tanti i brand in difficoltà. E non si
tratta solo di latte e latticini. Oggi, infatti, sembra proprio che far
soldi con la pasta o con i salumi, con il vino e con l'olio sia diventato
sempre difficile.
Anche un imprenditore accorto come Giulio Malgara, ad esempio, ha deciso di
ridurre il suo perimetro di business vendendo la Negroni prima e
successivamente l'Olio Cuore.
Lo stesso Barilla non ha vita facile nel risanamento della tedesca Kamps
che si sta rivelando più difficile del previsto. Quanto a Ferrero, ai primi
posti dell'hitparade europea del dolce, sono in pochi a scommettere che nel
2003 confermerà i buoni risultati di bilancio dell'anno precedente.
E allora?
«Quello che sta accadendo nel settore alimentare», spiega Tamburi, «è
purtroppo molto semplice. Da una parte la grande distribuzione punta a
dilazionare sempre più i pagamenti, mentre dall'altra le aziende di marca
stanno subendo la concorrenza delle "marche private" dei supermercati
stessi».
Se a questa diagnosi aggiungiamo la crisi dei consumi lo scenario è
completo. D'altronde basta fare un giro fra i banconi di un qualsiasi
supermarket per rendersi conto della situazione: le "marche private" stanno
scacciando dalle posizioni migliori i brand più blasonati.
Ce n'è abbastanza, dunque, per spiegare i motivi di alcune crisi aziendali
come quella della Yomo, un nome che da mezzo secolo s'identifica con
l'immagine dello yogurt in Italia, ma anche un'azienda che ha chiuso il
2003 con perdite stimate attorno ai 10 milioni di euro (un'altra decina di
milioni era stata bruciata nel 2002) su 240 milioni di giro d'affari.
Si tratta inoltre di un gruppo esposto per circa 80 milioni con le banche
che premono per una soluzione positiva: la vendita oppure l'ingresso di un
nuovo socio capace di mettere mano al portafoglio per rilanciare l'azienda
risanando la situazione finanziaria.
Una conclusione che sta a cuore soprattutto a Banca Intesa, che ha avuto in
pegno dalla famiglia Vesely il 94 per cento del pacchetto azionario della
Yomo stessa.
Fino ad oggi al capezzale di Yomo, assistito dall'advisor Abaxbank si
sarebbero succeduti diversi candidati internazionali, dalla francese
Yoplait alla svizzera Emmi. In pista ci sarebbero anche dei partner
finanziari.
Ma per adesso i contatti non sono ancora sfociati in un accordo. È dunque
impossibile far profitti nel settore alimentare in Italia? Per fortuna ci
sono delle importanti eccezioni. Emblematico il settore degli alcolici con
Campari e Branca che macinano utili.
Mentre nel comparto del latte la vicenda Granarolo conferma che una società
ben gestita, capace di equilibrare prudenza nella gestione con
l'innovazione di prodotto può ottenere buoni risultati.
E candidarsi all'acquisto di quei «rami d'azienda» di Parmalat nel segmento
del latte fresco che si trovano in Italia. «A patto che queste operazioni»,
osserva Luciano Sita, presidente della Granarolo, «vengano approvate
dall'Antitrust».
In ogni caso Granarolo punta soprattutto sulla cresciuta interna. Nel 2003
l'azienda ha fatturato 720 milioni (circa 685 milioni nel 2002) con una
ventina di milioni di utili prima delle tasse.
Un traguardo raggiunto migliorando la posizione finanziaria netta da 177
milioni nel 2002 a 167 milioni nel settembre 2003 e ristrutturando il
debito con l'azzeramento dell'esposizione a breve.
Repubblica Affari e finanza, 12 gennaio 2004

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