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lettera marzo-aprile



Un rapporto della FAO, pubblicato negli scorsi giorni da ben pochi giornali 
italiani, riferisce che da un anno e mezzo, i bambini palestinesi nascono 
mediamente “sotto peso” e che il fenomeno tende ad aggravarsi. La 
disoccupazione dei capi-famiglia a causa del blocco delle frontiere, la 
perdita delle entrate da turismo a Betlemme, le crudelissime punizioni 
collettive inflitte dagli occupanti per ogni atto non solo di terrorismo ma 
anche di ribellione, l’abbattimento di ulivi e la distruzione di 
coltivazioni per la costruzione di insediamenti o di strade per coloni, 
tutto ciò ha imposto al popolo palestinese la Fame, quella che bisogna 
scrivere con la F maiuscola perché è ormai un fenomeno di massa. Si badi: 
il rapporto non tiene conto, naturalmente, di quanto è accaduto nei due 
mesi della furia colonialista israeliana, in cui intere famiglie sono state 
costrette dai coprifuoco e dai bombardamenti a rimanere in casa per giorni 
e giorni senza potere acquistare cibo né ricevere cure mediche. Certamente 
il fenomeno si è grandemente aggravato.
Questa notizia, dunque, si proietta nel futuro, ci mostra ancora una volta 
come le guerre non finiscano mai con la firma degli armistizî, si 
prolunghino nelle devastazioni della natura, e nella carne e nella psiche 
delle persone. A esserne più crudelmente colpiti, naturalmente, sono i 
bambini. Quali gli effetti di tanta violenza, su di loro? C’è qualcuno fra 
i Grandi della Terra che si ponga questa domanda, la quale segnala un 
problema di fatale importanza per l’avvenire del Medio Oriente?
Mentre scrivo (è il 7 maggio), non si sa ancora se le truppe di Israele si 
siano ritirate da Betlemme, ma certamente rimangono come un cerchio 
minaccioso intorno alle città sventrate dai loro carri armati; a Tulkarem 
si odono esplosioni, intorno vi sono villaggi “sigillati” da quaranta 
giorni. Si parla di una conferenza di pace alla quale dovrebbero 
partecipare, insieme a Israele e all’Autorità palestinese, gli Stati Uniti, 
l’Unione europea, la Russia e l’ONU, ma questa speranza (esile quanto i 
corpicini di quei neonati), si muove come un fantasma fra campi profughi 
sistematicamente demoliti, famiglie cui sono stati strappati i maschi 
(uomini e bambini: per Israele i palestinesi sono da considerare adulti a 
12 anni), ospedali scuole posti di polizia rete elettrica e telefonica 
demoliti con furia, strade divelte, negozi devastati. Di più, e peggio: 
Sharon sa di poter contare sul totale aiuto americano (mai compare si 
assunse così sfacciatamente il titolo di mediatore!) e sulla dimostrata 
incapacità delle potenze europee di tenere testa al connubio fra Israele e 
Stati Uniti.
La propaganda sionista riprende fiato, sorretta dalle sue vittorie: quella 
sul campo, con la repressione colonialista dei moti palestinesi e quella al 
Congresso americano. Non c’è dubbio che Sharon porterà prove convincenti 
sulle responsabilità di Arafat nel terrorismo: i servizi segreti israeliani 
hanno sempre fatto scuola ai loro colleghi d’altri paesi e  stanno 
“lavorandosi” nelle loro stanze di tortura non pochi dirigenti palestinesi. 
L’opinione pubblica internazionale, del resto, chiede di pensare ad altro: 
quella americana è automaticamente a favore di Israele, grazie alla 
propaganda di una lobby ricchissima di soldi, amicizie e voti elettorali, e 
guarda all’offensiva planetaria antiterrorista scatenata da Bush come a un 
diabolico calderone in cui vanno bolliti nella pece, tutti insieme, 
palestinesi, iracheni, afghani, ceceni, curdi ecc.; quanto all’opinione 
pubblica europea, e in particolare quella italiana, si sente “di sangue 
lorda” e ne è stanca;  è rimasta turbata e quasi indispettita nel vedere 
sui teleschermi che gli israeliani non  erano poi i grandi eroi 
“occidentali” cui film e giornali li avevano, in altri tempi, abituati a 
credere, e questo le è costato psicologicamente. A differenza di quello che 
affermano i sionisti, due generazioni di italiani scolarizzati (o almeno la 
grande maggioranza di due generazioni) hanno imparato e interiorizzato il 
rifiuto dell’antigiudaismo e dunque trovano difficile prendere le distanze 
da Israele.
Voglio dirlo apertamente. La consapevolezza che la Shoah è stata una 
mostruosa nefandezza europea e che noi europei ne siamo tutti, in qualche 
misura, eredi, non mi abbandona mai (ne ho scritto anche nel mio romanzo di 
recente pubblicazione). In queste ultime settimane, mentre parlavo e 
scrivevo (mentre parlo e scrivo) contro la furia colonialista di Israele 
ero (sono) spesso colpito dall’angoscia: mi scrutavo, mi scruto con ansia e 
con severità: il popolo ebreo rimane per me un popolo sacrificale da 
guardare con amoroso rispetto? O sono forse, anch’io, trascinato, 
inconsapevolmente, dall’onda secolare dell’antigiudaismo? Ritrovo la 
serenità e mi rispondo: le mie critiche, la mia opposizione vanno a 
Israele-stato colonialista, non a Israele-popolo dell’alleanza, di Mosè e 
di Abramo, dei profeti  e dei lager e del Ghetto di Varsavia; e dei tanti 
pacifisti israeliani e dei tanti cittadini che non chiedono altro che di 
vivere in tranquillità con i loro bambini. Denunziare lo stato di Israele 
come stato ferocemente etnico, questo mi sembra doveroso. Chi ha scelto 
(come pratica di fede e come pratica politica)  di stare, sempre, dalla 
parte dei poveri, non può che rimanere, a fronte alta, accanto ai palestinesi.
*
Anche perché comincia per i palestinesi un periodo persino più tragico dei 
tanti tragici capitoli della loro storia. Tutto lascia pensare che verranno 
trascinati a un tavolo di Grandi dove si cercherà di imporre loro di 
diventare un bantustan, uno stato di appena recitata indipendenza, 
circondato da un “cordone sanitario” che gli impedirà ogni interscambio con 
i paesi vicini e ogni sviluppo economico. Un grande polverone sarà 
certamente sollevato intorno a questa Palestina modellata su misura dei 
diktat di Sharon. Penso perciò che per valutare quello che accadrà sia 
assolutamente necessario tenere fermi alcuni punti incontrovertibili.
Il primo: con buona pace di chi ha sfilato, a Roma o a New York, dietro le 
bandiere con la stella di Davide, nessuno mette più in dubbio l’esistenza 
dello stato di Israele. Per me, come per tanti altri, esso rappresenta la 
fine di un sogno: abbiamo sperato per anni che si potesse giungere alla 
fondazione di una nuova nazione in cui i palestinesi e una parte (gran 
parte) dei discendenti del popolo della Shoah potessero vivere in pace: uno 
stato laico e pacifico, multietnico, multiculturale, attento a onorare la 
responsabilità della custodia di luoghi sacri alle tre grandi religioni 
monoteiste. Così non è stato, ed è inutile, in questo momento, elencare 
colpe ed errori. Lo stato di Israele ormai esiste come una realtà 
consolidata; e protetta, del resto, da apparati militari giganteschi: il 
proprio e quello dell’impero americano. Dire che lo stato di Israele è in 
pericolo è pura e semplice falsità. Ad essere in pericolo, se mai, è il 
popolo israeliano, che si è dato e sorregge tuttora governi colonialisti, 
spietati repressori di un popolo umiliato e offeso da un’occupazione 
militare che si perpetua da trentacinque anni. Due sono i pericoli che 
incombono sul popolo israeliano: il primo, e più evidente, è quello 
rappresentato dall’orrendo terrorismo dei disperati, certamente non 
distrutto (anzi!) con le distruzioni e con la fame imposte a tutti i 
palestinesi; e il secondo, meno evidente, ma anch’esso tristissimo per chi, 
come me, venera la cultura ebraica, quello di trasformarsi in un popolo 
spietatamente violento, della violenza dell’apartheid la quale ha 
immiserito tutti i popoli che l’hanno praticata.
*
Il secondo punto da tenere presente come incontrovertibile è che se nessuno 
discute della sopravvivenza dello stato di Israele, rimane pur sempre il 
fatto che esso è stato eretto sulla spoliazione di un popolo. Per fare 
largo all’immigrazione ebraica e poi alla costituzione di uno stato 
ebraico, centinaia di migliaia di palestinesi sono stati cacciati dalle 
loro terre. Chi in Italia guarda con timore, talvolta addirittura con 
paura, allo sbarco di centinaia di cosiddetti clandestini sulle nostre 
coste, pensi che cos’ha voluto dire per i palestinesi vedere giungere nella 
loro terra decine e decine di migliaia di cittadini di altre nazioni: non 
profughi alla deriva e subito arresi alle nostre forze dell’ordine, ma 
gruppi sostenuti da potentati economici e da sempre più strutturate 
formazioni militari. Lo slogan “Un popolo senza terra per una terra senza 
popolo” è falso, almeno nella sua seconda parte. Dio ci guardi dal parlare 
di complotto giudaico, cavallo di battaglia hitleriano e fascista, ma la 
vera storia dell’immigrazione ebraica in Palestina comincia ad essere 
scritta proprio in Israele, da studiosi che hanno il coraggio della verità 
-  e diverge profondamente dalla propaganda sionista. La grande maggioranza 
degli ebrei europei scampati al massacro europeo e poi di quelli in fuga 
dai regimi dell’Est non chiedeva di andare in Israele: e Roosevelt aveva 
previsto che 500 mila di essi fossero ospitati dagli Stati Uniti e dagli 
altri paesi vincitori; ma Roosevelt morì e il suo successore, Truman, 
dichiarò apertamente che aveva bisogno del voto  di chi (soprattutto i 
grandi banchieri americani) desiderava, per motivi non tutti nobili, la 
costituzione di uno stato israeliano. Quanto all’Europa, essa non chiedeva 
che di liberarsi dal peso dei suoi rimorsi, donando ai superstiti una terra 
non sua. Così nacque Israele, sulla terra e sulla pelle dei palestinesi. Lo 
sterile furore dei governi arabi portò a guerre insensate e devastanti, 
fino a quella del 1967. Da allora il popolo palestinese è uno dei tanti 
popoli “megati” dei quali parla la storia del XX secolo: l’armeno, il 
curdo… Quando celebriamo le Giornate della Memoria dobbiamo porre la storia 
palestinese accanto a quella dei deportati a Babilonia, degli ebrei banditi 
dalla Spagna, o privati della loro cittadinanza in tutta l’Europa. Non 
dobbiamo mai dimenticare che al genocidio degli ebrei l’Europa ha aggiunto, 
con il suo favoreggiamento, la devastazione di un altro popolo semita.
*
Il terzo punto incontrovertibile è il seguente. Arafat sarà più che mai 
incatenato al banco degli imputati, accusato di avere sabotato sempre e 
comunque, ma soprattutto con segreti impulsi, il movimento terroristico. Mi 
guardo bene dal santificare il presidente palestinese: il suo governo si è 
reso responsabile di alcune gravi colpe. Una parte, anche notevole, della 
sua burocrazia di alto e altissimo livello è risultata corrotta, i suoi 
poliziotti hanno compiuto accertate violazioni dei diritti umani, nella 
stretta cerchia dei collaboratori di Arafat stava un’ala “militarista”; e 
tuttavia come si può seriamente sostenere che il presidente avrebbe 
potuto  frenare e arrestare i dirigenti di movimenti popolari le cui radici 
affondano nella disperazione delle masse mentre gli israeliani 
distruggevano sistematicamente le caserme della sua polizia e, giorno dopo 
giorno, lanciavano missili per colpire “i capi dei terroristi”, per  strada 
o nelle loro abitazioni, con grande spargimento di sangue innocente ? Come 
si può seriamente sostenere che egli avrebbe dovuto custodire nelle carceri 
eventuali imputati di terrorismo se Israele bombardava le carceri? E la 
pretesa  che egli frenasse il terrorismo è diventata una barzelletta di 
humour noir quando è stata posta a un Arafat incarcerato dai carri armati, 
costretto, per raggiungere l’esterno, a  usare i telefonini dei coraggiosi 
pacifisti che riuscivano a violare la sua reclusione.
Il quarto punto. Arafat viene imputato di avere ostacolato, con le sue 
pretese, il processo di pace. In realtà, gli accordi di Oslo segnano una 
resa dei palestinesi alla realpolitik, essi finiscono per accontentarsi di 
una qualche indipendenza in un piccola parte dei territori occupati e poco 
più. Ma da Oslo in poi Israele moltiplica i suoi insediamenti di coloni in 
quei territori: quegli insediamenti che sono chiodi piantati nella carne 
viva della Palestina crocifissa da decenni di violenza di stato. E’ una 
violenza che si esprime, sempre maggiormente, come guerra del Nord contro 
il Sud dei poveri, del capitalismo (così dominante nella lobby 
filo-israeliana degli Stati Uniti) contro i popoli-esuberi, ai quali non va 
consentita se non una “riserva indiana” e una silenziosa sottomissione in 
cambio di coperte e di viveri.
*
Niente di tutto questo va dimenticato. E niente va dato per definitivamente 
perduto. Dobbiamo testimoniare con testarda lucidità la nostra solidarietà 
a un popolo sacrificato sull’altare di un nazionalismo bigotto, di un 
colonialismo che nel XXI secolo appare, come i colonialismi dei secoli XIX 
e XX, ottuso e feroce. Dobbiamo risolutamente e apertamente condannare 
tutti i terrorismi: quelli di Hamas e della Jahad e quello dello stato di 
Israele. Come abbiamo scritto in tremila a Prodi: “Noi piangiamo con la 
stessa tenerezza i bambini palestinesi e i bambini israeliani massacrati 
dal terrorismo; ma notiamo poi che migliaia di bambini palestinesi sono 
stati feriti o mutilati da armi da guerra nelle spietate punizioni 
collettive inflitte dal governo israeliano alla popolazione palestinese in 
totale contrasto con ogni norma di diritto internazionale e con pieno 
disprezzo per i diritti umani. Migliaia di bambini palestinesi sono stati 
arrestati o deportati nel corso degli ultimi 18 mesi, e nel corso delle 
ultime settimane il loro numero è enormemente aumentato (…).
“Le armi non fanno che servire ideologie di violenza. La sicurezza del 
popolo israeliano, che a noi appare tanto importante quanto quella del 
popolo palestinese, non può essere assicurata se non da una pacificazione 
degli animi. che, a sua volta, non può avvenire se Israele non si ritira 
dai territori occupati (…).
“Noi pensiamo che Lei e noi saremo ricordati dalla storia per ciò che 
avremo fatto (o non avremo fatto) in queste ore per la difesa del popolo 
palestinese così violentemente colpito. L’Europa, che si porta dietro tante 
responsabilità nella orrenda persecuzione degli ebrei e che ha rovesciato 
sui palestinesi la sua ansia di riparazione, non può adesso rimanere a 
guardare il massacro delle libertà di un altro popolo”.
ettore masina

P.S. n.! Chiedo scusa se nei mesi di marzo e di aprile non vi ho inviato 
LETTERA. La mia trascuratezza è da imputarsi ai miei frequenti spostamenti 
(a San Tomato di Pistoia e a Trento per commemorare mons, Romero; a Rimini 
per il convegno nazionale della Rete Radiè Resch, durante il quale ho 
ricordato Turoldo, Balducci e Tonino  Bello, sull’Appennino reggiano per 
parlare, a Cerfarezza e a Castelnuovo de’ Monti, della tragedia 
palestinese); ma soprattutto è dovuta al fatto che vi ho, me ne rendo 
conto, allagato di documenti sulla Palestina (e non solo) e mi sembrava 
eccessivo mandarvi anche LETTERA…
P.S. n.2. Avrete capito, dal fatto che ve ne ho inflitto la pubblicità, che 
tengo straordinariamente al romanzo che ho recentemente pubblicato (”Il 
Vincere”, ed. San Paolo). Adesso sono costretto a riscontrare che la 
diffusione del mio libro è ostacolata da un vero e proprio boicottaggio, 
ancorché, probabilmente, quasi automatico e inconsapevole, da parte delle 
librerie laiche nei confronti di una editrice “cattolica” (oltre che da 
disfunzioni del sistema di distribuzione di tale editrice). Sarò dunque 
molto riconoscente a chi vorrà segnalarmi eventuali difficoltà 
sperimentate  nella ricerca del libro.
e.m.