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La realtà delle armi all'uranio impoverito
La realtà delle armi all'uranio impoverito
Da le Monde
Golfo, Kosovo, Afghanistan: di guerra in guerra, l'esercito americano
continua a perfezionare le sue armi all'uranio impoverito. Il pericolo per
gli esseri umani e per la natura diventa sempre più evidente, malgrado il
black-out organizzato dal Pentagono
di ROBERT JAMES PARSON *
«La preoccupazione immediata di medici, rappresentanti delle organizzazioni
umanitarie e di chi dà lavoro agli esuli sul posto è la minaccia di una
vasta contaminazione da uranio impoverito in Afghanistan.» Con queste parole
si conclude un rapporto di ben 130 pagine intitolato Mystery Metal Nightmare
in Afghanistan? - «Incubo da metallo misterioso in Afghanistan?» - (1), di
Dai Williams, ricercatore britannico indipendente e psicologo specialista in
condizioni del lavoro. Il testo è frutto di oltre un anno di ricerca tenace
sulla questione dell'uranio impoverito (Ui), sugli effetti e le conseguenze
del suo utilizzo sugli esseri umani.
Basandosi su siti web ufficiali (2) e su quelli dei fabbricanti d'armi, Dai
Williams ha potuto scovare informazioni preziose, analizzarle minuziosamente
e infine metterle a confronto con le armi la cui utilizzazione è stata
comunicata, anzi vantata, dal Pentagono. Ne emerge una visione della
guerra - sia quella in Afghanistan che quelle prossime venture -
sorprendente e spaventosa al tempo stesso.
Dal 1997, gli Stati uniti rielaborano e «migliorano» il loro arsenale di
missili e di bombe guidate e «intelligenti». Già nel 1999 alcuni prototipi
di queste armi sono stati testati sulle montagne del Kosovo, ma la quantità
sperimentata in Afghanistan è ben più corposa. Il «miglioramento» di cui si
parla riguarda in effetti la sostituzione di una testata convenzionale con
una in «metallo pesante denso» (3).
Calcolando volume e peso del misterioso metallo, si arriva a due possibili
conclusioni: si tratta o di tungsteno o di uranio impoverito.
Il tungsteno, tuttavia, pone alcuni problemi. Il suo alto punto di fusione
(3.422°C) lo rende difficile da lavorare; costa caro; è prodotto soprattutto
in Cina; non brucia.
Da vero piroforo, l'Ui invece brucia con l'impatto o se gli si dà fuoco. Con
un punto di fusione di 1.132 °C è molto più facile da lavorare. Trattandosi
di uno scarto nucleare, è fornito gratuitamente ai fabbricanti d'armi.
Inoltre, il fatto che lo si possa utilizzare in una vasta gamma di armi
permette di ridurre sensibilmente il problema della conservazione dei
rifiuti nucleari.
Questo tipo di arma può perforare, in pochi secondi, decine di metri di
cemento armato o di roccia. Una testata all'Ui, munita di un detonatore
regolato da computer in grado di misurare la densità del materiale
penetrato, diventa una carica esplosiva che scoppia ad una profondità
prestabilita o quando arriva nel «vuoto». In pochi secondi, tutto ciò che si
trova in questo «vuoto» viene ridotto allo stato di fine polvere nera per la
combustione dell'Ui. E questo si trasforma a sua volta in polvere di ossido
di uranio. Mentre per un «penetratore» da 30 millimetri si ossida solo il
30% dell'Ui, nel caso di un missile l'ossidazione può arrivare al 100%. E la
maggior parte delle polveri così prodotte misura meno di 1,5 micron: sono
quindi respirabili.
La polemica apertasi tra i pochi ricercatori specializzati in questo settore
circa l'uso di armi all'Ui nel corso della guerra del Kosovo, nel tempo
aveva finito col perdere di vista il suo obiettivo. Invece di chiedersi
quali armi sarebbero state utilizzate sulla maggior parte dei bersagli
(sotterranei in montagna) ammessi dalla Nato, era stata privilegiata la
questione degli anticarro da 30 mm accettati dalla Nato, ma privi di effetto
contro le installazioni sotterranee fortificate/rinforzate.
Finché il dibattito si è limitato agli anticarro, si stava comunque parlando
di ordigni di cui i più pesanti (da 120 mm) non superano i cinque chili. Ma
le cariche esplosive all'Ui, dei sistemi di bombe guidate utilizzate in
Afghanistan, arrivano fino ad una tonnellata e mezza di Ui nel caso del
bunker buster (Gbu-28) fabbricato dalla Raytheon (4).
A Ginevra, dove sono concentrate le organizzazioni umanitarie attive in
Afghanistan, il rapporto di Dai Williams ha suscitato reazioni molto
diverse. Mentre i portavoce dell'Alto commissariato delle Nazioni unite per
i rifugiati (Acnur) e l'Organizzazione per il coordinamento degli aiuti
umanitari si sono preoccupati di diffonderlo, i principali dirigenti non
sono sembrati preoccupati. Solo Medici senza frontiere e il Programma delle
Nazioni unite per l'ambiente (Unep) temono, a lungo termine, una catastrofe
sanitaria e ambientale.
L'Unep e l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) hanno pubblicato,
rispettivamente in marzo e in aprile 2001, importanti rapporti. A questi
fanno continuo riferimento i sostenitori del carattere inoffensivo dell'Ui,
primo fra tutti il Pentagono, il quale sottolinea l'indipendenza e la
neutralità delle due organizzazioni. Ma lo studio dell'Unep è quanto meno
incompleto, mentre quello dell'Oms decisamente poco affidabile.
Il sopralluogo in Kosovo a partire dal quale l'Unep ha elaborato la sua
analisi è stato organizzato sulla base di carte fornite dalla Nato, le cui
truppe accompagnavano i ricercatori per proteggerli dalle munizioni
inesplose, incluse le parti residue delle bombe a frammentazione. Con ogni
probabilità, erano queste - ha scoperto Dai Williams - a contenere cariche
vuote all'Ui. Le truppe Nato, impedendo ogni contatto dell'équipe con questi
residui, non le avrebbero dunque permesso di scoprirne l'esistenza.
Tanto più che - come si è saputo - nel corso dei sedici mesi precedenti la
visita dell'Unep, il Pentagono aveva inviato nella zona almeno dieci équipe
di controllo, che avevano lavorato duramente per fare pulizia (5). Sugli
8.122 «perforanti» anticarro tirati sui siti visitati, l'Unep ne ha
recuperati solo undici, malgrado un tasso piuttosto elevato di esplosioni
mancate. E la quantità di polveri prelevate direttamente nei punti che si
riteneva fossero stati colpiti da queste armi, a diciotto, venti mesi di
distanza dalla loro utilizzazione, è risultata molto scarsa.
«Zone di sacrificio nazionale» Quanto all'Oms, non ha condotto alcuno studio
epidemiologico degno di questo nome, ma una semplice ricerca accademica.
Cedendo alle pressioni dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica, si
è limitata a studiare l'Ui come metallo pesante chimicamente contaminante.
Informata, nel gennaio 2001, dell'imminente pubblicazione di un articolo di
fondo che metteva in discussione il suo silenzio (6), l'Oms ha organizzato
una conferenza stampa per annunciare la creazione di un fondo, dotato
inizialmente di due milioni di dollari - e a breve termine di venti
milioni - , per la ricerca sull'Ui. Secondo il dottor Michael Repacholi, il
rapporto sull'argomento, in cantiere dall'agosto 1999 e affidato al geologo
britannico Barry Smith, si sarebbe esteso al problema della contaminazione
radioattiva. Gli studi preliminari, a suo dire, avrebbero comportato analisi
delle urine di persone esposte all'Ui, condotte in modo da stabilire il
livello di esposizione.
Ma la «monografia» in questione, resa pubblica una decina di settimane più
tardi, non era altro che una panoramica di una selezione della letteratura
esistente. Delle centinaia di migliaia di monografie, pubblicate dalla fine
della seconda guerra mondiale, che avrebbero dovuto essere studiate, il
rapporto prendeva in considerazione - con poche eccezioni - solo quelle
riguardanti la contaminazione chimica.
Sulla contaminazione radioattiva erano stati consultati pochissimi articoli
e tutti provenienti dal Pentagono o dalla Rand Corporation, fonte
ispiratrice del Pentagono. In queste condizioni, non stupisce che il testo
non abbia suscitato alcuna preoccupazione.
Le raccomandazioni dei due rapporti, poi, si limitavano a richiamarsi al
buon senso, senza discostarsi dai consigli già formulati dall'Oms dopo la
fine della guerra - e ripetuti costantemente dalle organizzazioni umanitarie
attive sul campo. Si raccomanda, per esempio, di marcare i siti conosciuti,
di raccogliere nella misura del possibile i perforanti anticarro, di stare
particolarmente attenti ai bambini per evitare che si avvicinino ai siti
contaminati, di sorvegliare, eventualmente, l'acqua di alcuni pozzi, ecc.
L'essenza del problema si riassume in due punti chiave: ¥ la radiazione
emessa dall'Ui costituisce una minaccia per l'organismo in quanto, una volta
inalate le polveri, diventa una fonte interna.
Ma le norme di protezione internazionale contro le radiazioni - a cui fanno
riferimento gli «esperti» per affermare che l'Ui è inoffensivo - trattano
solo di radiazioni di provenienza esterna; ¥ la questione dell'«uranio
sporco», che il rapporto dell'Unep ha il merito di avere sollevato. In
effetti, l'uranio delle centrali nucleari, ritrattato per essere utilizzato
come munizione, contiene molti elementi altamente tossici come, per esempio,
il plutonio.
Con 1,6 kg di questa sostanza si potrebbero uccidere otto miliardi di
persone. Più che di uranio impoverito, sarebbe quindi più giusto parlare di
«uranio plus».
In un documentario presentato da Canal + nel gennaio 2001 (7), un'équipe di
ricercatori francesi ha presentato i risultati di un'inchiesta condotta
nella fabbrica di ritrattamento di Paducah, nel Kentucky.
Secondo l'avvocato dei circa 100.000 querelanti, operai in servizio e in
pensione, tutti contaminati per flagrante inosservanza delle più elementari
norme di sicurezza, l'intera fabbrica e tutta la sua produzione è
irreparabilmente contaminata. Secondo gli investigatori, proprio da questa
installazione proverrebbe l'Ui dei missili lanciati su Jugoslavia,
Afghanistan e Iraq (8).
Queste armi rappresentano molto più che un nuovo strumento per guerre
moderne. Il programma di riarmo americano, lanciato dal presidente Ronald
Reagan, si basa sulla convinzione che il vincitore dei nuovi conflitti sia
quello che distrugge più efficacemente i centri di comando e di
comunicazione del nemico. Ma questi si trovano quasi sempre sotto terra, in
bunker rinforzati.
Certo, un bombardamento nucleare potrebbe avere ragione del cemento armato,
ma produrrebbe radiazioni che lo stesso Pentagono definisce spaventose e
avrebbe poi pesanti ricadute sulle relazioni pubbliche, in un mondo sempre
più sensibile ai pericoli di una guerra nucleare.
Appare allora più consono il ricorso ad una testata all'Ui, dal momento che
scatena solo un incendio, incomparabile con le conseguenze di un'esplosione
nucleare, ma con una potenza distruttrice altrettanto forte.
Le informazioni raccolte da Dai Williams dimostrano che gli Stati uniti,
dopo aver compiuto test su computer nel 1987 (9), hanno sperimentato per la
prima volta questi ordigni nel 1991, contro Baghdad. La guerra nel Kosovo ha
poi dato loro la possibilità di provare le armi all'Ui, prototipi o già in
produzione, su bersagli di estrema durezza. L'Afghanistan permetterà di
estendere e prolungare questi studi.
Ma anche all'interno del Pentagono non tutto è chiaro. Dai Willliams cita
molti articoli usciti sulla stampa all'inizio di dicembre (10) che parlano
di équipe Nbc (nucleare-biologico-chimico) mandate sul campo per verificare
eventuali contaminazioni. Queste, secondo gli Stati uniti, sarebbero
imputabili ai taliban, ma, sin dall'ottobre 2001, i medici afghani, di
fronte ad alcune morti rapide, apparentemente dovute a disturbi interni,
accusano la coalizione di utilizzare armi chimiche. I sintomi evidenziati
(emorragie, difficoltà respiratorie, vomito) fanno pensare ad una
contaminazione radioattiva.
Il 5 dicembre 2001, quando una bomba colpisce malauguratamente alcuni
soldati della coalizione, tutti gli inviati dei media sono immediatamente
prelevati e rinchiusi in un hangar. Secondo il Pentagono, si trattava di una
Gbu-31 armata con una testata Blu-109. Nel documentario di Canal +, viene
intervistato il rappresentante di un fabbricante d'armi presente alla fiera
internazionale delle armi tenutasi a Dubai il 14 novembre 1999, dopo la
guerra del Kosovo. Costui presenta la testata Blu-109 e descrive le sue
capacità di penetrazione contro bersagli sotterranei fortificati e
rinforzati, precisando che l'arma era stata appena testata in una guerra...
Il 16 gennaio scorso, il segretario americano alla difesa, Donald Rumsfeld,
ha ammesso che gli Stati uniti hanno trovato tracce di radioattività in
Afghanistan (11). Ma ha garantito che si trattava solo di testate all'Ui,
senza dubbio appartenenti ad al Qaeda, senza tuttavia spiegare come questa
organizzazione, sprovvista d'aerei, abbia potuto lanciarle. Su questo punto
Dai Williams conferma che, anche se la coalizione non si fosse assolutamente
servita di armi all'uranio impoverito, quelle utilizzate dal gruppo di Osama
bin Laden rappresenterebbero da sole una notevole fonte di contaminazione,
soprattutto se provenienti dalla Russia: in questo caso, l'Ui potrebbe
essere addirittura più «sporco» di quello di Paducah.
A seguito delle sue inchieste nei Balcani, l'Unep ha creato una unità di
valutazione dopo - conflitto, il cui direttore Henrik Slotte si dichiara
pronto ad intervenire sul campo in Afghanistan appena possibile, a
condizione che la sicurezza sia sufficientemente garantita, l'accesso alle
zone interessate assicurato e l'operazione convenientemente finanziata.
L'Oms, al contrario, si è chiusa in mutismo totale. Alle domande rivolte a
Jon Lidon, portavoce della direttrice generale Gro Harlem Brundtland, sullo
stato del fondo per la ricerca sull'Ui, l'organizzazione non si è degnata di
rispondere.
Secondo Dai Williams, però, gli studi epidemiologici dovrebbero cominciare
immediatamente, per evitare che chi ha subito esposizioni massicce muoia e
il suo decesso sia attribuito al rigore dell'inverno in un paese appena
uscito da due decenni di guerre.
Nella contea di Jefferson (Indiana), il Pentagono ha chiuso un poligono di
tiro di circa 80 ettari dove un tempo testava obici all'Ui. Il preventivo
più basso per bonificare la zona ammonta a 7,8 miliardi di dollari - senza
contare lo stoccaggio perenne di uno spessore di sei metri di terra e la
vegetazione da eliminare. Ritenendo il prezzo troppo alto, l'esercito ha
cercato altre soluzioni e ha infine deciso di offrire il terreno al servizio
dei parchi nazionali per crearvi una riserva naturale, offerta che è stata
rifiutata. Ora si dice che l'ex poligono di tiro sarà riconosciuto «zona di
sacrificio nazionale» con conseguente divieto di accesso in eterno! Ecco una
notizia che chiarisce quale sarà il futuro delle diverse zone del pianeta in
cui gli Stati uniti hanno utilizzato e utilizzeranno armi all'uranio
impoverito.
note:
* Giornalista, Ginevra.
(1) www.eoslifework.co.uk/du2012.htm
(2) I siti web di Janes Defense Information (www.janes.com), della
Federation of American Scientists (www.fas.org), del Centre for Defense
Information (ww.cdi.org).
(3) Vedere www.fas.org/man/dod-101/sys/ smart/hdbtdc.htm
(4) Vedere www.fas.org/man/dod-101/sys/ smart/ e
www.usatoday.com/graphics/news/gra/ gbuster/ frame.htm
(5) Chronology of environmental sampling in the Balkans,
www.deploymentlink.osd.mil/ du_balkans
(6) «Silenzi e menzogne sull'uranio impoverito», Le monde diplomatique/il
manifesto, febbraio 2001.
(7) La Guerre radioactive secrète di Martin Meissonnier, Roger Trilling,
Guillaume d'Alessandro e Luc Hermann, l'inchiesta presentata nel febbraio
2000, è stata attualizzata e trasmessa nuovamente nel gennaio 2001 con il
titolo L'Uranium appauvri, nous avons retrouvé l'usine contaminée, di Roger
Trilling e Luc Hermann.
(8) Si legga Naïma Lefkir Lafitte e Roland Lafitte, «Armi radioattive contro
il "nemico iracheno"», Le Monde diplomatique/il manifesto, aprile 1995.
(9) The Use of Modeling and Simulation in the Planning of Attacks on Iraqi
Chemical and Biological Warfare Targets: www.gulflink.osd.mil/aircampaign
(10) Si legga in particolare «New Evidence is Adding to US Fears of Al-Qaida
Dirty Bomb», International Herald Tribune, 5 dicembre 2001; «Uranium
Reportedly Found in Tunnel Complex», USA Today, 24 dicembre 2001.
(11) U.S. Says More Weapons Sites Found in Afghanistan, Reuters, 16 gennaio
2002.
(Traduzione di G. P.)