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Quale movimento?
Nonluoghi cerca di contribuire, anche mediante il suo sito Web, al dibattito
critico sui contenuti e sulle prospettive del "movimento" contro la
globalizzazione neoliberista.
Qui sotto inviamo l'ultimo contributo pubblicato nel sito: un articolo di
Vittorio Giacopini intitolato: "Scegli il tuo nemico. Ipotesi sul “movimento”,
la globalizzazione, la politica".
Per leggere gli altri interventi (e questo stesso corredato delle parti
ipertestuali) basta andare a www.nonluoghi.it oppure www.nonluoghi.org.
Ciao.
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Scegli il tuo nemico.
Ipotesi sul “movimento”, la globalizzazione, la politica...
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di VITTORIO GIACOPINI
"Seattle” è stata l’unica grande novità politica e morale degli ultimi anni.
Non staremmo tanto a discuterne se non fosse vero. Anche al di là delle
intenzioni, della consapevolezza dei suoi protagonisti, Seattle ha
rappresentato una cesura. Un fatto nuovo nel mondo. È vero che certe immagini
diventano subito slogan, finiscono per cristallizzarsi in stereotipi. Il
movimento contro la globalizzazione. Il popolo di seattle. La riscoperta della
piazza e della politica. Sono formule di comodo ma non possono annullare
completamente il dato reale. La politica, l’ideologia, le tattiche e le
strategie non sono così importanti. La diffidenza nei confronti dei grandi
poteri transnazionali e delle “corporations”. L’ansia per il futuro della
biosfera, la preoccupazione per l’ambiente. Il rifiuto di un mondo unificato
nel segno della diseguaglianza, dentro uno schema gerarchico. La voglia di
protestare e di ribellarsi. Prima di politica e ideologia, l’elemento che conta
davvero è questo manifestarsi di una “nuova sensibilità”.
È un quadro in chiaroscuro, un quadro ambiguo. Per molti, per troppi,
il “movimento” (già il termine suona vecchio e scontato) sta diventando
l’occasione di recuperare idee già morte e vecchie ricette che non portano più
da nessuna parte. Ma capita sempre. È naturale. La nuova sensibilità espressa
da questa immagine simbolo – “Seattle” – va al di là di questa tentazione di
richiudersi in un antagonismo di maniera. È qualcosa che avverti nell’aria. Al
di là di troppe cadute nella retorica della rivoluzione, di troppe concessioni
a un’idea di sinistra invecchiata e caricaturale, da Seattle in poi si è
aggiunta nel mondo anche un’altra voce. Il desiderio di ribellarsi alle cose
come stanno, alla storia come va. L’ispirazione libertaria. L’energia liberata
nelle manifestazioni di piazza. Nei dibattiti. Nel tentativo di capire e
studiare.
Non staremmo tanto a parlarne se non fosse vero. La novità - scrivono gli
apologeti della globalizzazione - è la grande connessione mondiale sotto il
segno del “mercato” e dei soldi. Del potere. Sappiamo che è vero solo in parte.
L’altra novità è il desiderio della rivolta. Una nuova sensibilità.
2 – Il “movimento” sta sbagliando tutto, quasi tutto. Difficile non
accorgersene. Appuntamenti, scadenze fisse, grandi occasioni per rendersi
visibili e farsi sentire. È abbastanza evidente che la protesta tende a girare
a vuoto. Diventa una cerimonia e un rituale. Il motivo è sotto gli occhi di
tutti. Si manifesta in una dinamica pigra, ripetitiva. Seattle e Davos, Nizza,
Napoli, Quebec City, Genova. Questa ossessione continua di prepararsi per il
prossimo evento è sconcertante. Tra un megasummit e l’altro non succede niente.
Scadenze e appuntamenti continuano monotonamente a deciderli loro. I potenti
del mondo, i governi e le istituzioni internazionali, i banchieri e
le “multinazionali”. Le forze e i soggetti chiave del sistema. Il movimento si
limita a rilanciare. Atti di presenza. Testimonianze. Controvertici e
controsummit. Un’estenuante partita di pingpong. Non sarebbe onesto far finta
di niente. Il calendario del movimento lo decidono gli altri. È, e resta,
saldamente in mano all’avversario. Manifestare, presidiare le piazze, provare a
fare ostruzione. Fare casino. È tutto troppo scontato e rituale. Nel frattempo,
succede poco o niente. Il movimento si ritira nei centri sociali. Si parla
addosso in rete o nelle sue “fanzine”. Aspetta.
3 – I mezzi, i fini, lo “stile” e il linguaggio della protesta, le scelte di
fondo. Nella ritualità di un calendario obbligato si perdono di vista le
questioni reali (un’idea diversa di società, il rifiuto di un modello
violentemente, ottusamente, obbligato di sviluppo) per restare paralizzati
sulla punta di spillo di una discussione metodologica che lascia il tempo che
trova e non serve a niente. In fondo tutto sembra ridursi a questo: come
scendere in piazza, quali azioni innescare, come regolarsi sui temi francamente
poco esaltanti della “violenza” o della “nonviolenza”. D’accordo: le
strumentalizzazione del potere, le lagne dei filistei le conosciamo bene. E
sono ipocrite e inaccettabili. Sono false. Può non essere esaltante ma resta
innegabile. Senza gli scontri di piazza, le vetrine sfasciate, senza la stessa
coazione a ripetere che porta ai soliti attacchi ai MacDonald, senza la
contromitologia dell’hamburger, il “popolo di Seattle” non sarebbe nato.
Nessuno lo avrebbe notato. Nessuno ne avrebbe parlato.
Forse è tempo di cambiare... La retorica dello scontro di piazza sta finendo
per diventare quello che è stato quasi sempre. Un espediente. Una cerimonia.
Non siamo alla “comune di Parigi”. Non stiamo nella “Barcellona” della Guerra
di Spagna. Non stiamo neppure a Bucarest o a Timisoara. E anche se un conto è
la violenza contro le cose e gli oggetti, un’altra l’aggressione fisica contro
persone vive e in carne ed ossa, è difficile sottrarsi all’impressione che la
strada della violenza sia diventata un vicolo cieco. E forse di peggio. Una
scorciatoia di comodo. Un gesto di rito. La ripetizione di gesti scontati. Una
scorciatoia e una consolazione. Un surrogato mediocre dell’azione.
Sfasciare le vetrine di Macdonald (o le statue di Budda) lascia il tempo che
trova. Non è una tragedia ma un sotterfugio. Durante il ’68, a Parigi, Julio
Cortazar aveva elogiato l’immaginazione sociologica degli studenti. La
creatività politica, l’intelligenza della provocazione. Gli studenti
inventavano sotto i suoi occhi una grammatica della rivolta che non c’era mai
stata. “Nessuno -scriveva – ha insegnato loro a fare ciò che stanno facendo…
Qualcosa di simile a una sorgente di vita, un immenso amore pieno di rabbia si
è levato al di sopra dei non conformismi a metà, della torre di controllo della
tecnocrazia…Non è il momento di spiegare o definire questa rivolta contro tutti
gli schemi stabiliti; la sua sola esistenza, la forma incontenibile in cui si
manifesta bastano e avanzano a dimostrarne validità e verità”.
Francamente non potremmo ripetere le stesse frasi senza prenderci in giro.
Obbiettivi scontati, occasione e scadenze determinate dall’alto, mediocre
retorica da casseur, lotte trite e banali, prevedibili. I “non conformismi a
metà” riguardano il movimento più da vicino di quanto non si creda. Il “Che”
evocato dagli studenti elogiati da Cortazar non era ancora un’icona o un
simbolo morto.
Oggi ci trastulliamo con le immagini imbalsamate di figure irrigidite nel
mito, sterilizzate e mistificate: ancora il “Che”, la figura messianica e
equivoca di Marcos, le guasconate di José Bové. Gli “schemi stabiliti” oggi
sono anche quelli di una rivolta che si spaccia per la rivoluzione. Senza
nemmeno accorgersi che l’immaginazione e il pensiero critico, l’irriverenza di
maniera, l’anticonformismo sono improvvisamente slittati dall’altra parte.
Nessuno usa tanto la parola “rivoluzione” come i creativi della pubblicità, i
santoni della new economy, gli spericolati avventurieri del Nasdaq. Ci
sono “due” Seattle. Quella del “popolo” e quella di Bill Gates. Nel
contrappunto ossessivo che intreccia le litanie del potere alla voce ancora
incerta dei contropoteri non è detto che innovazione e fantasia, capacità di
civettare con il codice della protesta e della sovversione siano appannaggio di
una parte sola. Il quadro resta ambiguo e sfumato. Ricco di zone d’ombra e
chiaroscuri.
4 – Il movimento non dovrebbe esistere. Se il nemico è un certo modello di
globalizzazione, non dovrebbe esistere. Esagero ma solo per spiegarmi meglio.
Lo so che i grandi eventi, le grandi manifestazioni, le prove di forza sono
indispensabili. O almeno, lo sono state. Come inizio. Come precedente. Ma se il
nemico è quello, essere presenti come un grande, immaginario, soggetto
mondiale, rischia di essere una stupida beffa e un paradosso controproducente.
Il “movimento” sta coltivando un’immagine di sè falsata e consolatoria.
Il “Popolo di Seattle”, la “Società civile mondiale”, l’invocazione di
un “governo mondiale” di segno opposto a quello, indecente, della “cupola” del
capitalismo: Wto, G8, banca mondiale, stati uniti. La globalizzazione,
qualsiasi cosa sia, non è un fatto ma resta un processo. La protesta riguarda
una catena di effetti che forse non hanno un centro ma si ripercuotono ovunque
senza scampo. Lo scarto incommensurabile tra chi governa (in lontanissime
stanze dei bottoni) e chi è governato: qui e adesso, nelle nostre città, nelle
comunità locali, in misteriosi villaggi dell’estremo oriente o nelle capanne di
fango dello Zimbabwe. La colonizzazione degli stili di vita. L’impossibilità di
decidere del destino della propria comunità senza doverci misurare con questa
presenza occulta e invadente. Il ricatto e il condizionamento dei consumi.
L’effetto farfalla che dalle scelte di pochi potenti della terra barricati in
un Hotel di Seattle o di Quebec City tende a incidere sulle condizioni concrete
della nostra vita quotidiana. Sull’aria che respiriamo. Sulla temperatura del
pianeta. Sulla qualità delle acque o del cibo.
Contro tutto questo, nessun movimento “globale” ha alcuna chance di fare
qualcosa. La globalizzazione (intesa in questi termini) viene a cercarti fuori
dalla porta di casa. Anzi, ti entra in casa. È quello che mangi. È come ti
vesti. Sono le macchine e il traffico che inquinano il tuo quartiere. E sono i
tuoi bambini rincretiniti dalla televisione. Barricati in un appartamento
perché fuori non c’è spazio per loro. Non ci sono campi da gioco o strade
sicure. Lo sai: quello che conta davvero non sono i grandi appuntamenti. Le
prove di forza sotto gli occhi del mondo e delle telecamere. La cosa importante
è la vita quotidiana. Tutta la vita. Ogni giorno e in qualsiasi dettaglio. Con
il suo ritmo assonnato. Con le sue lunghe pause.
Molto dell’allarme che uno prova quando sente questa parola –
“globalizzazione” – nasce proprio da qui. Non ci sono più zone protette.
Margini di indipendenza e libertà personale. Campi di scelta sottratti
all’invadenza di “quei” poteri. Contro tutto questo sembrerebbe naturale
aspettarsi qualcosa per lo più da politiche di altra natura. Dall’azione locale
e dalla resistenza porta a porta. Da una diversa educazione al consumo. Da
stili di vita liberamente, autonomamente scelti e costruiti. Da iniziative
tutte giocate all’interno di uno spazio delimitato. Nel nostro quartiere. Nella
nostra comunità. Da schemi anarchici di “self-help” e mutuo soccorso. Dalla
volontà ostinata che accetta i limiti della propria azione. Lavora su “issues”
specifiche, dannatamente concrete, visibili. Su cose che puoi toccare con
mano.
Prevalgono invece vecchi schemi. Nostalgie ideologiche. Un internazionalismo
di maniera. Un’idea della storia ancora troppo deterministica e schematica. Il
miraggio del “grande balzo in avanti”. La fata morgana della rivoluzione,
il “turismo” della rivoluzione. E già riaffiora l’intolleranza stalinista per
chi coltiva il dubbio e avanza problemi e critiche o riserve. Già si vedono
leader e leaderini pronti a trasformarsi in patetici professionisti di una
rivoluzione che non ci sarà. E si continuano a sentire le voci troppo ispirate
di quelli che sanno sempre tutto, non sbagliano mai, cavalcano tutti i
movimenti e tutte le proteste: i camaleonti furbetti del “manifesto”, i leziosi
professoroni de “Le Monde diplomatique”, i duri e puri dei centri sociali o di
rifondazione. Gli zapatisti virtuali. I “campesinos” immaginari. Alla fine
conviene ammetterlo. Il movimento coltiva ancora il sogno francamente poco
serio della presa di un “palazzo d’inverno”che molto probabilmente non esiste.
Rimpiange, senza saperlo confessare, il vecchio schema rivoluzionario
dell’avanguardia che segna la strada e definisce la linea per tutti. In attesa
di una sollevazione “globale” e di una grande risposta generale. In attesa di
un governo mondiale che oltre a essere probabilmente impossibile è anche un
sogno autoritario e sciocco, reazionario.
Sono convinto che tutti questi schemi politici preconfezionati siano soltanto
un tic mentale e una posa retorica. La verità è che non abbiamo ancora capito
dove sta “il nemico”.
Sulla globalizzazione si sono scritte montagne di libri e sprecati miliardi
di parole a vuoto. Si sono sollevati estremismi esagerati, paure caricaturali,
falsi allarmi. In tutta questa confusione, però, forse restano vere due o tre
cose. La globalizzazione è anche un sistematico processo di trasferimento su
scala “globale” del potere di pochi. La globalizzazione è anche l’idolatria del
mercato. L’idea, fattualmente assurda, che il mercato sia l’unica forma di
rapporto sociale possibile. La favola, ideologica, che mercato e libertà siano
sinonimi. La globalizzazione è (anche) l’idea che esista un modo solo di fare
le cose, e che il benessere promesso (o effettivamente garantito) sia un valore
assoluto. Un premio capace di rendere irrilevanti e trascurabili quei prezzi
che dovremmo pagare in termini di “potere”, ordine e conformismo, gerarchia.
Davanti a tutto questo, la nuova sensibilità nata a Seattle o espressa a
Seattle, può o dovrebbe forse soltanto opporre una parola d’ordine di cui
sarebbe il caso di recuperare la carica sovversiva, la natura irrequieta e
ribelle. La democrazia in senso radicale. L’idea libertaria che sia necessario
darsi sempre da fare per ridurre il coefficiente di potere e di gerarchia
presente in qualsiasi circostanza e in ogni società.
È un problema di “cultura politica” e di sensibilità. Riguarda il
nostro “linguaggio della protesta”. Il modo con cui vogliamo confrontarci
col “sistema”. La lezione che uno può imparare dai maestri dell’anarchia, da
gente come Paul Goodman o Colin Ward, è solo questa. Rispetto a qualsiasi
situazione ci sono sempre soluzioni e vie d’uscita più libertarie o meno
libertarie. La “fine della storia” è una favola reazionaria. Qualsiasi forma di
società è possibile. Potere e gerarchia possono essere se non eliminati del
tutto almeno ridotti, “diminuiti”. Nessun modello dato può essere scambiato per
un destino obbligato o per uno schema fisso e inevitabile. E certamente,
davanti a quel quadro di poteri forti che pretendono di dirci come vivere e
come comportarci, cosa consumare e quanto consumare, è indispensabile e giusto
ribellarsi. Ma forse non basta affrontare i lacrimogeni della polizia o le
simboliche serrande del MacDonald all’angolo della strada, esaltare gli
inconfondibili sapori del roquefort o della mortadella contro il gusto di
plastica del solito hamburger o dei cioccolatini insanguinati della Nestlé.
L’azione su scala locale, un radicale cambiamento degli stili di vita, un altro
modello di vita quotidiana sono tutte cose che riguardano da vicino
il “movimento”. Il suo modo di autorappresentarsi. La sua visione politica. Le
sue scelte.
Probabilmente per uscire dalla ritualità e dall’estremismo consolatorio
bisogna ripensare molto chiaramente chi siamo e contro chi stiamo protestando e
in nome di che cosa protestiamo. Non si tratta di costruire un “contropotere
globale” delle società civili parallello a quello di governi nazionali e banche
d’affari, maghi della finanza, prestigiatori delle multinazionali. Commentando
il summit di Porto Alegre dei mesi scorsi Naomi Klein ha scritto su “The
Nation” che forse è proprio il movimento a dover cambiare, almeno se vuole
contare qualcosa, fare qualcosa. Ma questo richiede una percezione diversa,
un’altra visione della politica e un altro stile: l’unico modo per uscire dalla
paralisi “forse sta nel trasformare il movimento contro multinazionali e poteri
forti, contro la globalizzazione, in un movimento pro-democratico che difende i
diritti delle comunità locali a pianificare e gestire le loro scuole, le loro
acque, il loro ambiente… non un movimento per un singolo governo globale ma la
visione di una rete sempre più connessa su scala internazionale di iniziative
locali, tutte costruite su tentativi di democrazia diretta”.
5 - Cosa accade nei tempi morti? Nelle lunghe fasi di pausa tra un vertice e
l’altro, tra una riunione e l’altra della “Spectre” del capitalismo globale,
del Sistema? Fuori dalla retorica è giusto dire che non accade niente. Forse in
questo sta la differenza radicale che rende speciale ma preoccupante il caso
italiano. Praticamente, non succede niente. Prevalgono la stasi, l’abulia, una
grande passività. E un estremismo molto caricaturale e velleitario. Un
terzomondismo di maniera.
Democrazia diretta. Iniziative locali. Lotte specifiche legate all’ambiente o
alla comunità. Molte di queste ricette più legate alla tradizione anarchica che
al repertorio di gesti, azioni, forme di proteste standard più tipiche del
movimento operaio, sono profondamente estranee al nostro linguaggio e alle
nostre abitudini politiche. Non è una giustificazione, è solo un fatto. Ma
neanche questo spiega tutta la verità e tutta la storia. In qualche modo
dovremmo ammettere che qui da noi il vento di Seattle soffia davvero troppo di
rado. E in modo troppo casuale e intermittente. Un altro stile politico, una
percezione diversa ovviamente non si costruiscono in qualche mese e forse
neppure in qualche anno. Ma anche forme più consuete di protesta sembrano
latitare in modo impressionante. Il movimento è stato in piazza a Bologna e a
Nizza. È stato in piazza a Napoli. In Piazza ci andrà pure a Genova. Ma perché
non ha niente da dire in altre circostanze. In altre occasioni clamorose?
Prendiamo due esempi a caso. L’ambiente e quell’autentica fabbrica del
consenso e dell’ottundimento sociale che ancora continua ad essere la scuola. A
Cesano, quando un gruppo di cittadini manifestava per la sua salute contro le
antenne di radio Erode (al secolo Radio Vaticana) e i tralicci dell’Enel, del
movimento non è vista traccia. Il risultato, grottesco, è stato che a fare la
figura del rivoluzionario ha finito per ritrovarsi Willer Bordon. Nel “silenzio
assordante” (sono parole sue) della sinistra ufficiale e … del movimento. Lo
stesso vale naturalmente, con tutte le aggravanti del caso, per la scuola. Per
un riflesso condizionato qualcosa e qualcuno è riuscito a muoversi tempo fa
soltanto quando è stata agitata la parola tabù, la grande bestemmia: scuola
privata; privatizzazione. “Privato” non si può dire. Non è lecito. Nel codice
genetico della sinistra resta quest’improbabile idolatria del “pubblico”,
questa fiducia abbastanza indecente nello Stato. Si è trattato comunque
soltanto di una reazione passeggera. Di un episodio. Dell’ennesimo rito da
celebrare velocemente per mettersi la coscienza a posto. Per dimostrare di
esserci. Per il resto: niente di niente. Meno di niente.
A furia di denunciare come una spauracchio e un mostro la globalizzazione
stiamo finendo per perdere di vista troppe cose. L’immedesimazione con gli
oppressi del terzo mondo o il turismo della rivoluzione, le scampagnate
militanti sulle montagne del Chiapas o nel NordEst del Brasile, possono
diventare anche una scusa e una caricatura. Siamo quello che siamo. E stiamo
dove stiamo. Senza retorica bisognerebbe ammetterlo. Privilegiati e ricchi,
occidentali, dannatamente ben nutriti dovremmo riconoscere che anche se la
globalizzazione è una minaccia pure per noi, non si tratta davvero della stessa
minaccia che colpisce i contadini del Messico, i bambini africani, i disperati
delle favelas o delle bidonville. La globalizzazione “cattiva” (perché ce n’è
anche una buona, ma questo è tutto un altro discorso e un’altra storia) ci
riguarda sul terreno ambivalente e ambiguo dei consumi, sul piano delle
convenzioni sociali e degli stili di vita, soprattutto nell’ambito di tutti
quei fenomeni che (dall’influenza dei media sino dentro alle aule di scuola)
coincidono con il consenso e con l’educazione. La scuola, il modo in cui
crescono i bambini, l’aria che respiriamo, il rapporto che abbiamo con la
natura e con l’ambiente. Di “movimento” forse sarà il caso di ritornare a
parlare solo quando vedremo la stessa energia, la stessa voglia di ribellione,
la stessa intensità critica e politica anche in questi ambiti “normali” della
quotidianità, in questi momenti ordinari della nostra vita.
6 – Alla fine resta soltanto una domanda capitale. E troppo tardi? Ci sono le
forze per combattere la piega degli eventi, per contrastare il rapporto suicida
che un modello perverso e ossessivo di sviluppo ha finito per instaurare con le
risorse naturali e l’ambiente, i modelli di vita, lo stesso livello suicida dei
consumi? Vale la pena di opporsi in qualche modo, da qualche parte, a un
meccanismo che sembra puntare dritto al disastro globale e alla catastrofe? Gli
indizi non sono rassicuranti, si capisce. Ogni giorno che passa i termini del
pericolo tendono a farsi più netti e inquietanti. Dal fallimento del summit
dell’Aja sull’“effetto serra”, alle manovre spregiudicate del “grande
inquinatore” Bush jr (il voltafaccia sul protocollo di Kyoto, le nuove
trivellazioni in Alaska, la zelante promessa di distruggere qualche altro
ettaro di foreste in Usa o in Sudamerica) tutto lascia pensare che il futuro
non ci riservi altro che cattive sorprese e brutte notizie. Fuori dagli
estremismi e dagli schematismi a Seattle si è intuito che bisognava fare
qualcosa. E farlo subito.
Niente e nessuno tuttavia ci assicura che serva a qualcosa. Che si possa
fare qualcosa. E che qualcosa possa cambiare sul serio. Può essere la solita
lotta contro i mulini a vento. Una battaglia persa in partenza. Un viaggio
inutile.
L’immaginazione del disastro. Le previsioni dell’apocalissi. Lo sconcerto
globale. La paura globale. Forse è tutto vero. Bisogna guardare le cose come
stanno. Senza consolazioni e scorciatoie. In termini “quasi” politici si può
dire una cosa sola. Tanto vale provarci lo stesso. Senza nascondere la testa
nella sabbia. Ma anche senza arrendersi prima del tempo. Siamo ancora vivi, per
il momento. Credo che la “nuova sensibilità” nata a Seattle sia in fondo una
scommessa in questo senso. Bisogna aver fiducia nella capacità di trasmettere
con azioni simboliche, gesti isolati, forme di lotta e di testimonianza, una
cultura diversa alle generazioni future. Un altro modo di vedere le cose e di
stare nel mondo. È più un problema di educazione che di politica, in qualche
modo. Di cultura profonda. Di sensibilità, per ora, di intuito morale e
sociale. Di stili di vita. Quanto all’”immaginazione del disastro” è giusto
coltivarla senza lasciarsi schiacciare dal terrore. Anche nei romanzi di
fantascienza quello che conta non è il disastro finale ma quella frazione di
tempo subito prima della fine. O subito dopo.
Come ha scritto una volta Philip Dick: “una storia catastrofica non offre
mai una soluzione ai problemi, continua semplicemente a riproporli
all’infinito. Anche ammessa l’esistenza del problema forse un lavoro più
concreto o almeno più utile potrebbe essere quello di cercare, nelle nostre
storie di fantascienza, soluzioni parziali alla minaccia. Come sopravviveremo?
Cosa sarà il mondo dopo che solo pochi (o anche molti) di noi saranno
sopravvissuti? Oppure invece di scrivere storie sulla catastrofe imminente,
forse dovremmo dare la catastrofe per avvenuta e partire da lì: dichiariamolo
dal primo paragrafo… e mettiamo al centro del racconto i tentativi compiuti dai
personaggi per risolvere il problema della sopravvivenza”.
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