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agricoltura senza qualita' e mucca pazza il caso inglese
dal sole24ore di mercoledi 21 marzo 2001
Inghilterra, l’agricoltura «senza qualità»
Marco Niada
LONDRA Nelle intenzioni di Tony Blair il nuovo millennio avrebbe dovuto
arridere a una Gran Bretagna tutta proiettata nel futuro, immersa nelle
delizie della knowledge economy. Crollo dei titoli tecnologici permettendo,
può darsi che l’esperimento un giorno riesca. Intanto il Paese fa i conti
con una certezza: la rivoluzione agricola, in cui gli inglesi furono primi
al mondo agli inizi del ’600, si sta concludendo con un gran botto
"celebrativo", con la carneficina di centinaia di migliaia di animali, in
una dantesca coreografia di roghi a cielo aperto e allevatori in rivolta,
con il crollo verticale dei redditi degli agricoltori e gravi danni per
l’economia e i contribuenti.
La sola crisi dell’afta, secondo un recente studio del think-tank Cebr
(Centre for economic business research), potrebbe costare 9 miliardi di
sterline (28mila miliardi di lire), pari al’1,1% del Pil: 3,6 miliardi di
costi per allevatori, trasportatori e industria agroalimentare, più 2,7
miliardi di mancate entrate fiscali, l’aumento dei costi dei generi
alimentari e le mancate entrate turistiche causate dal blocco delle
campagne. La cifra si aggiunge alla stima di 15 miliardi (46mila miliardi
di lire) di crisi della mucca pazza, spalmata però su quindici anni, e
dunque meno visibile.
L’agricoltura, va premesso, è un settore estremamente marginale
dell’economia britannica: pesa per l’1,5% del Pil e occupa il 2% della
popolazione attiva. Ed è una frazione della stessa economia rurale, che
sale al 4% del Pil e al 6% dell’occupazione, se si considerano le attività
collaterali.
La crisi attuale sta colpendo "solo" il 40% degli addetti, ossia quelli
concentrati nell’allevamento. Anche se si arrivasse allo scenario infernale
dell’abbattimento di 800mila animali, per arginare l’epidemia di afta, ciò
equivarrebbe "solo" al 4% dello stock zootecnico: e i danni, se fossero
contenuti nell’ipotesi conservativa di un miliardo di sterline, peserebbero
per l’8% dell’output rurale totale (13 miliardi di sterline).
Tale visione riduttiva è colta al volo da alcuni economisti darwiniani,
secondo i quali tanto vale "chiudere" le fattorie inefficienti e importare
gran parte del fabbisogno alimentare, con grande risparmio per contribuenti
e consumatori.
Ma il disastro attuale pare essere provocato proprio da un eccesso di
efficienza. L’agricoltura e l’allevamento britannici sono tra i più
intensivi al mondo. Da mesi i media spiegano che la causa principale
dell’esplosione di afta va individuata nella concentrazione dei mattatoi in
pochi punti, per facilitare la lavorazione delle carni e la distribuzione
dei supermercati in tempi minimi. Gli animali, viaggiando in tutto il Paese
per raggiungere pochi mattatoi, avrebbero disseminato il morbo.
Inoltre, i consumatori britannici sono molto esigenti sul prezzo e molto
poco sulla qualità. Il consumatore ha l’industria che si merita. La
richiesta di carne a prezzi stracciati ha spinto a mangimi animali per
nutrire a basso prezzo degli erbivori, con il risultato della mucca pazza.
Nel corso dei decenni, dal dopoguerra a oggi, gli appezzamenti e gli
allevamenti britannici sono diventati sempre più estesi e intensivi, la
mano d’opera si è dimezzata e gli utili sono saliti. Fino al brusco
risveglio delle crisi degli ultimi anni, che hanno ridotto mediamente del
70%, dal 1995, i redditi rurali, mettendo i piccoli allevatori con le
spalle al muro. I supermercati, che controllano il 70% dell’industria del
settore, fanno il bello e il cattivo tempo, complice il boom del "private
label" (i marchi proprietari di prodotti appaltati all’esterno), che hanno
ridotto fortemente i margini degli agricoltori.
Cosciente di ciò, il Governo Blair ha chiesto ai cinque big della grande
distribuzione di esercitare moderazione con i fornitori e di sottoscrivere
un codice di condotta con i contadini. Ma allo stesso tempo il Governo
chiede ai supermarket di contenere i prezzi. Il risultato è una richiesta
ai distributori di comprimere i margini di profitto, e la manovra dirigista
è stata male accolta.
La crisi dell’afta ha creato grande confusione in Gran Bretagna. Dalla
parte opposta dei "darwiniani" si schierano i sostenitori del cibo
"organico", che noi chiamiamo biologico (si veda il riquadro). I più
radicali vogliono un ritorno ai bei tempi andati, con la riapertura di
mattatoi in piccoli centri e maggiori forniture ai mercati locali di
prodotti genuini. Gli articoli sulla necessità di mangiar bene, a costo di
spendere di più (un argomento finora tabù) si moltiplicano.
Una via di mezzo tra le opposte fazioni pare tuttavia praticabile. Secondo
Franz Rivetti, presidente del Wbt, società italiana che da trent’anni
trasforma le aziende agricole da convenzionali in organiche (specie nei
cereali) sostiene che il ritorno ai piccoli mercatini locali è irreale:
«Tagliare la filiera della distribuzione è impossibile, perché comunque ci
vuole un intermediario». Secondo Rivetti, però, «se il prodotto organico è
fatto con qualità da aziende di taglia, e in modo industrialmente
biologico, può avere un prezzo al consumo pari a quello convenzionale di
fascia alta».
Il problema è peraltro quello dei giganteschi sussidi all’agricoltura
pagati dalla Ue per prodotti convenzionali, che si rivelano sempre più
costosi e dannosi. Ci vorranno sussidi in più per la conversione
all’organico? Secondo Rivetti una fascia di agricoltura organica da
affiancare a quella convenzionale contribuirebbe a risolvere il problema di
alti costi e forti eccedenze. «La conversione all’organico raggiungerebbe
quattro obiettivi — afferma: — ridurrebbe innanzitutto le eccedenze (è
un’agricoltura con rendimenti più bassi), migliorerebbe l’ecosistema e la
qualità del cibo e ridurrebbe le spese, perché il grosso della spesa Ue è
per le eccedenze».
Secondo Rivetti la legislazione Ue per convertire alla coltura organica è
buona. La riduzione della produzione verrebbe pagata con le sovvenzioni
vigenti, che non aumenterebbero i costi complessivi. Con l’andare del
tempo, secondo Rivetti, le eccedenze caleranno, e con esse gli esborsi. Il
cerchio si potrebbe chiudere riducendo le sovvenzioni a ettaraggio. La
rotazione delle colture imposta dall’agricoltura organica potrebbe anche
favorire l’occupazione.
Insomma, se è vero che buona parte dell’agricoltura convenzionale su grandi
superfici resterà, ci sarà più spazio per quella organica. Il cattivo
esempio inglese apre un interessante dibattito.
Martedì 20 Marzo 2001
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