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mercato del territorio: il modello campano
dalla rivista del manifesto aprile 2000
MERCATO DEL TERRITORIO IL MODELLO CAMPANO
DI VEZIO DE LUCIA
La Campania è stata fìnora la regione italiana peggio amministrata, peggio
anche della Sicilia. ln buona misura, la questione della Campania coincide
con la
questione meridionale e con la questione morale. sicuramente così per
quanto riguarda il governo del territorio e gli altri argomenti di cui
trattiamo qui di seguito.
Sarebbe utile rileggere gli articoli pubblicati meno due anni fa, in
occasione dell'alluvione di Sarno, Argomenti in genere riservati agli
ambientalisti, per qualche giorno furono sulle prime pagìne. Tutti i
cronisti misero a nudo la fragilità del territorio, ma sopratutto
descrissero I'espansione caotica delle citta, la spe culazione edilizia,
l'abusivismo, le cave gestite dalla malavita, gli incendi, i disboscamenti,
la devastazione dell'ambiente naturale, l'abbandono dell'agricoltura.Si
lessero indagini chiare e documentate sul vuoto di cultura civile che sta
all'origine di tutti i guai del Mezzogiorno, dove i disastri naturali sono
sempre rivelatori dei disastri sociali: 1'imprenditoria
miserabile.l'intreccio fra economia legale e illegale, I'abitudine al
controllo camorristico dei beni pubblici, le minacce, la fuga o la
rassegnata solitudine dei cittadini migliori,i paesi senza fòrma e senza
memoria.
Il 23 novembre prossimo saranno vent'anni dal terremoto dell'Irpinia,
tremila morti, decine di paesi distrutti. Spero che 1'ormai prossim
anniversario sia l'occasione per una riflessione non retorica sulla
tragedia e sui troppi scempi mascherati da ricostruzione. Credo di non
essere il solo a ricordare leemozione e lo sdegno di quei giorni , e di
questi mesi , e gli impegni solenni assunti perche' la catastrofe non si
ripetesse.
Invece non si è fatto quasi nulla, in Campania, ne per la difesa del suolo,
né per gli abitati esposti al rischio sismico. Non è stato formato neanche
un pian di bacino regionale, e non si è spesa una lira per consolidare
abitati non colpiti dal terrermoto del 1980.Secondo il servizio sismico
nazionale, sono s rischio 470 dei 515 comuni campani, mentre solo il 33 per
cento del patrimonio edilizio è protetto. Eppure il consolidamento di
centinaia di centri storici e dell'edilizia più antica offrirebbe
un'occasione di spesa pubblica qualificata, ad alta intensità di lavoro. E
sarebbe comunque un risparmio, visto che per rimediare ai disastri naturali
spendiamo dieci volte più di quanto si spenderebbe attuando politiche di
prevenzione.
Quanto all'urbanistica, sembra cancellata dall'agenda politica e
amministrativa della Campania. Sono passati dieci anni dalla legge di
riforma dei poteri locali e non è stata ancora adeguata la normativa
regionale sul governo del territorio. I parchi naturali, in quasi tutte le
regioni, sono ormai una positiva realtà, che ha promosso forme inedite di
vita culturale, di turismo e di economia, coinvolgendo in particolare le
energie più giovani In Campania i parchi regionali sono oggetti sconosciuti.
Anche i beni culturali sono ignorati. La conservazione della qualità
estetica del territorio credo che sia un obiettivo non meno importante
della sua integrità fisica. La bellezza, per la nostra civiltà, è
un'essenziale precondizione per lo sviluppo. "Bellezza e armonia - ha
scritto Michele Serra - sono come il pane. Più si è male in arnese, più se
ne dovrebbe avere diritto". Non la pensano così gli amministratori della
Campania che hanno ignorato i piani paesistici della legge Galasso. Tant'è
che la Campania è 1'unica regione dove sono stati esercitati i poteri
sostitutivi del ministero per i Beni e delle attività culturali che ha
direttamente provveduto alla formazione e all'approvazione di ben 15 piani
paesistici.
Si potrebbe continuare nell'elencazione dei guai e delle inadempienze
ricordando 1'incapacità storica di gestire i rifìuti, che sta determinando
guasti più gravi di una catastrofe naturale. Più o meno lo stesso può dirsi
del trasporto pubblico, e così di seguito. Mi fermo su un solo tema, quello
della città metropolitana, la più grande e fitta conurbazione d'Italia, che
continua a gonfiarsi fra Caserta, Napoli e Salerno. In Italia, è noto, non
è mai stato affrontato seriamente il problema del governo delle aree
metropolitane, ogni tentativo si è infranto contro la tendenza egemonica
dei comuni capoluoghi. Ma il comune di Napoli è solo un minuscolo segmento
della conurbazione napoletana. Si pensi che 1'intera provincia di Napoli,
formata da novantadue comuni, è più piccola, ma più densamente popolata,
del comune di Roma. Anche per questo, il livello dei servizi pubblici
territoriali è in genere tanto scadente.
Il nuovo piano regolatore di Napoli, quello ancora in discussione in
consiglio comunale, chiude per sempre la porta al cemento e all'asfalto,
può fare di Napoli il cuore verde dell'area metropolitana, la sottopone
alla cura del ferro, può restituire il centro storico all'antico splendore.
Ma è pesantemente condizionato dalla limitatezza dei confini comunali. Il
grande sistema di spazi verdi, produttivi e ricreativi di Napoli ha senso
solo se si estende almeno fino ai Campi Flegrei e alle pendici del Vesuvio.
Per sua natura, la rete del trasporto su ferro in costruzione nel capoluogo
non può funzionare se limitata alla scala comunale. Le strutture portuali
napoletane devono essere integrate agli altri scali marittimi del golfo e
della Campania; in tal modo, forse, si può mettere in discussione la stessa
permanenza del porto commerciale dentro Napoli. E come decidere, senza
previsioni di scala metropolitana, dove realizzare il nuovo aeroporto, che
dovrà sostituire quello di Capodichino, pericolosamente collocato nel
ventre della città? E come mettere mano alla riqualificazione delle
periferie di Napoli, saldate ai comuni confinanti? Dove localizzare i nuovi
alloggi, che non possono essere costruiti dentro Napoli, per assoluta
mancanza di spazio? Tutto ciò pretenderebbe soluzioni concordate con altri
livelli istituzionali, in particolare con la regione Campania, che non ha
mai avuto il coraggio di misurarsi con questi problemi.
Il problema più grave, che pare dimenticato, è proprio quello delle
abitazioni. Un problema che altrove, quasi dovunque, è ormai risolto. Solo
a Napoli il bisogno di case resta acuto e determina ricorrenti tensioni
sociali. Nell'area napoletana, se si volessero raggiungere nel prossimo
futuro standard abitativi uguali a quelli che nel resto d'Italia erano
stati guadagnati nel 1991, occorrerebbero oltre 200 mila nuovi alloggi. So
bene che si tratta di un argomento difficile, troppi delitti sono stati
commessi in nome dell'edilizia. Ma questo non cancella la drammaticità dei
dati.
All'inizio dell'esperienza regionale, nel corso degli anni Settanta,
cominciò a prendere forma una sorta di competizione fra le regioni del
centro-nord e quelle del sud. Oggi è un lontano ricordo. Il divario del
Mezzogiorno, e in particolare della Campania, si è progressivamente
accentuato. Si è perduto il contatto con i modelli più progrediti. Non si
può nemmeno parlare di ritardo, giacché il Mezzogiorno (con 1'eccezione,
forse, della Basilicata) procede in direzione opposta: verso il baratro. A
determinare questo scenario ha certamente contribuito la crisi che ha
complessivamente investito 1'istituto regionale. La crisi è accentuata
dall'inganno federalista", cioè da quelle spericolate ipotesi di riforma
istituzionale ventilate nel recente passato, senza aver nemmeno tentato un
bilancio dell'esperienza regionale, specialmente nel Mezzogiorno. Mezzo
secolo di vita di regioni autonome in Sicilia e Sardegna, quasi trent'anni
di regioni a statuto ordinario avrebbero meritato analisi accurate e
produttive.
Secondo me, il punto di partenza per una pur sommaria riflessione sulla
crisi regionale è la trasformazione subita dalla società italiana nel corso
degli anni Ottanta, quando la cultura di sinistra fu colpita dalle
filosofie cosiddette liberiste che venivano d'oltreatlantico e
d'oltremanica. La programmazione e la pianificazione, strumenti propri e
tradizionali della cultura della sinistra, furono ferite a morte. Io sono
d'accordo con chi ha sostenuto che la stessa tempesta travolse anche le
regioni italiane, che erano state generate proprio dalla cultura della
programmazione e della pianificazione. Era il loro peccato originario.
Al declassamento dell'istituto regionale contribuì probabilmente anche il
Pci quando decise una brusca inversione di rotta, all'inizio degli anni
Ottanta, dopo 1'interruzione delle prove di governo dell'unità nazionale.
L'istituto regionale, che fino a quel momento era stato al centro del
disegno comunista di riforma dello stato, fu messo in sonno, a favore del
livello comunale, e soprattutto dei grandi comuni, sempre più visibili.
Naturalmente a determinare queste scelte concorsero tanti altri fattori, e ser
virebbe un'indagine più approfondita, a partire dalle accelerate
trasformazioni sociali e territoriali degli ultimi due decenni. Cominciò a
non esserci più differenza fra città e campagna,tutta 1'Italia di ogni
stava per essere urbanizzata. Su questa crosta indistinta emersero
prepotentemente le aree metropolitane e le grandi città.
Parallela e conseguente alla crisi delle regioni, è la crisi
dell'urbanistica, degli istituti e degli strumenti per il governo del
territorio. I suoi effetti sono evidentemente più gravi nel Mezzogiorno
dove, come si è già detto, c'è il vuoto della cultura pubblica.
Sembra che si sia rinunciato all'idea razionale (e razionalista) del piano
urbanistico comunale esteso a tutto il territorio. Fioriscono, sempre più
autorevolmente, istituti anomali, o "eversivi", grazie ai quali è possibile
scardinare ogni ordinamento. Accordi di programma; programmi integrati
d'intervento programmi di riqualificazione urbana; programmi di recupero
urbano; contratti di quartiere; contratti d'area; contratti di programma;
intese istituzionali di programma; patti territoriali, ultimi arrivati i
"prusst" (programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del
territorio): è questa la nuova nomenclatura della deregulation
all'italiana. "Ciò che accomuna la quasi totalità di questi piani anomali -
ha scritto Edoardo Salzano nella sua comunicazione alla conferenza
nazionale sul paesaggio - è che enfatizzano il circoscritto e trascurano il
complessivo, celebrano il contingente e sacrificano il permanente, assumono
come motore 1'interesse particolare e subordinano ad esso 1'interesse
generale, scelgono il salotto discreto della contrattazione e disertano la
piazza della valutazione corale. Abbandonando le metafore, caratteristica
comune di (quasi) tutti gli strumenti di pianificazion anomali è quella di
consentire a qualunque intervento promosso da attori privati di derogare
alle regole comuni della pianificazione ordinaria. Di derogare cioè alle
regole della coerenza (ossia della subordinazione del progetto al quadro
complessivo determinato dal piano) e della trasparenza (ossia della
pubblicita' delle decisioni prima che divengano efFicaci e dell possibilità
del contraddittorio con i cittadini)". In effetti, le varianti urbanistiche
autorizzate con il ricorso agli accordi di programma non sono soggette alle
osservazioni dei cittadini com'è previsto dalla legge urbanistica del
1942 per le procedure ordinarie, e gl stessi consigli comunali sono in
larga misura spodestati. Con tanti saluti alla partecipazione e alla
question morale.
Per il Mezzogiorno il peggio potrebbe ancora venire II modello di
trasformazione urbanistica del nord-est in un territorio sotto il controllo
della grande crimina lità è una plausibile prospettiva da brivido.
II comune di Milano ha recentemente proposto un documento titolato
"Ricostruire la grande Milano" Dopo aver reso omaggio - fra gli applausi
del Sole-24 ore - all'urbanistica contrattata, il documento conferma che i
nuovi istituti introdotti dal legislatore negl anni Novanta (quelli citati
prima) "costituiscono veri e propri strumenti di pianificazione finalizzati
ad agevolare la trasformazione e la riconversione di ampie zone del
territorio prescindendo dalle regole stabilite per tali zone dal piano
regolatore generale. E questo nuovo assetto urbanistico non scaturisce da
un atto autoritativo, ma da un accordo con i privati che confluisce
nell'accordo di programma e costituisce lo strumento fondamentale per la
realizzazione dell'intervento di trasformazione urbana".
Nella prospettiva del modello flessibile si assume che "in sistemi urbani
densi e ad alta infrastrutturazione non sia utile conferire un valore
normativo alle previsioni di piano regolatore - ad esclusione di
particolari salvaguardie - ma che programmi e progetti di trasformazione
urbana debbano essere decisi in attuazione delle strategie della
Amministrazione e a seguito della valutazione dei risultati attesi". Niente
insomma è definito una volta per sempre. In estrema (ma non distorcente)
sintesi: il compito unico assegnato alla pianificazione pubblica del
territorio è di assicurare la valorizzazione degli immobili, e la riduzione
al minimo del rischio d'impresa per i proprietari e gli operatori immobiliari.
II modello ambrosiano non ha provocato nessuno scandalo, non è successo
nulla. Non sono stati svegliati dal letargo quanti, in particolare nel
mondo della politica'e della cultura di sinistra, hanno dimenticato da
qualche anno di occuparsi di urbanistica, non vedendo che in gran parte
d'Italia città e campagne sono più di prima esposte a ogni insulto, grazie
proprio a quegli strumenti micidiali, elencati prima (accordi di programma,
eccetera), non a caso esaltati dal comune di Milano.
II peggiore esempio di ciò che succede con la deregulation all'italiana non
poteva venire che dalla Campania: a Castellammare di Stabia, nella penisola
sorrentina, in un luogo prezioso, e geologicamente fragile, vincolato
all'inedificabilità dal piano paesistico, tramite un contratto d'area è
stata autorizzata la trasformazione in albergo di un'antica cementeria. Lo
scempio avviene a pochi chilometri dal comune di Vietri sul Mare dove, come
tutti sanno, grazie all'impegno ostinato e decennale di alcuni benemeriti,
a cominciare dal compianto Antonio Iannello, è stato recentemente e
finalmente demolito un altro albergo, il famigerato "mostro di Fuenti".
In tanti dicono che non ha senso difendere la pianificazione. Che è un
atteggiamento passatista, da nostalgico del primo centro-sinistra. Che la
pianificazione non è un valore in sé. È solo uno strumento arcaico. Una
volta c'era 1'urbanistica pubblicisticounilaterale, oggi c'è quella
contrattualistica. Tutte le cose del mondo evolvono, anche gli strumenti
dell'azione pubblica. In molti continuiamo a pensare che non sia così. Che
non si possa elaborare alcuna idea di sviluppo per il Mezzogiorno, non si
possa proporre alcuna prospettiva di riforma coerente e trasparente
dell'organizzazione territoriale, senza restituire dignità agli strumenti
della pianificazione e a chi li utilizza.
In verirà, la situazione italiana è al riguardo contraddittoria, da una
parte si moltiplicano gli scempi e gli istituti eversivi di cui stiamo
parlando, al tempo stesso non si è fermata la proposizione di convincenti
ipotesi di riforma. Mi riferisco al decreto legislativo 1 1 2/ 1998 (uno
dei decreti "Bassanini" attuativi del decentramento amministrativo) che
riafferma, in controtendenza rispetto alla filosofia dominante e
derogatoria, il ruolo prioritario della pianificazione, attraverso le
intese fra la provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti in
materia di difesa del suolo, tutela delle bellezze naturali, protezione
della natura e dell'ambiente. Altrettanto importante è il testo unificato
di nuova legge urbanistica - finalmente un buon testo, dopo più di
vent'anni di controriforma - predisposto da Rita Lorenzetti, presidente
della commissione Lavori pubblici della Camera. Anche questo testo muove in
controtendenza rispetto alla prassi seguita a Roma e in gran parte d'Italia
(e teorizzata a Milano), vietando il ricorso agli istituti derogatori.
Infine, si faccia un confronto con gli altri paesi europei. Che cosa c'è
dietro 1'eccellente livello dei servizi pubblici di quasi tutte le grandi
città europee? Dietro alla capacità tedesca di costruire nuovi paesaggi
naturali? Dietro alle straordinarie operazioni francesi di trasformazione
urbana? Dietro all'amichevole impatto delle nuovi reti di trasporto
pubblico in Spagna? Ci sono due condizioni irrinunciabili: il riconosciuto
prestigio degli organi istituzionali ai quali è affidato il governo del
territorio e 1'uso rigoroso e permanente dei metodi e degli strumenti della
pianificazione urbanistica e di settore.
Per concludere, se sono giusti i dati e le riflessioni esposti, mi pare
evidente che, stando così le cose, il divario della regione Campania (e
dell'intero Mezzogiorno) dal resto d'Italia, già cresciuto negli ultimi
vent'anni, andrà ulteriormente accentuandosi. Al peggio, come si è visto,
non c'è limite. E, come si e' visto, al peggio non c'è limite. Ma talvolta
è successo che sono proprio gli ultimi, dal fondo dell'abisso, a promuovere
il riscatto.