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la deroga come regola in urbanistica



dalla rivista del manifesto gennaio 2001

LA DEROGA COME REGOLA
il revisionismo n urbanistica

di vezio de lucia

Gaetano Arfe' ha scritto che 1'offensiva ideologica scatenata dalla destra
si è già vittoriosamente cimentata nel campo della storia. Successivamente
ha colpito il
diritto e 1'economia. Secondo me, non finisce qui. Anche il governo del
territorio è attraversato dai venti del revisionismo e del trasformismo.
Credo che sia di qualche interesse raccontare che cosa sta succedendo,
cominciando da Milano. II capoluogo lombardo ha sempre mostrato
insofferenza per le regole dell'edilizia. Non a caso, da quasi mezzo secolo
si chiama `rito ambrosiano' la specialità meneghina di piegare le norme al
variare delle circostanze. Neglì anni Sessanta e Settanta, successive
variazioni del piano regolatore ne aumentarono le capacità edificatorie di
milioni di metri cubi. A Milano è nata la `urbanistica contrattatà ; fu un
assessore all'urbanistica comunìsta che scatenò furenti polemiche a
sinistra sostenendo a oltranza le ragioni della proprietà, mentre una parte
della cultura urbanìstica forniva il supporto a quelle pratiche dì perverso
intreccio tra poteri pubblici e interessi privati che presero il nome di
Tangentopoli.
Con I'amministrazione Albertini, la tendenza ha raggiunto lìvelli estremi.
Su «la Repubblica» del 29 novembre, Francesco Erbani ha scritto che a
Milano la parola pianificazione evoca il regime dei soviet. «La città non ì
più regolata da un disegno unitario, ma diventa un~ somma di progetti: e
questo in nome della sussidiarietà quella sussidiarieta' che è il fulcro
lessicale della rivoluzione federalista predicata da Formigoni e che si può
sintetizzare così: la pubblica amministrazione decide di nor fare quello
che i privati potrebbero fare meglio. Nella sanità, nella scuola e anche
nell'urbanistica».
In buona sostanza, secondo il nuovo `rito ambrosiano' i progetti e
programmi proposti dai privati non sono tenuti a uniformarsi alle
prescrizioni dei piani regolatori ma, al contrario, i piani regolatori si
devono adeguare a progetti. Non è un'esagerazione polemica, né una
semplificazione gìornalistica. È quello che materialmente awiene a Milano.
II de profundis per 1'urbanistica è il documento Ricostruire la grande
Milano, approvato dal consiglio comunale nella primavera scorsa. In
centosessanta pagine, con ìl pretesto, non infondato, dell'impratìcabìlità
della precedente strumentazione normativa, e nel nome della
modernizzazione, si mettono in discussione principi generali
dell'ordinamento costituzionale e giuridico italiano. L'affermazione più
spettacolare è la seguente: «lo Stato ha una voce autorevole, ma pur sempre
una voce tra le voci». Sembra imboccata la strada dell'estinzione dello
stato di diritto.
Un passaggio fondamentale della proposta milanese riguarda la distinzione
tra le parti consolidate della città e quelle suscettibili di nuove
trasformazioni. Dove si intende conservare la stabilità dell'assetto
raggìunto, e dei connessi valori ímmobiliari, 11 si ritiene giusto
conservare le prescrìzìonì del vecchìo pìano regolatore. Dove, viceversa,
si prevedono trasformazioni negli assetti, e nei valorí immobilíari, Il si
ritiene opportuno che la pianificazione sia del tutto generica, si limiti a
indicare scenari, obiettivi, indirizzi. Si deve esprimere non in un piano
(atto impegnativo, con effetti giuridici incontestabili), ma in un
documento non cogente, che stabilisca indirizzi labili, continuamente
modificabili dai progetti e programmi presentati dagli operatori. Una
procedura, insomma, al tempo stesso `certa e flessìbìle'. Edoardo Salzano,
che ìn un recente convegno dell'associazíone Polis a Eboli ha attentamente
analizzato il testo milanese, cosl commenta questo punto cruciale: «la
pianificazione dovrebbe essere quindi `certa e flessibile' in modo
profondamente asimmetrico. Nelle aree dove i valori immobiliari sono già
consolidati, dovrebbe garantire (ai titolari dei valori immobiliari) la
certezza della loro stabilità nel tempo. Nelle zone dove invece si possono
prevedere trasformazioni, il pubblico sostituisca la certezza delle sue
determinazioni con una flessibilita' funzionale (verrebbe da dire
asservita) agli ìnteressi (alle `convenìenze') deglì operatori prìvatì.
Quando questi ultimi si manifestassero e divenissero maturi,
1'amministrazione dovrebbe tradurli in certezze».
È bene chiarire subito che non si tratta di un comportamento illegale. II
nuovo rito ambrosiano è legittimato da norme legislative approvate nel
corso degli anni
! Novanta, guasi sempre per iniziativa del centro-sinistra. È I'urbanistica
contrattata, la deroga come regola. Sono i nuovi istituti - da alcuni
definiti eversivi - che consentono di oblìterare il piano regolatore,
spesso con finanziamentí pubblici: I'accordo di programma, il contracto
d'area, ìl patto territorìale, il Prusst, il piano integrato e un'altra
decina di invenzioni derogatorie. Grazie a esse, qualunque intervento
promosso da attorì privatì può prescindere dalle regole della pianifcazione
ordinaria. Cioè dalle regole della coerenza e della trasparenza.
All'origine, come ha osservaco Erbani, c'è I'uso esasperato del principio
di sussidiarietà, di cui ha scritto Giuseppe Chiarante su queste pagine
nell'ottobre scorso.Un principio che forse con troppa simpatia è stato
accolto nel bagaglio della sinistra.
Molti si chiedono che male c'è ad adottare 1a linea milanese. Che male c'è
se si realizza più efficienza, se c'è meno burocrazia? Che ci importa
dell'urbanistica? L'urbanìstica è uno strumento. Non è un prìncipio di
libertà o di democrazia.
Provo a rispondere. Innanzitutto si deve ben chiarire che la linea milanese
non è neanche a favore del mercato.Non è a favore della concorrenza. Non si
tratta di innovazioni a favore dell'impresa. Non è un'operazione di
privatizzazione. Si tratta solo di valorizzazione degli immobili.
Interlocutori non sono le imprese ma la proprieta' fondiaria. È una linea
regressiva. Siamo di fronte, insomma, a un possente rilancio della
speculazione fondiaria. La speculazione fondiaria nobilitata come
modernizzazione. Mi sembra di essere tornato gìovane. Come neglì annì
Cinquanta e Sessanta, la speculazione fondiaria vuole campo libero. «Il
piano regolatore serve a chi non si sa regolare» diceva un vecchio
ingegnere napoletano degli anni di Achille Lauro.
Si consideri che le varianti urbanistiche autorizzate con il ricorso agli
accordi di programma non sono soggette alle osservazioni delle associazioni
e dei cictadini interessati, com'è previsto dalla legge urbanistica del
1942 (in pieno fascismo), e spesso non sono nemmeno discusse dai consigli
comunali, cui spetta solo la ratifica della firma del sìndaco. Con tanti
salutì alla partecìpazione e alla questione morale.
L'urbanistica derogatoria non è una specialità milanese. Le stesse
procedure sono in larga misura praticate a Roma, e in tanti altri luoghi.
La differenza sta nel fatto che, a Roma e altrove, il ricorso alla deroga è
presentato come un'emergenza, si afferma che la via maestra resta quella
ancien régime, cioè la formazione di un nuovo piano regolatore. Ma è
un'ipocrisia. II nuovo piano viene allestito in modo che, quando
necessario, possa contraddire se stesso. Un piano, insomma, che nega la
logica e la struttura della pianìficazìone (`pìanìficar facendo'). È giusto
allora apprezzare la franchezza di Milano, che rifiuta il fariseismo.
Qui, più che in altri campi, si manifesta il disarmo culturale e ideologíco
della sinistra e 1'egemonia della destra. Anche per questo, L'esperienza
milanese sta sul filo dell'onda.
Riguardo all'egemonia, credo che sía utile ricostruìre, in poche righe, la
successione dei primati in materia di urbanistica, a partire dal primo
centro-sinistra, all'inizio degli anni Sessanta. Indiscusso e indiscutibile
protagonista fu Fiorentino Sullo (morto qualche mese fa, ignorato da
tutti), ministro dei lavori pubblici nel quarto governo Fanfani,
politicamente assassinato dal suo stesso partìto, la Democrazia cristiana,
per aver tentato una riforma urbanistica sul modello inglese (di allora).
Con Sullo, e dopo Sullo, per quasi un quarto di secolo, la supremazia
politica e culturale è stata della sinistra, sia del Psi (mi limito a
ricordare Giacomo Mancini, altro grande ministro riformatore, cui si devono
I'inchiesta su Agrigento, la cosiddetta legge-ponte, il parco del('Appia
Antica; e Giorgio Ruffolo, il Progetto '80), sia del Pci (Bologna e
dintorni,gli interventi di recupero di Pier Luigi Cervellati, decine di
esempi di buongoverno). E, non secondariamente, di molte associazioni
culturali. A metà degli anni Ottanta sembrò prendere corpo 1'iniziativa dei
movimenti verdi, ma fu stagione effimera. La cultura urbanistica,
soprattutto quella di sinistra, fu accecata e poi sopraffatta dai modelli
neo-liberisti, dalla deregulation. Prevale infine un'urbanistica
dichiaratamente di destra.
Oggi, la sinistra tace. Cioè tacitamente acconsente, talvolta anche
esplicitamente. In ogni modo, è visibile la rinuncia alle posizioni
critiche della sua tradizionale cultura. Aderisce al revisionismo il mondo
accademico, dove non c'è più differenza fra destra e sinistra: tutto sembra
di destra. La cultura è dominata dalla `fenomenologia imitativa', per dirla
con Alberto Asor Rosa. Certe volte mi sembra che ci si vergogni di non
stare schierati a destra.
Soprawive, faticosamente, 1'esperienza di quelle che furono le regioni
rosse. In Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche non funziona 1'alibi
della impraticabilità degli strumenti urbanistici, che è all'origine degli
istituti derogatori. I tempi dell'amministrazione sono ragionevoli, le
procedure semplici, negli uffici agiscono operatori competenti e
aggiornati, 1'arroganza e 1'oppressione burocratica sono bandite. Molte
regioni hanno sdoppiato il piano regolatore in due strumenti urbanistici,
uno di tipo strategico, valido a tempo indeterminato, 1'altro di natura
programmatica, molto più flessibile, il che consente di rispondere
adeguatamente alle variazioni della domanda, senza stravolgere il metodo
della pianificazione. La Toscana per prima, senza aspettare il federalismo,
ha attuato modelli efficaci di pluralismo istituzionale: le conferenze di
pianificazione o di programmazione hanno eliminato i rapporti gerarchici.
Ancora inorridisco al ricordo delle vessazioni subite da amministratore di
Napoli quando il presidente della Campania, Antonio Rastrelli, pretendeva
di imporre ai Comuni, anche al capoluogo regionale, una concezione
prefettizia dell urbanistica.
Ma anche l'Emilia Romagna, la Toscana 1'Umbria, le Marche sono ormai
stanche, rassegnate, sfiduciate, assediate. Subiscono il fascino del vento
del nord. Non sono più un riferimento per le regioni del Mezzogiorno
governate dal centro-sinistra, anch'esse progressivamente soggiogate dalla
linea milanese. Complici gli specialisti e gli operatori della materia.
Che fare? Non ho conclusioni da proporre, il pessimismo mi sembra difficile
da contrastare, irriducibile. Certo non esiste una soluzione specifica,
disciplinare, dei problemi di cui ho trattato. L'urbanistica è una faccia
della politica. La crisi dell'urbanistica è una faccia della crisi della
politica. Si potrebbero intanto valorizzare al massimo le esperienze e i
risultati alternativi al `rito ambrosiano', che pure ci sono. Pochissimi,
ma cì sono. Mancano però lo spazio, gli strumenti, le risorse e 1'interesse
per documentare che nell'urbanistica italiana non c'è solo il
`revisionismo', lo spirito della controriforma.