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sopravvivere grazie al caso



dal manifesto di sabato 7 ottobre 2000
 Sopravvivere grazie al caso 
 MARIO PORRO 

 Bisognerebbe leggere La vita in bilico. Il pianeta terra sull'orlo
 dell'estinzione (trad. di Allegra Panini e Giorgio P. Panini, Einaudi, pp.
 339, L. .28.000), l'ultimo libro di Niles Eldredge, curatore della
 collezione di invertebrati dell'American Museum di New York, partendo
 dalla fine: in cinquanta pagine di appendici sono riportate le liste delle
 specie animali estinte dal 1600 ai nostri giorni e delle 400 specie (fra
 microorganismi, funghi, piante e animali) essenziali alla sopravvivenza
 dell'uomo. Sono questi dati a fornirci il segnale inquietante della
 riduzione della biodiversità e il conseguente rischio di una "sesta
 estinzione": circa 27.000 specie all'anno scompaiono, talvolta senza che
 neppure sia stato possibile scoprirle, a causa delle trasformazioni
 prodotte dall'Homo sapiens. Sappiamo oggi quasi tutto della struttura
 del genoma umano, ma restiamo nell'ignoranza sul numero delle specie
 esistenti; a fronte di un milione e mezzo di specie registrate, si stima
 che ve ne siano fra i cinque e i cinquanta (o addirittura cento) milioni.

 Proprio questa ignoranza dovrebbe invitarci alla cautela e alla
 consapevolezza del limite nell'intervento sull'ambiente; la scomparsa di
 una specie può compromettere la totalità del sistema di cui è parte. La
 salute del bioterrestre si mantiene grazie all'interazione labirintica fra le
 specie che compongono gli ecosistemi; vi è un legame diretto fra la
 salute, la stabilità di un ecosistema e la varietà di specie, e proprio da
 quest'ultima dipende la stessa produttività. Nel Canarino del minatore
 (Sperling & Kupfer), Eldredge ricordava come i minatori fossero soliti
 portarsi sotto terra dei canarini in gabbia, sistema d'allarme della
 presenza di gas tossici; la scomparsa di alcune specie di rane (per l'uso
 dei pesticidi contro le zanzare e per la fragilità delle uova dovuta
 all'intensità dei raggi ultravioletti, sempre meno assorbiti dallo strato di
 ozono), la riduzione del numero di uccelli (fino a temere l'avvento di una
 "primavera silenziosa", diceva Rachel Carson in un noto libro dei primi
 anni Sessanta), la condizione critica delle barriere coralline sono altri
 canarini da cui gli ecologi traggono segnali preoccupanti sulla scarsa
 salute del nostro pianeta.
 La storia della vita sulla Terra è punteggiata di episodi di estinzione di
 massa, il più noto dei quali resta quello che portò, probabilmente per
 l'impatto di un asteroide, alla scomparsa dei dinosauri, sessantacinque
 milioni di anni orsono, alla fine del periodo Cretaceo: l'episodio più
 noto, ma non il più rilevante, visto che alla fine del periodo Permiano, al
 confine fra Paleozoico e Mesozoico, 225 milioni di anni orsono,
 scomparve circa il 90 per cento delle specie allora esistenti. I fenomeni
 di estinzione non hanno ricevuto fino agli ultimi decenni grande
 attenzione; ce ne ha spiegato il motivo Richard Leakey, uno dei
 massimi paleoantropologi viventi, in La sesta estinzione, scritto in
 collaborazione con il giornalista Roger Lewin (Bollati Boringhieri). Alla
 tradizione darwiniana, convinta dell'evoluzione graduale e continua delle
 specie, secondo mutamenti lenti e costanti, l'estinzione appariva come
 una pericolosa ricaduta nel catastrofismo di Cuvier, quasi una reliquia di
 antiche leggende religiose come il diluvio. Ma le testimonianze fossili
 non confermavano il gradualismo filetico, la transizione lenta ma
 inevitabile, cara all'epoca vittoriana, del cammino evolutivo.
 Non è un caso allora che l'attenzione rinnovata alle estinzioni di massa
 sia opera di studiosi che hanno avvertito l'esigenza di "ripensare
 Darwin" (come recita il titolo di un altro libro di Eldredge, edito da
 Einaudi nel '98), muovendo dal riconoscimento delle discontinuità che
 scandiscono le trasformazioni delle specie. La teoria degli equilibri
 punteggiati, proposta da Gould ed Eldredge nel 1972, si affida alle
 testimonianze fossili per delineare una diversa struttura del tempo dei
 viventi: lunghi periodi di stasi, in cui cioè non appaiono significative
 modifiche nella morfologia degli organismi, vengono interrotti da
 brusche variazioni, conseguenti in genere a trasformazioni dell'ambiente
 fisico. Il mutamento degli ecosistemi, ad esempio per ragioni
 climatiche, può provocare l'estinzione di una specie, ma alla
 frammentazione degli habitat possono rispondere anche lampi di
 creatività evolutiva e diversificazioni di specie.
 La paleontologia ci aiuta a riconoscere nelle estinzioni anche una forza
 creativa fondamentale che dà forma al flusso della vita: dopo
 l'esplosione del Cambriano - un'orgia di creatività e di selvaggia
 sperimentazione da cui ebbero origine i moderni piani corporei dei
 viventi - le estinzioni di massa hanno ristrutturato la biosfera, ridefinito
 le nicchie ecologiche nelle quali, dopo qualche milione di anni, è
 riapparsa la biodiversità.
 La vita sulla Terra non è un lento cammino ascendente, senza scosse,
 che culmina nell'uomo, è più simile a lunghi periodi di noia interrotti da
 brevi momenti di terrore. A determinare la sorte delle specie non è il
 grado migliore o peggiore dell'adattamento all'ambiente: più che di una
 gara in cui la vittoria arride ai più forti, si tratta di una lotteria che
 lascia il mondo ai fortunati sopravvissuti di un gioco casuale.
 L'estinzione di massa non è, come credeva Darwin (anche in questo in
 fondo buon vittoriano), un percorso in cui i deboli sono sconfitti, una
 competizione la cui posta è la sopravvivenza della specie: i perdenti
 sono usciti di scena più per cattiva sorte che per cattivi geni, come ha
 mostrato un collaboratore di Gould, David M. Raup, in L'estinzione.
 Cattivi geni o cattiva sorte? (Einaudi). Non ha dunque nessuna
 legittimità l'immagine dell'uomo come vertice dell'evoluzione e fine
 obbligato del suo percorso, dominatore della natura in virtù dei suoi
 meriti: in fondo anche la nostra specie non è che un accidente della
 storia della vita e se, come ha ripetuto Gould, riavvolgessimo il nastro
 dell'evoluzione e lo facessimo ripartire dall'inizio non otterremmo certo
 lo stesso film.
 Se il motore dell'evoluzione sta più in fattori ambientali esterni, come i
 mutamenti climatici, che nella competizione interna alle componenti
 degli ecosistemi, aumenta la nostra responsabilità nella conservazione
 dell'ambiente. Nell'estinzione giocano infatti altri fattori, oltre al puro
 caso: più solide risultano le specie con ampia distribuzione geografica e
 con ampio spettro di diversificazione fra gruppi affini; quanto più una
 comunità biotica è matura e ricca di specie tanto più resiste ai possibili
 assalti esterni. E le zone in cui la biodiversità è maggiore, come le
 foreste pluviali e il mare, sono i giacimenti delle novità evolutive, le
 riserve della variabilità genetica, ma anche quelle in cui maggiore è la
 vulnerabilità al turbamento, perché le specie sono adattate ad una
 gamma ristretta di condizioni ambientali.

 L'attività venatoria della specie Homo sapiens ha contribuito, fra i dodici
 e i diecimila anni orsono, al termine del Pleistocene, alla distruzione
 della megafauna (il mammuth è l'esempio più noto). Ma la situazione
 odierna ha tratti peculiari, dato che il nostro impatto sul pianeta Terra
 sta diventando globale e mette in discussione l'equilibrio della biosfera
 nel suo complesso. Certo i cicli della biosfera non obbediscono
 all'equilibrio statico, ad un ordine armonico e benefico; la vita è sempre
 "in bilico", la sua stabilità sta nella possibilità del mutamento, si regge
 sul tessuto variegato e complesso delle differenze. Le interazioni fra le
 specie di un ecosistema producono fluttuazioni che obbediscono alle
 dinamiche del caos e da esse si generano le variazioni essenziali
 all'evoluzione. Il ridursi del serbatoio della variabilità genetica, esito
 della tendenza a coltivare poche supervarietà di piante (più vulnerabili
 alle patologie), rischia di tradursi in un arresto del cammino evolutivo:
 la selezione agisce solo se può disporre delle varianti che si conservano
 nelle specie selvagge.
 La biodiversità non è misurabile solo in base ai criteri dell'homo
 oeconomicus: migliaia di specie sono fonti di beni utili, come il cibo e i
 medicinali (recente è la scoperta che dalla pervinca del Madagascar, una
 specie a rischio, si è ricavato un farmaco efficace nella cura delle
 leucemie), almeno 40.000 garantiscono il perpetuarsi dei cicli
 geobiochimici. Ma la biodiversità possiede anche valori non
 monetizzabili, risponde alle esigenze etiche ed estetiche degli esseri
 umani. Edward Wilson (si veda La diversità della vita, Rizzoli), ha
 proposto il termine "biofilia", per indicare il senso di adesione dell'uomo
 alla natura: biofilia è "l'affiliazione emozionale innata dell'uomo agli
 altri esseri viventi", che si è costituita nel comune viaggio con gli esseri
 che ci hanno accompagnato nell'evoluzione.
 Paleontologi come Eldredge e Leakey assumono un approccio ecologico
 all'evoluzione, si inscrivono nella tradizione del naturalismo che
 riconosce la complessità degli ecosistemi, in contrasto, direbbe
 Eldredge, con l'ultradarwinismo di quanti cercano una spiegazione
 dell'evoluzione di tipo riduzionistico, centrata sul patrimonio genetico.
 Si può studiare in laboratorio il motore dell'evoluzione, ma bisogna
 anche valutare come di fatto la macchina poi funziona su strada: i
 naturalisti prediligono l'esplorazione sul campo, nel delta dell'Okavango,
 ultimo residuo dell'Eden primordiale, a rischio di scomparsa, da cui
 prende avvio La vita in bilico, o sulle sponde del lago Turkana, nel caso
 di Leakey. La prospettiva del naturalismo salda, come fecero Thoreau,
 Muir e Leopold, l'indagine scientifica al senso di appartenenza alla
 comunità biotica, traduce lo sguardo ecologico in etica ambientale:
 come chiedeva Leopold, giusto è ciò che tende a salvaguardare
 l'integrità, la stabilità e la bellezza della Terra, insomma l'abito di
 Arlecchino della biodiversità.