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la crisi dei semi biotech



dal manifesto  23 Maggio 2000 
   La crisi dei semi biotech 
 L'industria biotecnologica si mette in vetrina alla Fiera di Genova. Ma
l'agricoltura  biotech è in crisi 
 MARINA FORTI 

 Sembrava un settore in pieno boom, l'equivalente agricolo della new
 economy. In solo quattro anni, tra il 1996 e il 1999 compreso, la
 superficie coltivata a specie "geneticamente modificate" era aumentata
 di venti volte, da 2 milioni di ettari a quasi 40 milioni di ettari. I titoli
 delle aziende produttrici di sementi transgeniche, e in generale biotech,
 erano tra i più coccolati da Wall Street. Poi, d'improvviso, la doccia
 fredda: questa primavera del 2000 la superfice coltivata a specie
 transgeniche è diminuita, secondo le prime stime, di addirittura un
 quarto rispetto al '99. I valori azionari scendono. D'improvviso,
 l'industria biotech appare in seria crisi.
 Cosa è successo? Semplicemente, che i consumatori hanno cominciato a
 chiedersi cosa mai stanno mangiando... Guardiamo il quadro tracciato
 dal WorldWatch Institute di Washington (Portrait of an Industry in
 Trouble, ricerca coordinata da Brian Halweil, febbraio 2000). Intanto
 bisogna dire che la stupenda crescita dell'agricoltura transgenica è stata
 finora concentrata in tre paesi: Stati uniti, Argentina e Canada, che da
 soli contano per il 99 per cento di quei 40 milioni di ettari piantati a
 sementi geneticamente modificate. C'è da notare che il boom riguarda
 pochissime specie, quelle più rilevanti dal punto di vista commerciale:
 soja, mais e colza sono ai primi posti.
 Ebbene, cosa è successo? Che i "consumatori" hanno cominciato a
 chiedersi cosa mai stiano mangiando. Gli argomenti di ambientalisti e
 scienziati "dubbiosi" hanno cominciato a farsi strada. In Europa un
 numero crescente di supermercati ha cominciato a togliere gli alimenti
 in odore di transgenico dagli scaffali, e le aziende alimentari hanno
 cominciato a garantire che loro di ingredienti "modificati" non ne
 useranno più. Gli stessi governi che prima parlavano con tanta fiducia di
 "novel foods", "cibi nuovi", ora borbottano che bisogna tenere conto
 delle preoccupazioni del pubblico. Così l'Unione europea, dopo aver di
 fatto sospeso ogni decisione sulla coltivazione di specie transgeniche
 sul vecchio continente, nell'ottobre '99 ha anche approvato il
 regolamento che obbliga a etichettare i prodotti che contengono oltre
 l'1% di ingredienti transgenici. Certo, resta un regolamento lacunoso: si
 applica ai prodotti finiti ma non alle sementi, ad esempio. Così
 l'azienda Advanta Seeds che negli ultimi due anni ha importato dal
 Canada sementi di colza in parte transgeniche, sesa saperlo e senza
 dirlo, dal punto di vista legale non ha fatto nulla di male.
 Eppure, ben prima che le etichette fossero obbligatorie, "il mercato" ha
 cambiato direzione. Le esportazioni di soja dagli Stati uniti all'Europa
 sono crollate da 11 milioni di tonnellate nel 1998 a 6 milioni di
 tonnellate l'anno scorso; il mais è sceso da 2 milioni di tonnellate a
 137mila tonnellate nello stesso periodo: una perdita combinata di un
 miliardo di dollari per l'export agricolo americano. Il motivo è semplice:
 le aziende alimentari e grandi catene di distribuzione, se vogliono
 davvero garantire prodotti non transgenici ai loro clienti, hanno bisogno
 materia prima non modificata: e negli Usa non c'è alcun obbligo di
 separare soja etc transgenici da quelli normali.
 L'effetto è trascinante, per l'industria biotech. Nel maggio 1999 la
 Deutsche Bank ha raccomandato ai suoi clienti-investitori di vendere i
 titoli di aziende attive nell'ingegneria genetica, ché gli Ogm (organismo
 geneticamente modificati) "sono morti". Si sta formando una sorta di
 doppio mercato, avvertiva: dove sono le materie prime agricole non
 transgeniche a comandare il prezzo. In effetti, fa notare la ricerca del
 WorldWatch Institute, le maggiori aziende che trattano i prodotti
 agricoli hanno cominciato a vendere a prezzi scontati i raccolti
 transgenici, che comportano per loro un maggiore rischio finanziario.
 Senza contare che anche negli Stati uniti, che restano il primo mercato
 per soja, mais, colza etc modificati, il vento cambia: anche là i
 consumatori cominciano a chiedersi cosa stanno mangiando. Nel
 novembre scorso le maggiori associazioni di farmers hanno avvertito i
 coltivatori: potreste essere considerati responsabili di danni ambientali,
 e dover pagare danni per cui non siete assicurati. Prospettiva
 preoccupante - che ha convinto molti a tornare a specie normali.