Chiesa monarchia
feudale
Il
pensiero della
settimana, n. 343, di Piero Stefani
Milano tra elezioni e
loro mancanza
Nel 2011 Milano
assisterà al rinnovo di due cariche. Una è già avvenuta con
l’elezione di Giuliano Pisapia a sindaco della città: un fatto
dalla valenza politica rilevante che, con ogni probabilità, sarà
assunto nei libri di storia come svolta irreversibile nel declino
politico dell’attuale presidente del consiglio. A seguito di
questo esito elettorale si stanno infatti mettendo in moto
dinamiche
che diffondono, a vasto raggio, la convinzione secondo la quale
Berlusconi ha imboccato, senza chance di recupero, il viale del
tramonto. Pure se, ipoteticamente, non fosse così, l’esistenza di
questa vasta percezione contribuisce in modo significativo a far
sì
che sia effettivamente così. Tutt’altro il discorso su quanto
avverrà dopo: qui l’incertezza regna sovrana.
L’altra carica da rinnovare è quella
di arcivescovo. Nel 2009, il card. Tettamanzi ha dato le
dimissioni
per raggiunti limiti di età. Come è ormai prassi, l’incarico
gli è stato rinnovato per due anni. Anche questi ultimi sono ormai
scaduti. Da mesi fioccano le previsioni sul successore. Se la
nomina,
non l’ingresso, fosse avvenuta prima delle elezioni
amministrative,
difficilmente qualcuno avrebbe ipotizzato una volontà da parte
della Chiesa cattolica di influire sul risultato elettorale. È
meno
vero il contrario. Specie se la scelta, come molti prevedono,
cadrà
infine sul card. Scola, sarà arduo scacciare il sospetto secondo
cui
una delle variabili che ha fatto propendere la bilancia dalla
parte
dell’attuale patriarca di Venezia sia stata la presenza di Pisapia
a palazzo Marino. Si tratterebbe di un sospetto tutt’altro che
infondato, diretto a screditare ulteriormente l’immagine che la
Chiesa cattolica offre di se stessa. Ancora una volta si è
sbagliata, quanto meno, la tempistica. Anche se fatta con debito
anticipo, una nomina come quella di Scola sarebbe stata
inevitabilmente letta come una vittoria di CL, ma lo stile sarebbe
stato meno compromesso. Se poi, ora, prevalesse un altro
candidato,
anche in questo caso sarebbe, ugualmente, dietro l’angolo il
sospetto che la sua nomina sia stata influenzata da una variabile
politica.
Legato al confronto
tra l’elezione del sindaco di
Milano e la nomina del futuro arcivescovo vi è, comunque, un
aspetto
più profondo di quello connesso alla cronaca politica. Dopo
molti
anni la sinistra riprenderà a governare Milano in virtù di
un
consenso che le viene dalla maggior parte dei cittadini. Con
tutti i
suoi limiti, il ricorso alle urne evidenzia, in modo
efficace, le
scelte della cittadinanza. Nulla di equivalente in seno alla
diocesi
ambrosiana. Qui si è in attesa di una nomina che viene
dall’alto
senza che sia possibile influenzarla in alcun modo.
Quando cambia un
vescovo, i fedeli devono solo aspettare
la decisione di Roma. Il nunzio indaga, consulta, propone
terne (ma
non sempre, per Milano non è stata fatta), infine consegna
il plico
al papa. Poi tutto procedere nelle stanze vaticane, finché
giunge
l’annuncio, secondo tempi e modi lasciati alla discrezione
del
pontefice. Il sistema di nomina dall’alto può avere esiti
anche
molto positivi. In base a esso, negli ultimi giorni del
1979, Carlo
Maria Martini fu nominato, a sorpresa, vescovo di Milano.
D’altra
parte se, in quell’occasione, si fosse dato libero corso
alle
dinamiche interne alla diocesi ambrosiana, nessuno si
sarebbe stupito
se CL fosse riuscita a far vincere un suo candidato. Eppure
il
verticismo monarchico in base al quale si attende un pastore
senza
consultare le sue future pecore, continua a essere
espressione di una
Chiesa retta dall’equivoco di spacciare per tradizione
irreformabile l’arroccamento attorno ad alcune specifiche
fasi
della propria storia.
Il fatto che, fino
all’epoca medievale, il vescovo
fosse eletto da clero e popolo, lungi dall’evitare abusi,
spesso li
favorì. Inserita in un sistema feudale, questa prassi
garantì il
predominio di alcune grandi famiglie. Per mutare clima si
imboccò la
via delle riforme. Nel caso della nomina del vescovo di
Roma, dal
1059 essa è, per esempio, affidata ai cardinali. I nostri
tempi sono
lontanissimi dal Medioevo. Ogni riforma va a sua volta
riformata.
Avviare processi grazie ai quali i fedeli di una diocesi
abbiano
parte attiva nella scelta del loro pastore è opzione che
solo una
forma miope di gestione del potere si rifiuta di prendere in
considerazione.
Nel 374 Ambrogio,
governatore della provincia romana
dell’Emilia-Liguria con sede a Milano, fu eletto, contro il
suo
parere, vescovo della città a furor di popolo. Ciò avvenne
quando
Ambrogio non era ancora battezzato (pur essendo già
cristiano).
Sulla scorta di questo precedente, qualche autore
surrealista
potrebbe scrivere una piéce teatrale al termine della quale
Giuliano Pisapia siede a capo della diocesi ambrosiana. Non
auspichiamo tanto. Ci basterebbe che si traessero le debite
conseguenze dal fatto che la struttura monarchica e lo
spirito
feudale, lungi dal far parte dell’intima natura della
Chiesa, ne
rappresentano solo una fase storica avviata, da gran tempo,
sul viale
del tramonto. Tuttavia proprio la prolungata dilazione del
crepuscolo, fa sì che essa sia ancora in grado di gettare
lunghe
ombre sul suolo ecclesiale.
Piero Stefani