Per l'occasione della
27a edizione della Festa dei Precursori (che si tiene quest'anno a Treia dal
7 al 15 maggio 201) vorrei portare il mio contributo facendo una breve
analisi di quello che è il mondo all'interno del quale, per motivi di
lavoro, opero.
Sono una veterinaria
che lavora presso una usl del nord Italia, il mio compito è quello di
effettuare controlli sulla produzione degli alimenti di origine animale (la
cosiddetta sicurezza alimentare) a partire dalla stalla, compreso il
controllo del benessere degli animali allevati.
Premetto che
personalmente mi sento molto poco un precursore. In questo mondo in cui
vivo, in cui viviamo, si sono fatti tanti progressi da tanti punti di vista,
ma secondo altri aspetti mi pare che siamo andati molto al di fuori delle
possibilità di vivere in armonia con la natura e con gli altri esseri
viventi, umani compresi. Essere un precursore, in questo ambito, secondo me,
vuol dire avere la consapevolezza di quello che c'è dietro all'alimentazione
a base di alimenti di origine animale e quindi ridurne il loro consumo. E'
quello che cerco di fare, avendone la consapevolezza giorno per
giorno.
Non vivendo a Treia
conosco poco la situazione della zootecnia nelle Marche mentre conosco
abbastanza bene quella dell'Emilia Romagna. Ma in un'epoca come la nostra
dobbiamo considerare tutto come interconnesso. Animali che nascono in
Francia, vengono allevati e macellati in Italia e una parte del ricavato
viene riesportato, ad esempio, fino in Africa.
Intanto
l'alimentazione umana in Emilia Romagna è molto basata su alimenti di
origine animale, anche per motivi di tradizione, infatti saprete che
prodotti come il Parmigiano Reggiano e il Prosciutto di Parma sono tra i
prodotti più conosciuti di questa regione, esportati in tutto il mondo.
Questa realtà così
semplice, apparentemente, e cioè la produzione di due cibi comuni su molte
delle nostre tavole, sottintende implicazioni etiche ed ecologiche
veramente, secondo me, molto complesse.
Sono fatti di cui si
comincia a sentir parlare spesso, ma per me che ci lavoro dentro, è
quotidiano il confronto ed il rimando a questi presupposti. Dietro
all'allevamento di milioni di animali negli allevamenti intensivi ci sono
dei risvolti che riguardano la morale sotto diversi aspetti: è giusto,
quando ci sono milioni di persone che muoiono di fame, utilizzare la maggior
parte dei cereali (mais e orzo prevalentemente) che vengono prodotti nel
mondo, per l'alimentazione del bestiame? Per produrre 1 chilo di carne ci
vogliono 9 chili di cereali. I terreni che sono utilizzati per la produzione
di cereali sono terreni sottratti alla coltivazione di alimenti per l'uomo.
La produzione di mangimi necessita movimenti mondiali di materie prime, con
grosse speculazioni dietro. Immagino navi cariche di mais e di soia (OGM,
perché ormai, quasi tutta la soia utilizzata è geneticamente modificata)
solcare l'oceano. Penso anche al lavoro degli agricoltori che ci sta dietro
e al lavoro da parte degli allevatori.
Quando l'allevamento
non era intensivo, cioè quando l'allevamento era commisurato al terreno su
cui insisteva, c'era un'armonia ed un reciproco arricchimento, tra
l'agricoltura e l'allevamento. Gli animali davano i loro prodotti (latte,
carne, uova, lana, setole, etc.) niente veniva sprecato ma uno dei prodotti
più importanti era il letame, non esisteva azienda agricola senza animali,
in ogni azienda agricola c'era una stalla, non esistevano i concimi chimici.
Fino a qualche decina di anni fa il letame era l'unico concime in grado di
restituire al campo il suo giusto nutrimento.
Gli animali lattiferi
almeno in alcune regioni d'Italia, venivano lasciati pascolare liberamente,
tutt'al più quando rientravano la sera in stalla veniva dato loro un piccolo
premio in forma di farina, e anche pascolando, concimavano il
terreno.
I suini e il pollame
venivano allevati in maniera familiare con gli scarti di cucina e qualche
pannocchia di granturco, così non si buttava via niente e non c'era la
produzione di rifiuti che c'è oggi.
E' vero che abbiamo
fatto progressi con la raccolta differenziata, ma l'"organico" è sempre un
rifiuto e come tale deve essere trasportato, lavorato, immagazzinato,
smaltito e non c'è un utilizzo diretto come avveniva una volta. A me sembra
che si parli tanto di progresso. ma come dice un certo detto, il progresso a
volte richiede di fare qualche passo indietro.
Gli allevamenti
intensivi, che sono nati a partire dagli anni '60, per soddisfare la
richiesta sempre maggiore da parte del mercato di prodotti di origine
animale, ha comportato la necessità di utilizzare pratiche sempre più
distanti da una naturalità di vita degli animali e così, gli animali devono
vivere una vita sul cemento, trasportati su autotreni per lunghe distanze,
in densità eccessive (ma regolari per legge), alimentati con prodotti sempre
più concentrati, per permettere le performance produttive stimolate dalla
selezione genetica.
Questo fatto ha
conseguenze negative molto importanti sulla salute degli animali stessi. Una
bovina lattifera allevata per la produzione di Parmigiano Reggiano ha una
vita media di 3 parti in 5 anni di vita, dopo di che o per problemi
ginecologici, podali, digestivi o mammari, deve essere scartata e
sostituita. Una volta una bovina da latte, superava tranquillamente i 10
anni di età. Per contrastare o prevenire le forme morbose dovute
all'eccessiva densità degli animali e l'eccessivo sfruttamento che abbassa
le difese immunitarie si fa un uso sempre più massiccio di antibiotici.
Tutto questo è la
norma e non vogliamo considerare la possibilità dell'uso illecito di
sostanze proibite. Per quella che è la mia esperienza personale,
l'allevatore è normalmente una persona, un produttore corretto, ma è il
sistema stesso che obbliga a fare uso di molecole di sintesi e a tenere gli
animali in condizioni di scarso benessere.
E questo è l'altro
aspetto morale della questione: quando mangiamo, teniamo in considerazione
questi fatti? La nostra alimentazione può essere basata sulla sofferenza di
milioni di animali? E' vero che la percezione della sofferenza negli animali
è ben lontana dalla nostra, non dobbiamo antropomorfizzare l'animale
d'allevamento, ma se possiamo non parlare di vera e propria sofferenza,
almeno dobbiamo considerare la vita dell'animale in un allevamento intensivo
come lontana dalla natura.
Non sarebbe possibile
ridurre il nostro consumo di alimenti di origine animale, ritornando ad un
tipo di allevamento più in armonia con l'ambiente?
“Da aperta che era un
tempo, l’umanità si è sempre più rinchiusa in sé stessa. Tale
antropocentrismo non riesce più a vedere, al di fuori dell’uomo, altro che
oggetti. La natura nel suo complesso ne risulta sminuita. Un tempo, in lei
tutto era un segno, la natura stessa aveva un significato che ognuno nel suo
intimo percepiva. Avendolo perso, l’uomo di oggi la distrugge e con ciò si
condanna” (Claude Lévi-Strauss).
Caterina
Regazzi
Referente per il
rapporto Uomo/Animali
Rete Bioregionale
Italiana