chi puo' la metta sulla sua bacheca....
da repubblica.it
lunedi 4 maggio 2009
Oggi denuncio
Facebook
Oggi presenterò una denuncia contro Facebook al presidente
dell’Autorità garante dei dati personali, il professor Francesco
Pizzetti. Con il mio legale sto valutando di ripetere l’iniziativa con
l’autorità per le Comunicazioni. Cos’è successo? Nulla di nuovo,
purtroppo, non sono che uno dei tanti cui Facebook ha cancellato
l’account senza alcun “warning” o avviso preventivo: centinaia di
messaggi personali, decine di testi e foto, 859 contatti. Il tutto
senza dare spiegazioni, senza dirmi il motivo del provvedimento. Ho
perciò deciso di fare di questa vicenda il terreno di una battaglia non
personale ma di diritto. Non si tratta di riavere indietro le mie poche
carabattole digitali.
E’ una questione di trasparenza e di legalità negate.
Ma facciamo un passo indietro e vediamo i fatti nel dettaglio. Poi
faremo qualche ragionamento.
“Il tuo account è stato disabilitato” e non ti diciamo perché - Alle
7,02 del mattino di venerdì primo maggio ho aperto dal mio iPhone il
programma di consultazione di Facebook. Non riuscivo ad entrare: login
o password non corretta, era la risposta del sistema. Mi sono
insospettito: le password erano memorizzate, non potevano esser
cambiate da sole. Allora ho acceso il computer ed ho visto il messaggio
di condanna: “la tua password è stata disabilitata”. Mi dicono che
posso contattare il team che si occupa dei rapporti con i clienti.
“Leggi i terms of service, paisà” - Ovviamente scrivo subito
all’indirizzo che mi è stato dato, in italiano e, poiché conosco i miei
polli, anche in inglese. Pochi minuti e mi arriva una mail (in
inglese). Evidentemente automatica. Dice che hanno ricevuto la mia
segnalazione, ma che nel frattempo mi consigliano di leggere i termini
d’uso - come per dire: hai la coscienza sporca, guardati dentro. E io
li rileggo - l’avevo già fatto, perché mi occupo di questo campo da 17
anni - e ho la conferma di ciò che già so: non ho violato nessuna delle
regole d’uso di Facebook.
Ma non posso fare a meno di notare la follia di un documento scritto in
parte in italiano ed in parte in inglese. I passi nella nostra lingua
non sono stati nemmeno rivisti da un correttore: ci sono parentesi che
non si chiudono, errori di lessico e qualche passaggio in puro italiano
“broccolino”. Sembra di stare nel Padrino con Marlon Brando.
Ma non siamo qui per fare colore: un testo come questo, che equivale a
un contratto, è nullo perché non scritto in modo consono. Ma intanto -
mi dico - mi risponderanno e mi daranno la possibilità di spiegargli
che si sono sbagliati…”. Amenoché…
“A pensar male, con tutto ciò che segue…” - A pensar male e a far
peccato, ci sarebbero due o tre “stati”, i pensierini di Facebook, in
cui ho ironizzato su fatti di cronaca. In uno ho scritto che si
attendeva un pronunciamento del papa contro i wurstel (una battuta
abbastanza tiepida sull’onnipresenza delle dichiarazioni pontificie,
pubblicata mentre imperversava la paura dell’influenza suina).
E poi ci sono vari articoli in questo post/rubrica in cui ho criticato
Facebook, proprio a proposito di ciò di cui mi sto occupando adesso: il
fatto che se succede il sia pur minimo incidente con il social network
non hai a chi rivolgerti perché l’azienda di Mark Zuckerberg si rifiuta
ostinatamente di aprire una rappresentanza italiana e il quartiere
operativo europeo, che è a Dublino, resta un’entità lontana,
irraggiungibile. Ma dai, mi son detto, stai a vedere che con 7 milioni
di utenti in Italia se la prendono proprio con te.
Intanto erano passate 24 ore e dal “team” ancora nessuna risposta.
I robot di Facebook e la paranoia - Per la verità ho anche scritto più
volte che Facebook è un grande fenomeno da prendere in seria
considerazione. E l’ho onorato con la mia presenza e con i miei
pensieri, come altri milioni di italiani fanno ogni giorno. L’ho fatto
perché di cultura digitale scrivi se sei con le mani in pasta nelle
diverse applicazioni, oppure fai solo elzevirismo inutile (e poi mi
piace, ciò che posso dire di tutto il mio lavoro).
In marzo, dopo che avevo riferito dell’account disabilitato (e poi
riattivato) a Nino Randisi, giornalista siciliano antimafia, ero stato
contattato in modo riservato da un professionista italiano. Era latore
di un messaggio da parte di una dirigente americana di Facebook. Mi
spiegavano che si era trattato di uno spiacevole incidente frutto
dell’errore dei “bot”, cioè di programmi che lavorano in automatico e
controllano l’attività degli utenti. Mi dicevano che può avvenire
quando magari uno “si muove troppo”, mette tanti video, pubblica troppe
foto, manda migliaia di mail e ha troppi commenti. Un errore della
“macchina” insomma. Avevo preso nota della rettifica, l’avevo
pubblicata, avevo ripetuto che mi sembrava un modo non rispettoso
delle persone e degli utenti italiani di gestire le cose solo in
automatico e senza un minimo di saggezza umana.
(Io per la verita mi “muovo” poco. Mando sì molte mail - siamo però
nell’ordine delle decine al giorno - ma tutte alle stesse persone,
perché Facebook fa presto a diventare una chat in differita. Certo,
c’è chi mi ha suggerito che si potrebbe ipotizzare che alla parola
“papa” sia associato un certo grado di vigilanza da parte dei medesimi
robot… ma Fb è piena di satira sul papa e le posizioni del Vaticano,
dovevano beccare proprio me?)
L’accusa non detta e il “sentirsi sporchi” - Più di uno mi ha
prospettato l’idea che qualcuno che conta si sia voluto liberare del
mio account: si può fare, si può segnalare all’azienda che i contenuti
di un certo utente sono “inappropriati”, poi però ci sarebbe da vedere
chi è che valuta la segnalazione. Ma insomma, non sono paranoico fino a
questo punto e comunque vado anche oltre: riconosco il diritto di
Facebook di liberarsi di chiunque, ma solo dopo aver detto con
chiarezza quale infrazione è stata commessa.
L’aspetto “culturalmente” inquietante di tutto ciò è che essere buttati
fuori da un giorno all’altro e senza spiegazioni ti mette in uno stato
di anomia. Ti fa sentire già colpevole anche se non conosci l’accusa.
Ricordate Kafka? : “Qualcuno doveva aver calunniato Josef K, perché
senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato…“.
E’ un meccanismo emotivo potente. Ho parlato con almeno cinque amici
che hanno insistito per interi quarti d’ora sul tema: “Riflettici,
qualcosa hai fatto, non possono averti buttato fuori per niente”.
Istintivamente, le persone tendono a ritenere colpevole chi è l’oggetto
di una pena “preventiva”.
E a proposito: a questo punto erano passate 48 ore dalla mia mail a
Facebook: nessuna risposta al mio messaggio…
Un problema di diritto - Ora, se permettete, qui il problema non è
personale. Non sono i miei contatti, cui pure tenevo molto. E non è
nemmeno problema di cosa abbia fatto io, per quanto io non abbia fatto
nulla di irregolare.
Qui il problema che abbiamo di fronte è quello dei diritti degli utenti
di Facebook e delle regole della piattaforma, che non possono andare
contro i principi che regolano lo stato italiano, oltre ad essere
contrari ad ogni buon senso. Del resto queste grandi aziende sono molto
“ragionevoli” quando sbarcano in paesi come la Cina: dicono che le
leggi locali vanno rispettate.
Quelle di un paese democratico possono essere ignorate?
E’ ora che questa assurdità venga corretta. Posso anche accettare di
essere espulso, se mi si spiega il motivo del provvedimento e mi si dà
la possibilità di argomentare in mio favore.
Ogni altro comportamento da parte dei gestori del sistema è illegale.
Habeas data: signori legislatori, ci sentite? - Ho difeso Facebook
contro l’emendamento repressivo del senatore D’Alia e lo rifarei mille
altre volte. Penso che ci sia un’oscena tendenza dell’establishment a
pensare in termini di “normalizzazione” repressiva di internet. Non è
questo il caso, non il mio almeno. Non sto chiedendo nessuna legge
ammazzafacebook e meno che mai misure a pioggia che danneggino le
aziende americane che in Italia hanno rappresentanza e reperibilità.
Solo il rispetto dei diritti degli utenti di Facebook e di qualsiasi
altra azienda che attui policy simili.
Signori deputati e senatori, signori deputati europei vecchi e nuovi:
occupatevi in modo positivo della vita digitale, invece di provare a
stroncarla, filtrarla, censurarla, e magari regalarla ai padroni del
vapore, oh scusate, di cavi e “cellule”… E quindi.
Quindi l’espressione Habeas data non è mia, ma si pone ormai come un
tema della società contemporanea. Non solo per le mie foto su Facebook
(che a proposito continuano ad essere a disposizione della piattaforma
e possono essere, in teoria, riusate da loro mentre io sono
disabilitato come utente) ma per tutti noi.
Non ci sono servizi gratuiti - C’è chi argomenta dicendo che la
gratuità del servizio “sospenda” ogni diritto agli utenti. Di solito si
tratta delle stesse persone che si inviperiscono contro i giornali on
line se solo gli si chiede di lasciare un mail per inserire un commento
sotto un articolo.
A parte che dovremmo riflettere se per caso non stiamo avallando, con
un click messo distrattamente sotto scassati “terms of service”, una
morte lenta di ogni garanzia, vorrei dire con tutte le mie forze: vi
sbagliate!
Io-utente pago Facebook e qualsiasi servizio “gratuito”: con i miei
dati, il mio tempo, i miei contenuti. E lo pago con l’uso che ne
faccio, perché contribuisco a migliorarlo e perfezionarlo. E’ questo il
patto su cui regge l’economia digitale.
Non c’è niente di scandaloso in questo, se non la pretesa di definire
gratuito il servizio, che invece tesaurizza in pubblicità, come fanno
anche i giornali on line del resto, il tempo di vita dell’utente.
Tutto chiaro: lo scandalo sta semmai nel volersi comportare come
principi di secoli antichi. Però Don Giovanni è finito all’inferno, e
Josef K. non abita più qui. O sì, invece?
Ridatemi i miei contatti: e che me li ridiate o meno, da oggi in poi su
questo tema è battaglia.
(Nel momento in cui questo post viene pubblicato sono passate 76 ore
dall’invio del messaggio di segnalazione: non ho ricevuto alcuna
risposta).
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