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Newsletter Alleanza per il Clima Italia
- Subject: Newsletter Alleanza per il Clima Italia
- From: segreteria at climatealliance.it
- Date: Wed, 13 Feb 2008 16:51:02 +0100
Progetti “domestici” per decarbonizzare l’economia - Intervista a Benoît Leguet Progetti “domestici” per decarbonizzare l’economia Intervista a Benoît Leguet, Direttore di Mission Climat di Caisse des Dépôts, Parigi a cura di Karl-Ludwig Schibel Benoît Leguet sarà ospite e relatore alla conferenza nazionale dell’Alleanza per il Clima, del Comune di Reggio Emilia e dell’Università di Modena e Reggio Emilia “Fare clima locale” il prossimo 18 marzo che si svolgerà nell’Aula Magna dell’Università di Reggio Emilia (Via Allegri). Relazionerà sulle prospettive di usare il mercato per “decarbonizzare” l’economia, il funzionamento dei progetti “domestici”, i vantaggi e i limiti. La materia non è semplice e rimane al lettore valutare fino a che punto lo sforzo dell’intervistatore di entrare nell’argomento come dilettante ha contribuito alla comprensibilità della conversazione con Benoît Leguet. Che cosa è un “progetto domestico”? Quando ho usato questa espressione il commento è stato se si intende “domestic” come in inglese “domestic flights”, cioè voli nazionali, e non domestic nel senso di “in casa”. Pertanto, che cosa è un “domestic project”? Usiamo l’espressione “domestic” nell’accezione anglosassone, quindi nel senso di nazionale. Fondamentalmente un progetto di compensazione domestica è un progetto che riduce le emissioni di gas serra sul territorio nazionale. Pertanto corrisponde a un progetto nell’ambito dei meccanismi flessibili del Protocollo di Kyoto, sia dei Clean Development Mechanism* che della Joint Implementation**. Il progetto non fa parte di nessuno schema di riduzione e riceve dei certificati per le attività volontarie che riducono le emissioni di gas serra. Perché i progetti domestici sono interessanti? Proponete di estendere i meccanismi del commercio delle emissioni a dei settori che finora non sono coinvolti nell’emission trading. Come lei ha detto stiamo parlando di progetti volontari, quindi chi dovrebbe essere interessato? Probabilmente questi progetti sono interessanti per noi perché siamo francesi. Sembra curioso, ma se lei guarda il piano nazionale di allocazione diventa evidente che solo un quarto delle emissioni fa parte del ETS, dell’European Trading Scheme***. Il piano nazionale di allocazione rappresenta solo il 23% delle emissioni nazionali, il che significa che solo un 23% delle nostre emissioni hanno un incentivo ad essere ridotte. Se si è un’industria che ha delle quote sotto l’ETS e riduce le emissioni riceve dei soldi, si possono vendere le quote e incassare, se non si fa parte del sistema europeo di commercio questo incentivo non si applica. Ci sono due modi di vedere la stessa cosa: si può dire che c’è il 23% coperto dal sistema europeo di commercio con degli incentivi finanziari per ridurre le emissioni o si può guardare dall’altro lato e dire che il 77% delle emissioni non hanno un incentivo ad essere ridotti. Ovviamente le cose non stanno così, ci sono altri incentivi come per esempio degli aiuti fiscali, tasse, ma per i tre quarti delle nostre emissioni non esistono incentivazioni alla riduzione. Visto che adesso con il sistema europeo di commercio delle quote di CO2 c’è un prezzo sul carbonio noi abbiamo pensato che potrebbe essere una buona idea estendere questo segnale di un prezzo di 25,00 euro per tonnellata di CO2 a quei settori che finora non fanno parte del commercio. Lei vede dunque questa proposta dei progetti domestici con una connessione al sistema europeo di commercio delle quote di CO2? Fondamentalmente sì, se si guarda l’ETS da un punto di vista economico si vede che questo è il mercato più grande a livello mondiale. Nel 2007 il sistema europeo rappresentava oltre il 70% del mercato globale del carbonio, quindi la domanda più grande per la riduzione dei gas serra si trova su questo mercato. Se poi si guarda il 30% rimanente si vede che una parte si svolge nell’ambito del Clean Development Mechanism, un mercato che è strettamente connesso a quello dell’ETS, visto che la domanda per progetti CDM nasce sul mercato europeo ETS. Quindi, la situazione che abbiamo è che il mercato europeo è quello più importante a livello mondiale per la domanda di riduzione delle emissioni di gas serra. Prima di connettere questo mercato con dei progetti molto distanti in India, in Cina o dove sia, l’idea di base è di connettere questi progetti di riduzione, nazionali o anche europei, con il sistema europeo di commercio in modo da introdurre il segnale del prezzo e decarbonizzare il resto dell’economia. In Francia, come dicevo, più del 70% delle emissioni non fanno parte del European Trading Scheme, in Europa sono complessivamente sempre un 60%. I progetti domestici creerebbero un incentivo per quelle aree che adesso non sono coperte dal commercio delle quote di CO2? Non sto dicendo che questa è la strada principale, ma che dobbiamo usare il segnale del prezzo per decarbonizzare l’economia. Se per ragioni politiche questo non dovesse bastare a lungo termine usiamo altri meccanismi, come ad esempio la detrazione fiscale: regionale, territoriale o anche locale, ecc.. Quindi lei sta dicendo che prima lasciamo risolvere al mercato quello che il mercato è in grado di risolvere e poi guardiamo la situazione per continuare da lì? Esattamente così. Usiamo quello che l’industria Europea è disponibile di pagare e poi possiamo supplementare queste riduzioni di CO2 con altri incentivi. Probabilmente ci sono un bel po’ di cose che il mercato non può fare perché è piuttosto miope e questo è anche vero per il commercio delle quote di CO2. Per uno sviluppo a lungo termine l’Unione Europea, ma anche i governi nazionali o locali, potrebbero decidere di investire di più nelle energie rinnovabili o in efficienza energetica e a questo punto si tratterebbe di attuare delle misure complementari a questi progetti domestici di riduzione. Stiamo parlando di una figura complementare, non c’è nessuna concorrenza tra i vari schemi. A questo punto ovviamente si pone la questione dell’addizionalità. Come si garantisce che i progetti per i quali vengono emessi dei certificati sono riconducibili a questo sistema di commercio delle quote? Il Clean Development Mechanism - perché normalmente si fa riferimento all’addizionalità nell’ambito di queste misure flessibili - è un meccanismo di salvaguardia ambientale, se il progetto nell’ambito del CDM non è addizionale significa che il limite complessivo, il “cap”, nei paesi dell’Annesso 1 diventa più flebile, quindi aumenta la quantità di emissioni permesse che non sono previste dal Protocollo di Kyoto. Pertanto è un problema ambientale e dobbiamo avere delle precauzioni a tale proposito per assicurare che complessivamente tutti quanti non emettiamo di più del limite complessivo. Se parliamo della Joint Implementation il problema si presenta in modo completamente diverso perché stiamo parlando di progetti all’interno dei paesi dell’Annesso I, vale a dire dei paesi che hanno un “cap” sotto il Protocollo di Kyoto. La differenza principale tra progetti di Joint Implementation e quelli del Clean Development Mechanism è che i primi si svolgono in paesi dell’Annesso I. Un progetto Joint Implementation non porta alla creazione di nuove quote di carbonio: le quote CO2 del paese che ospita la misura come definite dal protocollo di Kyoto, vengono semplicemente trasformate in crediti di carbonio e trasferiti all’investitore. Il “cap” complessivo per i paesi dell’Annesso I rimane invariato e il numero di crediti che un progetto di Joint Implementation riceve non ha nessuna conseguenza sull’efficienza ambientale del meccanismo. Lei sta dicendo che la riduzione veramente sta avvenendo e non importa dove questa riduzione viene registrata fin quando succede? Per i progetti di Joint Implementation l’addizionalità non ha tanta importanza quanto dal punto di vista economico: i paesi che ospitano le misure vogliono essere sicuri di pagare il “prezzo giusto” per le riduzioni di emissioni – sia in euro o in crediti di CO2 e al tempo stesso deve essere assicurato che i progetti offrono un vero incentivo per ridurre le emissioni. Il dibattito sull’addizionalità dei progetti di Joint Implementation non è tanto un problema del Ministero dell’Ambiente quanto un problema di arbitraggio del Ministero per l’Economia e le Finanze! Quello che sta succedendo in Australia, Nuova Zelanda e Canada - tutti e tre paesi del Protocollo di Kyoto che hanno introdotto i progetti nazionali - da qualche indicazione su in che direzione sta andando la vostra proposta o sono situazioni diverse? Non voglio approfondire sul Canada perché non sono sicuro che abbiano in funzione uno schema di commercio di quote, certo è che l’Australia e la Nuova Zelanda hanno uno schema. Per noi il caso interessante è la Nuova Zelanda che ha ratificato il Protocollo di Kyoto e ha organizzato i suoi progetti nazionali in parallelo ai meccanismi della Joint Implementation. Loro la chiamano “riduzione sulla base di progetti” e in fondo è la logica della Joint Implementation, a me risulta che finora ci siano una quarantina di progetti in corso. Usano un principio molto semplice cioè il rapporto tra le unità di riduzioni richieste e le unità di riduzioni che fattualmente avvengono, vale a dire le riduzioni certificate. Hanno preso questa quota, che è venuta fuori da un bando, e l’hanno usata per selezionare e accettare o meno i progetti proposti. Questo significa fondamentalmente che la Nuova Zelanda non ha dato un credito per ogni unità di riduzione di emissioni, ma ha dato di meno e questo ovviamente era la logica del bando. Sull’altro lato ci sono i paesi dell’Europa dell’Est che tendenzialmente danno via più certificati delle emissioni che veramente avvengono presumibilmente perché hanno molta “aria calda” e possono dare via molte quote e questo è un modo per diventare più attraenti per investitori dall’estero. Siamo su un dibattito economico, se si vuole essere più attraenti e se si pensa come stato nazionale di poter abbassare le emissioni a un costo minore, si possono dare via “troppi” certificati per progetti di Joint Implementation, se non si pensa così la tendenza sarà di emettere meno certificati ed essere meno attraenti per gli investitori. Sono questioni di politica economica. Questo ci porta alla mia ultima domanda. Lei ha in mente un quadro metodologico francese o un disegno europeo? Se ho capito bene lei favorisce i progetti nazionali a livello europeo proprio con l’argomento che un 60% delle emissioni di gas serra attualmente non sono coperte dal Protocollo di Kyoto, però tutto questo si svolge a seconda delle regole nazionali o di quelle europee? Io direi entrambi. Per il primo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto, il 2008/2012 dove rientriamo in questo momento, quello che abbiamo fatto negli ultimi due anni è stato di dare una mano al governo francese per sviluppare dei progetti nazionali di Joint Implementation. Abbiamo usato questo meccanismo perché è quello esistente e noi non volevamo inventarcene uno nuovo. Abbiamo quindi un quadro di regolamenti e metodologie francesi compatibili con l’inventario francese perché i progetti devono avere un qualche impatto verificabile sull’inventario nazionale. È una metodologia specificatamente francese perché abbiamo tanti incentivi e aiuti locali e come dicevo tutto questo si riferisce al 2008/2012. Per il periodo dopo il 2012 abbiamo elaborato una nuova proposta dove facciamo riferimento all’art. 24a delle direttive europee per il commercio delle quote di emissioni di gas serra che parla delle regole armonizzate per progetti europei. L’idea che c’è dietro è, a prescindere se ci sarà un Protocollo di Kyoto 2 o meno, di rendere possibile progetti europei che producono direttamente certificati europei. Non si andrebbe dunque attraverso Joint Implementation, cioè progetti tra due paesi con procedure burocratiche notevoli e autorizzazioni da due governi visto che sono coinvolti un paese che investe e uno che ospita la misura. Dal punto di vista di un investitore, tutto questo non ha molto senso. Vogliono qualcosa di semplice, non interessa il Protocollo di Kyoto ma guadagnare dei soldi per la riduzione delle emissioni. Intendiamoci è possibile che si preoccupino molto dei cambiamenti climatici come cittadini ma come gestori di progetti vogliono una procedura semplice, non troppo burocratica, che si svolge a livello nazionale o europeo - questo non fa una grande differenza - ma niente come la Joint Implementation. Non dico che è un meccanismo cattivo, lo stiamo utilizzando però deve essere semplificato. E per questo sono convinto che la mossa della Commissione Europea è ottima perché se possiamo avere delle regole armonizzate almeno a livello nazionale, meglio ancora a livello europeo, è una ottima cosa. Se i progetti producono direttamente dei certificati ancora meglio perché così gli investitori possono guardare il prezzo in qualsiasi borsa in Europa per vedere quanto vale un certificato europeo. Oggi nessuno sa quanto vale una unità di riduzione di gas serra, non esiste una piena fungibilità. Così com’è risulta un bel sistema per consulenti e per fare l’auditing, ma non lo è per ridurre le emissioni. Io ho lavorato in passato come auditore e so di che cosa sto parlando. L’idea non è di aumentare i costi di transazione, l’obiettivo è di concentrarsi sulla riduzione delle emissioni e di migliorare l’efficienza dei costi. Per concludere se guardiamo i progetti nazionali dal punto di vista macro economico significa far pagare l’industria europea per decarbonizzare una parte dell’economia; non pagherà il contribuente ma lo farà l’industria, vale a dire il consumatore secondo il principio “chi inquina paga” e questo da un punto di vista economico a me sembra sensato. Una delle domande che sicuramente sorgerà nell’ambito della conferenza di Reggio Emilia del 18 marzo sarà se e come è pensabile che gli enti locali entrino come attori in questo ambito dei progetti nazionali. Questo mi sembra molto interessante. I meccanismi della Joint Implementation sono molto complicati, noi come Caisse des Dépôts abbiamo fatto due cose per dare una mano agli investitori. Prima monetarizzare le unità di riduzione delle emissioni - invece di dare agli investitori le unità di riduzione delle emissioni noi gli garantiamo che compreremo queste unità in futuro fornendo dei soldi a chi fa i progetti. Questo per molti ha senso perché non gli occorrono 10.000 quote di riduzione di emissioni se non sanno che cosa fare con questi certificati, quindi noi ci impegniamo a comprare tra il 2008 e il 2012 le unità di riduzione, ad esempio per un prezzo di 12 euro a tonnellata di CO2, sempre a condizione che l’altro lato è in grado di fornire i certificati. La seconda cosa è di dare una mano per le procedure burocratiche, quello che abbiamo fatto è stato di pubblicare un bando per progetti di riduzione di emissioni e finora abbiamo delle proposte per l’abbattimento di 3 milioni di tonnellate di CO2 attraverso vari progetti di cui la maggior parte si trova nel settore dell’energia e dei trasporti - c’è anche un impianto per il trattamento delle deiezioni animali - e la cosa interessante è che la maggior parte dei progetti in questi due settori sono stati elaborati da governi locali. Le municipalità hanno la possibilità di ridurre le emissioni, anche se non lo sanno. Questo è il nostro lavoro, come Alleanza per il Clima cerchiamo di sensibilizzare gli enti locali e territoriali per i tanti modi in cui possono ridurre le emissioni di CO2 nel proprio territorio. E noi gli faremo vedere come fare dei soldi nel processo. ------------------------------------------------- * Joint Implementation - attuazione congiunta di progetti tra paesi che fanno parte del protocollo di Kyoto (paesi dell’Annesso I). JI permette ad individui in un paese sviluppato di investire in progetti di riduzione delle emissioni in altri paesi sviluppati ed ottenere in cambio crediti di carbonio. ** Clean Development Mechanism - permette alle imprese dei paesi industrializzati con vincoli di emissione di realizzare progetti che mirano alla riduzione delle emissioni di gas serra nei paesi in via di sviluppo senza vincoli di emissione. *** European Emission Trading Scheme (ETS) - La Commissione Europea ha istituito con la Direttiva comunitaria 2003/87/CE lo scambio di quote d’emissioni di gas ad effetto serra nella Comunità. Tale sistema di scambio ha creato un mercato delle emissioni, denominato Emission Trading Scheme (EU-ETS). L’Emission Trading è uno strumento economico di politica ambientale che presuppone un tetto alle emissioni (cap) per i singoli paesi, le industrie in questi paesi e per le imprese nelle varie industrie ed istituisce un sistema di commercio dei crediti di emissione, ovvero un mercato dei permessi di emissione. Benoît Leguet, è project manager di Mission Climat, un centro di ricerca e analisi sull’economia del carbonio alla Caisse des Dépôts, Parigi, Francia. La sua ricerca si concentra in questo periodo sui meccanismi basati su Kyoto, gli investimenti in titoli di carbonio e la neutralità CO2. Inoltre insegna sull’economia dei cambiamenti climatici in vari Istituti francesi di ingegneria, alla Università di Troyes di Tecnologia (UTT), all’Istituto Francese di Petrolio (IFP) e al centro dell’università di Stanford a Parigi. Con una formazione in Ingegneria industriale e una laurea in Scienze della Terra, Benoît ha conseguito un Master in Economia Ambientale presso l’università di Parigi X. Prima di raggiungere la Caisse des Dépôts ha lavorato come auditore e consulente per Deloitte di Parigi nel settore del petrolio ed energia. Contribuisce regolarmente alle pubblicazioni di “Mission Climat” ed è stato il principale contributore alle guide del Governo francese sui meccanismi di progetto del protocollo di Kyoto.
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