rassegna stampa: il caso parmalat



a cura di AltrAgricoltura Nord Est
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tratto da Affari e Finanza - La Repubblica - 16/12/03
Calisto, l'uomo che creò un impero e poi lo distrusse IL PERSONAGGIO/TANZI
HA COSTRUITO IN QUARANT'ANNI UNO DEI POCHI GRANDI GRUPPI INDUSTRIALI
ITALIANI E ANCHE UNO DEI PIÙ INTERNAZIONALI, POI LO HA PORTATO
SULL'ORLO DEL BARATRO

MARCO PANARA

Com'era l'Italia nel 1961? La televisione la si andava a vedere al bar o
dai vicini e sotto casa, se andava bene, c'era la seicento. I vestiti li
facevano le sartine e i mobili il falegname, la parola supermercato
probabilmente non c'era neanche nel vocabolario e il latte nelle città più
grandi lo distribuiva la Centrale, in quelle piccole e nei paesi passava il
lattaio. Alla Fiat comandava Valletta, alla Comit c'era Mattioli, a guidare
l'Eni, ancora per poco, era Enrico Mattei. L'Italia ribolliva, le periferie
delle grandi città si gonfiavano e i capannoni di nuove fabbriche nascevano
come funghi. Erano gli anni del miracolo, quelli nei quali è stato
costruito gran parte del benessere che ci stiamo godendo ancora adesso.
Calisto era un ragazzo in gamba. Un lavoratore, che prestissimo si è
rivelato anche un imprenditore di talento. La storia l'hanno raccontata in
tanti: la morte del padre nel 1961, l'idea di valorizzare il latte delle
campagne parmensi, l'altra idea di mettere il latte in quegli strani
tetraedri di cartone, la decisione di utilizzare una tecnica svedese che
portando il latte a una certa temperatura (molto elevata) consentiva di
conservarlo poi per mesi e mesi anche fuori dal frigorifero.
Nel 1970 la Parmalat faceva sei miliardi di fatturato, e ai prezzi di
allora non erano pochi. Berlusconi cominciava a fare i suoi primi affari
immobiliari, Lucchini macinava miliardi con il tondino, i grandi si
chiamavano Agnelli, Pirelli, Orlando, Pesenti. A Milano Cuccia pesava le
azioni e a Roma imperversavano i boiardi di stato.
Alcune intuizioni importanti consentono a Tanzi di fare il salto. Quella di
puntare sul marchio per esempio, di costruirlo e di valorizzarlo, e quella
di andare a produrre all'estero. Tanzi è uno di quelli che ha costruito.
Non un figlio di papà ma neanche un poveraccio, uno che ha potuto studiare,
che ha avuto delle idee e la capacità di realizzarle, che non avendo
risorse personali e familiari adeguate, ha usato con molta disinvoltura e
discreta freddezza i soldi delle banche. Politicamente democristiano,
cattolico con convinzione, legato per molti anni da un'amicizia molto
stretta con Ciriaco De Mita, buon amico in tempi più recenti di Silvio
Berlusconi, amico d'infanzia di Pietro Lunardi (parmense anch'egli).
E' stato uno dei primi a capire la potenza comunicativa dello sport,
sponsorizzando Thoeni, Stenmark e Niki Lauda, comprandosi, sponsorizzando e
facendo grande il Parma Calcio.
Prodotti, marchi, marketing, distribuzione, internazionalizzazione. Persino
la quotazione in Borsa, venerdì 17 agosto del 1990, con un flottante che
supera il 45 per cento del capitale.
Chi lo conosce dice di lui che è un uomo equilibrato, con una bella
famiglia sana, legatissimo alla moglie e ai figli e legatissimo
all'impresa, uno che pensa alle fabbriche, ai prodotti, alle quote di
mercato. Lui l'impresa non l'ha comprata ma l'ha fatta, il marchio Parmalat
non l'ha ereditato, e ai 7 miliardi e mezzo di euro di fatturato per il 70
per cento fuori dall'Europa c'è arrivato partendo quarant'anni fa da una
microazienda che vendeva prosciutti.
Fa parte di quella piccolissima schiera di imprenditori italiani che sono
cresciuti e sono diventati grandi. Un manipolo: i Benetton, Del Vecchio di
Luxottica, Merloni, Ferrero, Berlusconi. Il resto della grande industria
privata già c'era: Fiat, Pirelli, Edison, oppure era dello Stato, Telecom,
in alcuni casi lo è ancora, Eni, Enel, Finmeccanica. Un pezzo che c'era ora
non c'è più, Montecatini, Carlo Erba, Farmitalia, Olivetti. Nelle
classifiche per fatturato il gruppo Parmalat è oggi al settimo posto, con
7,5 miliardi di euro di fatturato globale. Ma è sull'orlo del baratro ed è
stato quello stesso Calisto Tanzi che l'ha costruita a portarcela.
Una delle caratteristiche del capitalismo è che le imprese nascono, a volte
crescono, prima o poi muoiono. Da noi ne nascono tante, ne crescono
pochissime e finché c'erano le partecipazioni statali non ne moriva quasi
nessuna perché ci pensava lo stato a tappare i buchi. Ora invece accade che
grandi gruppi scompaiano, è successo perfino alla Montedison e alla
Olivetti. Potrebbe accadere alla Parmalat e non ci sarebbe da stupirsi
troppo. E' il capitalismo, appunto.
A preoccupare e stupire sono altre cose. Preoccupa per esempio, ma dalla
crisi della Fiat in poi è quasi una litania, quanto siano poche le imprese
italiane che crescono e quanto spesso quelle poche si dimostrino fragili:
quando un paese ha cento multinazionali e ne crolla una è un trauma, quando
accade in un paese che ne ha cinque è un dramma. Ancora di più preoccupa la
constatazione che non ci sono regole e controlli che tengano.
La Parmalat non si è messa nei guai in un giorno né in un mese e neanche in
un anno. I suoi prodotti non sono diventati obsoleti all'improvviso, le sue
vendite non sono crollate verticalmente da un momento all'altro. Sui suoi
conti, che come sappiamo sono il vero problema, per mesi e per anni non
hanno avuto nulla da ridire il consiglio di amministrazione, il collegio
dei sindaci, le società di revisione, le banche che le prestavano i soldi e
quelle che collocavano le sue obbligazioni, gli analisti finanziari, le
agenzie di rating, la Consob, la vigilanza della Banca d'Italia.
E' strano. Nessuno in realtà crede che i consigli di amministrazione, in
un'azienda nella quale c'è un padrone, stiano lì a chiedere conto di questo
e di quell'altro, e nessuno crede neanche che i sindaci vadano molto al di
là delle carte che gli vengono messe davanti. Quello che colpisce sempre,
in questi casi, sono le banche. Perché le banche cacciano dei soldi, veri:
quando uno di noi va a chiedere 100 mila euro per comprare un appartamento,
la banca manda il suo perito (e ti fa pagare il costo) per vedere quanto
vale l'appartamento, vuole la tua denuncia dei redditi per controllare se
guadagni abbastanza per pagare le rate del mutuo, e solo se la casa vale e
guadagni abbastanza mette a disposizione i famosi 100 mila euro. Ma quando
va il signor Tanzi, o il signor Cragnotti o qualcun altro a chiedere 100
milioni di euro per finanziare una società alle Cayman che intende comprare
un'azienda in Brasile, la banca che fa? Va a controllare se la società in
Brasile esiste, se vale davvero quei cento milioni e se la società alle
Cayman ha una redditività tale da ragionevolmente garantire il rimborso del
finanziamento?
Questa volta non è il caso di intonare il solito coretto sulle
inadeguatezze delle banche italiane. Alle operazioni messe in piedi dai
ragionieri della Parmalat hanno partecipato Citigroup e Deutsche Bank, Bank
of America e Ubs, per citare solo alcune. Le banche italiane, a quel che
sembra, sono state soltanto più ingenue, perché a fronte dei soldi che
hanno prestato, sempre a quel sembra, hanno meno collaterali.
Resta il fatto che il gruppo Parmalat ha debiti finanziari tra 6 e 8
miliardi di euro, a fronte dei quali fino a pochi giorni fa ci veniva detto
che c'erano crediti e liquidità per circa 4 miliardi di euro. Si è scoperto
che quella liquidità non è per nulla liquida e che quei crediti forse non
sono così facilmente esigibili.
La cosa che stupisce è che è stato proprio Calisto Tanzi, che ha costruito
la Parmalat, a portarla verso il baratro. In genere sono i figli o i nipoti
a dissipare, o qualche compratore spregiudicato che acquista, spreme e
butta via. E invece no: Calisto fa e Calisto distrugge. Cosa spinge un
imprenditore a costruire un reticolo di società in paradisi fiscali che
sembra più adatta a chi vuole lavare denaro o far perdere tracce di
tangenti, che a una multinazionale quotata come la Parmalat?
Tappare buchi, tentare di risolvere scommettendo sulla finanza le
difficoltà incontrate con l'industria, coprire errori fatti con la
diversificazione o pagando troppo quando ha comprato per crescere? Noi ci
stupiamo ma non dovremmo. Tanzi non è una mammola, pur di crescere si è
sempre indebitato al limite e spesso anche oltre, e in Borsa, per chi non
lo ricorda, c'è andato con Giuseppe Gennari che era assai più un
faccendiere che un finanziere. Non è il primo a non sapersi fermare e a
perdere la strada.
Peccato! Per la Parmalat, ci eravamo abituati a vederla come una bella
azienda, una delle poche grandi aziende italiane.
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