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rassegna stampa: il caso parmalat
- Subject: rassegna stampa: il caso parmalat
- From: "Altragricoltura" <altragrico at italytrading.com>
- Date: Wed, 17 Dec 2003 20:48:14 +0100
a cura di AltrAgricoltura Nord Est ---------------------------- tratto da Affari e Finanza - La Repubblica - 16/12/03 Calisto, l'uomo che creò un impero e poi lo distrusse IL PERSONAGGIO/TANZI HA COSTRUITO IN QUARANT'ANNI UNO DEI POCHI GRANDI GRUPPI INDUSTRIALI ITALIANI E ANCHE UNO DEI PI&UGRAVE; INTERNAZIONALI, POI LO HA PORTATO SULL'ORLO DEL BARATRO MARCO PANARA Com'era l'Italia nel 1961? La televisione la si andava a vedere al bar o dai vicini e sotto casa, se andava bene, c'era la seicento. I vestiti li facevano le sartine e i mobili il falegname, la parola supermercato probabilmente non c'era neanche nel vocabolario e il latte nelle città più grandi lo distribuiva la Centrale, in quelle piccole e nei paesi passava il lattaio. Alla Fiat comandava Valletta, alla Comit c'era Mattioli, a guidare l'Eni, ancora per poco, era Enrico Mattei. L'Italia ribolliva, le periferie delle grandi città si gonfiavano e i capannoni di nuove fabbriche nascevano come funghi. Erano gli anni del miracolo, quelli nei quali è stato costruito gran parte del benessere che ci stiamo godendo ancora adesso. Calisto era un ragazzo in gamba. Un lavoratore, che prestissimo si è rivelato anche un imprenditore di talento. La storia l'hanno raccontata in tanti: la morte del padre nel 1961, l'idea di valorizzare il latte delle campagne parmensi, l'altra idea di mettere il latte in quegli strani tetraedri di cartone, la decisione di utilizzare una tecnica svedese che portando il latte a una certa temperatura (molto elevata) consentiva di conservarlo poi per mesi e mesi anche fuori dal frigorifero. Nel 1970 la Parmalat faceva sei miliardi di fatturato, e ai prezzi di allora non erano pochi. Berlusconi cominciava a fare i suoi primi affari immobiliari, Lucchini macinava miliardi con il tondino, i grandi si chiamavano Agnelli, Pirelli, Orlando, Pesenti. A Milano Cuccia pesava le azioni e a Roma imperversavano i boiardi di stato. Alcune intuizioni importanti consentono a Tanzi di fare il salto. Quella di puntare sul marchio per esempio, di costruirlo e di valorizzarlo, e quella di andare a produrre all'estero. Tanzi è uno di quelli che ha costruito. Non un figlio di papà ma neanche un poveraccio, uno che ha potuto studiare, che ha avuto delle idee e la capacità di realizzarle, che non avendo risorse personali e familiari adeguate, ha usato con molta disinvoltura e discreta freddezza i soldi delle banche. Politicamente democristiano, cattolico con convinzione, legato per molti anni da un'amicizia molto stretta con Ciriaco De Mita, buon amico in tempi più recenti di Silvio Berlusconi, amico d'infanzia di Pietro Lunardi (parmense anch'egli). E' stato uno dei primi a capire la potenza comunicativa dello sport, sponsorizzando Thoeni, Stenmark e Niki Lauda, comprandosi, sponsorizzando e facendo grande il Parma Calcio. Prodotti, marchi, marketing, distribuzione, internazionalizzazione. Persino la quotazione in Borsa, venerdì 17 agosto del 1990, con un flottante che supera il 45 per cento del capitale. Chi lo conosce dice di lui che è un uomo equilibrato, con una bella famiglia sana, legatissimo alla moglie e ai figli e legatissimo all'impresa, uno che pensa alle fabbriche, ai prodotti, alle quote di mercato. Lui l'impresa non l'ha comprata ma l'ha fatta, il marchio Parmalat non l'ha ereditato, e ai 7 miliardi e mezzo di euro di fatturato per il 70 per cento fuori dall'Europa c'è arrivato partendo quarant'anni fa da una microazienda che vendeva prosciutti. Fa parte di quella piccolissima schiera di imprenditori italiani che sono cresciuti e sono diventati grandi. Un manipolo: i Benetton, Del Vecchio di Luxottica, Merloni, Ferrero, Berlusconi. Il resto della grande industria privata già c'era: Fiat, Pirelli, Edison, oppure era dello Stato, Telecom, in alcuni casi lo è ancora, Eni, Enel, Finmeccanica. Un pezzo che c'era ora non c'è più, Montecatini, Carlo Erba, Farmitalia, Olivetti. Nelle classifiche per fatturato il gruppo Parmalat è oggi al settimo posto, con 7,5 miliardi di euro di fatturato globale. Ma è sull'orlo del baratro ed è stato quello stesso Calisto Tanzi che l'ha costruita a portarcela. Una delle caratteristiche del capitalismo è che le imprese nascono, a volte crescono, prima o poi muoiono. Da noi ne nascono tante, ne crescono pochissime e finché c'erano le partecipazioni statali non ne moriva quasi nessuna perché ci pensava lo stato a tappare i buchi. Ora invece accade che grandi gruppi scompaiano, è successo perfino alla Montedison e alla Olivetti. Potrebbe accadere alla Parmalat e non ci sarebbe da stupirsi troppo. E' il capitalismo, appunto. A preoccupare e stupire sono altre cose. Preoccupa per esempio, ma dalla crisi della Fiat in poi è quasi una litania, quanto siano poche le imprese italiane che crescono e quanto spesso quelle poche si dimostrino fragili: quando un paese ha cento multinazionali e ne crolla una è un trauma, quando accade in un paese che ne ha cinque è un dramma. Ancora di più preoccupa la constatazione che non ci sono regole e controlli che tengano. La Parmalat non si è messa nei guai in un giorno né in un mese e neanche in un anno. I suoi prodotti non sono diventati obsoleti all'improvviso, le sue vendite non sono crollate verticalmente da un momento all'altro. Sui suoi conti, che come sappiamo sono il vero problema, per mesi e per anni non hanno avuto nulla da ridire il consiglio di amministrazione, il collegio dei sindaci, le società di revisione, le banche che le prestavano i soldi e quelle che collocavano le sue obbligazioni, gli analisti finanziari, le agenzie di rating, la Consob, la vigilanza della Banca d'Italia. E' strano. Nessuno in realtà crede che i consigli di amministrazione, in un'azienda nella quale c'è un padrone, stiano lì a chiedere conto di questo e di quell'altro, e nessuno crede neanche che i sindaci vadano molto al di là delle carte che gli vengono messe davanti. Quello che colpisce sempre, in questi casi, sono le banche. Perché le banche cacciano dei soldi, veri: quando uno di noi va a chiedere 100 mila euro per comprare un appartamento, la banca manda il suo perito (e ti fa pagare il costo) per vedere quanto vale l'appartamento, vuole la tua denuncia dei redditi per controllare se guadagni abbastanza per pagare le rate del mutuo, e solo se la casa vale e guadagni abbastanza mette a disposizione i famosi 100 mila euro. Ma quando va il signor Tanzi, o il signor Cragnotti o qualcun altro a chiedere 100 milioni di euro per finanziare una società alle Cayman che intende comprare un'azienda in Brasile, la banca che fa? Va a controllare se la società in Brasile esiste, se vale davvero quei cento milioni e se la società alle Cayman ha una redditività tale da ragionevolmente garantire il rimborso del finanziamento? Questa volta non è il caso di intonare il solito coretto sulle inadeguatezze delle banche italiane. Alle operazioni messe in piedi dai ragionieri della Parmalat hanno partecipato Citigroup e Deutsche Bank, Bank of America e Ubs, per citare solo alcune. Le banche italiane, a quel che sembra, sono state soltanto più ingenue, perché a fronte dei soldi che hanno prestato, sempre a quel sembra, hanno meno collaterali. Resta il fatto che il gruppo Parmalat ha debiti finanziari tra 6 e 8 miliardi di euro, a fronte dei quali fino a pochi giorni fa ci veniva detto che c'erano crediti e liquidità per circa 4 miliardi di euro. Si è scoperto che quella liquidità non è per nulla liquida e che quei crediti forse non sono così facilmente esigibili. La cosa che stupisce è che è stato proprio Calisto Tanzi, che ha costruito la Parmalat, a portarla verso il baratro. In genere sono i figli o i nipoti a dissipare, o qualche compratore spregiudicato che acquista, spreme e butta via. E invece no: Calisto fa e Calisto distrugge. Cosa spinge un imprenditore a costruire un reticolo di società in paradisi fiscali che sembra più adatta a chi vuole lavare denaro o far perdere tracce di tangenti, che a una multinazionale quotata come la Parmalat? Tappare buchi, tentare di risolvere scommettendo sulla finanza le difficoltà incontrate con l'industria, coprire errori fatti con la diversificazione o pagando troppo quando ha comprato per crescere? Noi ci stupiamo ma non dovremmo. Tanzi non è una mammola, pur di crescere si è sempre indebitato al limite e spesso anche oltre, e in Borsa, per chi non lo ricorda, c'è andato con Giuseppe Gennari che era assai più un faccendiere che un finanziere. Non è il primo a non sapersi fermare e a perdere la strada. Peccato! Per la Parmalat, ci eravamo abituati a vederla come una bella azienda, una delle poche grandi aziende italiane. ----------------------------- N.B. se volete essere cancellati da questa lista scrivete a altragricoltura at italytrading.com
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