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clima e poverta'
- Subject: clima e poverta'
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Sat, 15 Dec 2001 06:40:39 +0100
da legambiente.it Proteggere il clima, battere la povertà Un mondo diverso è possibile Firma anche tu la petizione di Legambiente Chico Mendes era un "seringueiro"- un raccoglitore di caucciù - di Xapuri, nell’Amazzonia brasiliana. Spese la sua vita per salvare la foresta, contro i latifondisti che bruciavano e tagliavano gli alberi, e per salvare con essa i "seringueiros", che di foresta vivevano. Mendes fu un grande leader sindacale ed ambientalista, grazie a lui l’opinione pubblica di tutto il mondo e gli stessi ambientalisti si avvicinarono al dramma della deforestazione in Amazzonia e capirono il nesso strettissimo che lega, prima di tutto nel Sud del mondo ma non solo, la tutela dell’ambiente con la difesa della dignità e del futuro dei popoli, l’azione per neutralizzare il rischio climatico con la lotta contro il sottosviluppo. Il 22 dicembre 1988 Chico Mendes venne assassinato da sicari assoldati dai grandi allevatori. Il suo nome è legato indissolubilmente all’impegno per fermare i mutamenti climatici e per combattere la povertà. Clima e povertà un mondo diverso è possibile è la campagna di Legambiente per denunciare e contribuire a combattere il circolo vizioso tra mutamenti climatici e sottosviluppo. La campagna si articola in iniziative d’informazione, giornate di mobilitazione, azioni concrete di solidarietà. Queste le sue tappe: Distribuzione di materiali informativi sull’intreccio tra clima e povertà; Una petizione popolare: per impegnare il governo, le regioni, gli enti locali alla riduzione del 6,5% delle emissioni di anidride carbonica, per ottenere la destinazione dello 0,7% del Pil a programmi di cooperazione allo sviluppo; Una proposta per ridurre del 50% entro 20 anni la dipendenza del nostro sistema energetico dal petrolio, attraverso azioni per promuovere l’uso razionale dell’energia e diffondere l’uso delle fonti rinnovabili; Una raccolta fondi per finanziare progetti di solidarietà nel Sud del Mondo; Iniziative di informazione e sensibilizzazione nelle scuole. ---------------------------------------------------------------------------- ---- Il materiale divulgativo della campagna "Clima e povertà" è disponibile anche in formato Acrobat: Opuscolo Locandina Il riscaldamento del pianeta è una prospettiva sempre più concreta, che rischia di diventare inarrestabile se proseguiranno ai ritmi attuali le emissioni in atmosfera di anidride carbonica e degli altri gas serra, generate dalla combustione di petrolio e gas. Gli anni '90 sono stati il decennio più caldo da quando esistono le statistiche meteorologiche, e gli scienziati concordano che un ulteriore aumento anche di pochi decimi di grado della temperatura terrestre porterebbe conseguenze catastrofiche: intere regioni costiere verrebbero sommerse dal mare, gran parte dei ghiacciai si scioglierebbe, l'avanzata dei Il compito di fermare i mutamenti climatici spetta prima di tutto ai Paesi industrializzati, che con il 20% della popolazione mondiale sono responsabili di oltre metà delle emissioni: bisogna incentivare il risparmio energetico, promuovere le fonti rinnovabili, ridurre il trasporto su strada, trasferire ai Paesi poveri le tecnologie necessarie per produrre energia senza danneggiare il clima Il petrolio è il nemico numero uno del clima ed è anche un potente fattore d'inquinamento e di tensioni geopolitiche, solo una drastica riduzione della dipendenza dal petrolio degli attuali sistemi energetici può avviare il mondo verso un futuro di benessere per tutti e di pace tra gli uomini e con la natura. Per realizzare questo obiettivo serve una svolta radicale nelle politiche energetiche, che punti in particolare sullo sviluppo delle fonti rinnovabili e in primo luogo dell'energia solare ed eolica: oggi l'Italia... Polli alla diossina, mucche pazze, bovini alimentati come carnivori, frutta e verdura ai pesticidi, fragole con geni di pesce: degenerazioni che sono il frutto di decenni di separazione crescente tra agricoltura e natura, e che hanno reso i consumatori sempre più preoccupati ed insicuri. Oggi vi sono alcuni segnali incoraggianti - basti pensare al boom dell'agricoltura biologica in Italia -, ma la china generale resta pericolosa. Problema dei problemi gli organismi geneticamente modificati: perché i rischi ambientali e sanitari sono tuttora da decifrare, e soprattutto perché l'agricoltura "biotech", interamente nelle mani di un piccolo gruppo di multinazionali, è una minaccia per le produzioni tipiche e di qualità, principale valore aggiunto dell'agricoltura italiana ed europea, e per i Paesi poveri, che per il meccanismo dei brevetti già oggi versano migliaia di miliardi nelle casse di industrie tutte concentrate nel Nord del mondo. Secondo alcuni studi scientifici, entro mezzo secolo sarà estinto un quarto di tutte le specie animali e vegetali oggi esistenti. La perdita di biodiversità è il risultato di una serie di fenomeni provocati dall'uomo, primo fra tutti la deforestazione che cancella a ritmi forsennati l'habitat di gran parte delle specie viventi. Solo tra il 1980 e il 1995 sono andati perduti 200 milioni di ettari di foresta tropicale, pari ad una superficie più grande di quella del Messico. Luogo simbolo della deforestazione è l'Amazzonia, dove ogni secondo viene distrutta una superficie pari ad un campo di calcio: e proprio in Amazzonia la lotta dei "seringueiros", i raccoglitori di caucciù, guidati da Chico Mendes contro i latifondisti responsabili del taglio e dell'incendio della foresta, ha mostrato con drammatica evidenza il nesso strettissimo tra tutela dell'ambiente e difesa degli interessi dei più deboli. Nel 1988 Chico Mendes è stato assassinato da sicari assoldati dai grandi proprietari terrieri, il suo nome ed il suo esempio vivono nell'impegno di milioni di uomini e donne contro la distruzione dell'ambiente e per il riscatto dei poveri del mondo. In Africa, 400 milioni di persone si trovano a combattere ogni giorno della loro vita contro il progredire inesorabile dei quasi 700 milioni di ettari di deserti. I dati sulla desertificazione, alimentata provocata dallo sfruttamento intensivo del suolo, dalla realizzazione di dighe e altre grandi opere idriche, dai mutamenti climatici, sono impressionanti: in media essa conquista ogni anno il 3,5% delle terre fertili, e la percentuale sale di moltissimi nelle regioni tropicali. Secondo la Fao, più di 800 milioni di persone soffrono letteralmente la fame. Negli Stati Uniti, il 55% degli adulti è sovrappeso. La penuria d'acqua è un problema ogni giorno più drammatico, che rende sempre più incerto il futuro dell'agricoltura e dell'alimentazione nei Paesi poveri: in India, per esempio, le falde freatiche si abbassano di oltre 1 metro ogni anno. L'ideologia liberista che attualmente governa i processi di globalizzazione costringe centinaia di milioni di persone nei Paesi poveri a lavorare in condizioni al di sotto di ogni limite accettabile di dignità, e produce incertezza e crisi a catena. Il crollo pochi anni fa dei mercati asiatici, che ha gettato nella miseria milioni di lavoratori, è il risultato di questa logica, che privilegia gli interessi speculativi rispetto all'obiettivo che si creino nel Sud del mondo economie solide. Contro questo modello, il movimento antiliberista ha lanciato la proposta della "Tobin Tax", imposta sulle transazioni internazionali a breve il cui gettito verrebbe utilizzato per finanziare la cooperazione allo sviluppo: una misura che scoraggerebbe i movimenti di capitali a fini puramente speculativi e favorirebbe invece gli investimenti produttivi. Nel mondo vi sono più di 22 milioni di rifugiati, persone costrette a lasciare il loro Paese a causa di conflitti o persecuzioni: circa 15 milioni provengono dall'Asia e dall'Africa, 6 milioni dall'Europa, oltre un milione dall'America settentrionale. A questi vanno aggiunti almeno 30 milioni di "rifugiati interni", persone sfollate dentro il loro Paese a causa di guerre o calamità naturali, e 80 milioni di persone costrette a lasciare le loro case per la costruzione di infrastrutture o lo sfruttamento intensivo del terreno. Le spese militari assorbono circa il 3% del prodotto lordo mondiale, e sono destinate a crescere ancora. Il fenomeno riguarda tanto i Paesi poveri, dove spesso i regimi dittatoriali spendono in armi gran parte degli aiuti internazionali, quanto i Paesi ricchi. L'Italia, che è penultima tra i Paesi Ocse nella spesa per la cooperazione allo sviluppo, mentre nell'ultima finanziaria sono previsti aumenti significativi delle spese militari. Il debito dei Paesi poveri è di oltre 2400 miliardi di dollari, pari a oltre il 150% delle loro esportazioni. Era di 1470 miliardi nel 1980 e di 600 miliardi nel 1970. Il problema del debito costituisce un grave ostacolo per lo sviluppo dei Paesi più poveri, costretti a spendere per ripagarlo molto di più che per l'istruzione o l'assistenza sanitaria. Un cartello mondiale di centinaia di associazioni ha lanciato la richiesta che i Paesi ricchi riducano entro il 2010 le spese militari del 20%, investendo le somme risparmiate in programmi di cooperazione allo sviluppo, che cancellino tutti i loro crediti verso i Paesi più poveri, che spingano anche la Banca Mondiale e il Fondo monetario a cancellare il debito. In questi anni il "pensiero unico" ha avvalorato l'idea che per competere nel mondo globalizzato tutti i Paesi debbano uniformarsi ad uno stesso modello, mutuato meccanicamente dall'Occidente. Questa prospettiva non è soltanto insostenibile sul piano ambientale e culturalmente inaccettabile, visto che condannerebbe all'estinzione saperi e tradizioni locali: è anche economicamente perdente, poiché proprio le ragioni di una sempre più serrata concorrenza tra mercati impongono ad ogni Paese, ad ogni economia di valorizzare le proprie "vocazioni". Una prova? Dei dieci prodotti recentemente indicati da una rivista americana come i più "globalizzati", quasi tutti sono a forte identità; dal Chianti, alla pizza, alla stessa Coca Cola che si può davvero considerare un "prodotto tipico" americano. Un miliardo e trecento milioni di persone ha meno di un dollaro al giorno per vivere. Se nel 1960 il 20% più ricco della popolazione mondiale possedeva un reddito trenta volte superiore a quello del 20% più povero, oggi la proporzione di 82 a 1, mentre tre quinti dei 4,4 miliardi di abitanti dei Paesi poveri vivono in comunità prive di infrastrutture igieniche di base, circa un terzo non dispone di acqua potabile e un terzo dei bambini è sottonutrito e non raggiunge la quinta classe della scuola. A fronte di ciò il 20% della popolazione mondiale, quella dei Paesi industrializzati consuma l'83% delle risorse planetarie. Aumentare nel Nord del mondo gli stanziamenti destinati alla cooperazione allo sviluppo non è beneficienza: è un inizio di risarcimento per una globalizzazione ritagliata sugli interessi di pochi privilegiati. Nei Paesi poveri vi sono 250 milioni di bambini tra i 5 e i 14 anni che lavorano: il 61% vive in Asia, il 32% in Africa, il 7% in America Latina. Tre quarti dei palloni da calcio venduti nel mondo sono fabbricati da alcune centinaia di bambini pakistani: dieci ore di lavoro al giorno, 1500 lire di paga. In tutto il mondo ogni anno circa 1,2 milioni di donne e ragazze con meno di 18 anni è oggetto di "traffico" a scopo di prostituzione. In Brasile 2 milioni di bambini si prostituiscono, in Thailandia 800mila. Negli anni '90 circa 300 mila bambini sono stati soldati e sei milioni di bambini sono stati feriti in scontri armati. In Cina 90 milioni di bambini non frequentano la scuola elementare. In Italia più di 100mila bambini sotto i 14 anni lavorano invece di andare a scuola. C’era un tempo in cui la difesa dell’ambiente era vista da molti come una preoccupazione "da ricchi", come un lusso incompatibile con l’esigenza dello sviluppo, soprattutto nel Sud del mondo, con l’esigenza. Questa idea è stata smentita drammaticamente dai fatti, e oggi è evidente a tutti che sono proprio i Paesi poveri a pagare i prezzi umani più alti per il degrado ambientale, l’inquinamento, la dissipazione delle risorse naturali. Basti dire che in Asia l’inquinamento fecale dei fiumi supera di cinquanta volte quello dei Paesi industrializzati, o che nelle città del Sud del mondo tra il 20% e il 50% dei rifiuti domestici non viene raccolto. Tra i problemi ambientali, l’aumento dell’effetto serra e il rischio conseguente di mutamenti climatici sono quelli per i quali l’intreccio con la povertà e il sottosviluppo è più forte. Dai Paesi poveri viene soltanto una piccola quota delle emissioni di anidride carbonica e degli altri gas serra, ma gli effetti di un incremento della temperatura sulla Terra — avanzata dei deserti e delle zone aride, incremento dell’incidenza di malattie endemiche come la malaria — colpiscono con particolare violenza nel Sud del mondo, rendendo ancora più precarie le condizioni di vita di centinaia di milioni di persone che già oggi fanno i conti ogni giorno con la fame, la miseria, le malattie. E d’altra parte, proprio il sottosviluppo alimenta fenomeni, come la deforestazione, che aggravano il rischio climatico. Per tutto questo, fermare l’aumento dell’effetto serra è un passo obbligato se si vuole sconfiggere la povertà. Un passo che devono compiere prima di tutto i Paesi ricchi, responsabili della stragrande maggioranza delle emissioni dannose per il clima, un passo che impone di ridurre i consumi di petrolio e di fonti energetiche fossili (la fonte di gran lunga principali delle emissioni di gas serra) e di mettere a disposizione dei Paesi più poveri le tecnologie necessarie per uno sviluppo davvero sostenibile. Finora i Paesi ricchi si sono sottratti a questa responsabilità. Il Protocollo di Kyoto, approvato nel 1997 e che fissa obiettivi vincolanti di riduzione delle emissioni di gas serra, non è ancora stato ratificato da nessun Paese occidentale, e gli Stati Uniti, che da soli emettono un quarto di tutti i gas serra, se ne sono apertamente chiamati fuori. Con la campagna su clima e povertà, Legambiente vuole denunciare l’intreccio strettissimo tra rischio climatico e sottosviluppo, e richiamare il mondo ricco nel quale viviamo alle sue responsabilità. Negli ultimi mesi, da Seattle a Genova alla Perugia-Assisi, è cresciuto in tutto l’Occidente e in particolare in Italia un grande movimento che si batte contro questa globalizzazione "ritagliata" sull’interesse di pochi, che eleva il mercato e la logica del profitto a categorie ideologiche e riduce le relazioni umane ad una dimensione esclusivamente mercantile. Legambiente è protagonista in questo nuovo, grande fenomeno di partecipazione e di pensiero critico. Un mondo diverso è possibile, un mondo che sia "nonsolomerci" e sia tanti più e tanti meno: più coesione sociale e meno liberismo, più diritti umani e democrazia meno schiavitù, più cancellazione del debito e meno spese militari, più identità culturale e meno omologazione, più cooperazione allo sviluppo e meno povertà, più istruzione e meno lavoro minorile, più risparmio energetico e meno effetto serra, più fonti rinnovabili e meno petrolio, più trasporto pubblico e meno anidride carbonica, più biologico e meno pesticidi, più sicurezza alimentare e meno Ogm, più biodiversità e meno deforestazione. La campagna su clima e povertà è un mattone per costruire questo mondo diverso e possibile. Alcuni gas presenti nell’aria, detti "gas serra", hanno la capacità di assorbire il calore di quella quota di radiazioni solari che una volta "rimbalzata" sulla superficie terrestre sfuggirebbe poi verso lo spazio: più cresce la loro concentrazione, e più aumenta la quantità di calore intrappolata nell’atmosfera e dunque, tendenzialmente, la temperatura sul nostro pianeta. Sono "gas serra’ l’anidride carbonica (C02), i clorofluorocarburi (CFC), il metano (CH4), l’ossido di azoto (N20), l’ozono troposferico (03). La concentrazione dei ‘gas serra" nell’atmosfera cresce sia per l’aumento delle emissioni dovute ad attività umane sia, nel caso dell’anidride carbonica, per la sistematica distruzione di milioni di ettari di foresta: gli alberi, infatti, agiscono da veri e propri "accumulatori" di carbonio, e per ogni ettaro di foresta bruciato cresce quindi di un po’ la quantità di anidride carbonica liberata nell’aria, e con essa l’effetto serra. A partire dalla rivoluzione industriale, la concentrazione dei "gas serra" nell’atmosfera è progressivamente aumentata: era di 280 parti per milione alla metà dell’Ottocento, oggi è di 370 parti per milione. Parallelamente, si è verificato anche un graduale aumento della temperatura media, che negli ultimi anni ha subìto un’accelerazione: gli anni ’90 sono stati il decennio più caldo a memoria d’uomo, e al ’98 è toccato il record di anno più caldo mai registrato. Gran parte della responsabilità per il progressivo riscaldamento del nostro pianeta va addebitata al modello energetico dominante e al Nord del mondo: l’80% delle emissioni di anidride carbonica, il principale "gas serra", proviene dalla combustione del carbone, del petrolio e del metano, dunque dall’attività delle centrali termoelettriche, dai fumi delle industrie, dagli scarichi delle automobili, mentre oltre metà delle emissioni totali è concentrata nei Paesi industrializzati dove vive appena il 20% della popolazione mondiale. Se le emissioni dei "gas di serra" in atmosfera proseguiranno ai ritmi attuali, dovremo attenderci nei prossimi decenni un riscaldamento globale del pianeta compreso tra 1 e 3,5 gradi centigradi. Le conseguenze di questo aumento della temperatura sarebbero catastrofiche. Esso provocherebbe il parziale scioglimento dei ghiacci e un’espansione termica degli oceani, con un innalzamento prevedibile del livello dei mari di 15-95 centimetri, l’avanzata dei deserti e delle zone aride fino a molte regioni oggi temperate, un’intensificazione e una maggiore estensione di eventi meteorologici estremi come alluvioni, inondazioni, cicloni tropicali, un incremento dell’incidenza di molte malattie caratteristiche dei climi tropicali, l’accelerazione dei ritmi di estinzione delle specie vegetali ed animali. Secondo molti scienziati, i mutamenti climatici sono già una drammatica realtà. Una realtà che colpisce a tutte le latitudini e senza badare alle frontiere o alla dimensione dei Pil, ma che indiscutibilmente determina le conseguenze più pesanti nei Paesi poveri. In Africa, per esempio, 400 milioni di persone si trovano a combattere ogni giorno della loro vita contro il progredire inesorabile dei quasi 700 milioni di ettari di deserti. I dati sulla desertificazione, il cui intreccio con i mutamenti climatici trova sempre più conferme, sono impressionanti: in media essa conquista ogni anno il 3,5% delle terre fertili, e la percentuale sale di moltissimi nelle regioni tropicali. La desertificazione è uno dei fattori principali della povertà e del sottosviluppo e in particolare la causa prima di un fenomeno che spesso assume connotati biblici: quello dei profughi ambientali, intere comunità costrette a lasciare la loro terra divenuta sterile e a sopravvivere in campi di fortuna nelle peggiori condizioni sociali, igieniche e sanitarie immaginabili. Nel 2000, per la prima volta nella storia, il numero dei profughi ambientali ha superato quello delle vittime delle tante guerre che insanguinano il mondo. Kenya: l’erosione del Bacino del fiume Nyando Tanti piccoli canyon dalle forme bizzarre che segnano il paesaggio in maniera decisa. "Antichi e affascinanti documenti sulla storia geologica della Terra", pensa il visitatore che giunge per la prima volta nel bacino del fiume Nyando, a pochi chilometri da Kisumu e dal lago Vittoria. Niente affatto. Questi canyon sono figli della grande alluvione provocata dal Nino nel 1961 e dell’erosione del suolo. Il grande problema è che questi canyon guadagnano metri su metri ogni anno, isolando i villaggi e scaricando tonnellate di detriti nel Lago Vittoria. Un disastro idro-geologico che prosegue ineluttabile il suo corso, con conseguenze gravissime sul piano sociale e ambientale. Tanzania: le ultime nevi del Kilimanjaro Con i suoi 5800 metri è la montagna più alta dell’Africa e la sua immagine è celebre in tutto il mondo. Nella lingua dei "chagga", la tribù che abita la montagna dal lato della Tanzania, Kilema Kyaro significa "ciò che rende impossibile il viaggio". Per i Masai, invece, è la "montagna bianca". La sua leggenda nasce in Europa nel 1849, quando John Rebmann, il primo occidentale a descriverne la cima innevata, viene deriso dalla Royal Geographical Society. A quel tempo, nessuno immaginava che potesse esserci la neve all’equatore, e il malcapitato fu preso per pazzo. Oggi quella neve è in pericolo, minacciata dal riscaldamento del pianeta: secondo l’Università dell’Ohio, dal 1912 a oggi la montagna bianca ha perso oltre l’80% dei suoi ghiacciai e la neve potrebbe scomparire definitivamente dalla cima in soli 15 anni. Una catastrofe, che minaccia che minaccia la vita di intere popolazioni, i Masai e i Chagga. Kenya: l’oasi di Marsabit Il Kenya dipende in modo primario dall'agricoltura, ma solo il 20% del territorio gode di precipitazioni adeguate e di terreni adatti alle coltivazioni. Secondo l’ultimo Rapporto sullo stato di attuazione della Convenzione per la lotta alla desertificazione, "più dell'80% del Paese è esposto a fenomeni di desertificazione. Queste stesse terre assicurano oggi la sopravvivenza al 26-30% della popolazione, al 50% del bestiame, e a una vasta gamma di animali e piante selvatiche che costituiscono il cuore dell'industria turistica del Kenya". Negli anni ’90 il Kenya ha conosciuto quattro gravi carestie, e le alluvioni portate dal Nino nel ‘97 e nel ‘98. Kenya: l’assalto al Monte Kenya E’ la seconda vetta dell’Africa, richiama ogni anno migliaia di turisti, costituisce la principale riserva d’acqua e di vegetazione del Kenya, e riassume in sé tutte le contraddizioni e i pericoli che minacciano i grandi ecosistemi montani nei Paesi in via di sviluppo: la frenetica attività di deforestazione (legale e illegale) e l’estrazione del carbone, i pascoli illegali e il bracconaggio spietato nei confronti di specie rare e protettissime come leoni, leopardi e elefanti. Questo vero e proprio assalto al Monte Kenia non rischia solo di mettere in ginocchio l’omonimo parco nazionale, ma ha effetti drammatici anche sui fiumi che nascono dalle riserve d’acqua della montagna: il fiume Tana, ad esempio, il principale corso d’acqua del Kenya, che negli ultimi 15 anni ha ridotto drasticamente la sua portata. Brasile: la foresta che non c'è più La Mata Atlantica è uno degli ecosistemi più ricchi del pianeta in termini di biodiversità, da cui dipende la qualità della vita di milioni di brasiliani. In origine l'area di questo bioma si estendeva per 1.306.421 kmq, circa il 15% del territorio brasiliano è più di quattro volte la superficie dell'Italia. Dopo cinque secoli di deforestazione di questa giungla non rimane più che il 7% della copertura originaria. Negli ultimi 40 anni l'elevato il ritmo della deforestazione e lo sfruttamento incontrollato del terreno, ha drammaticamente impoverito e reso aride molte zone. Legambiente è attiva in questa zona con un progetto di cooperazione per la ricerca, il recupero e l'educazione ambientale. Ogni tre secondi se ne va un campo di calcio Nelle foreste tropicali vive metà di tutte le specie animali esistenti sulla terra. Questo vero scrigno della biodiversità è anche il "polmone verde" del nostro pianeta, che gioca un ruolo decisivo negli equilibri climatici globali. Da alcuni decenni, le foreste tropicali sono oggetto di uno dei più colossali e pericolosi fenomeni di distruzione dell’ambiente che si ricordi, che rischia di aggravare ulteriormente le conseguenze sul clima delle concentrazioni ormai altissime di anidride carbonica in atmosfera. Su un totale di 2 miliardi di ettari di foreste tropicali, ogni anno ne vanno perduti tra 11 e 15 milioni di ettari, una superficie pari più o meno a quella di un medio Paese europeo. Come dire che ogni tre secondi scompare l’equivalente di un campo di calcio! Nel 1982, in quello che è stato definito il più grave disastro ecologico del secolo scorso, circa 3,24 milioni di ettari di foresta vennero cancellati da un incendio scoppiato a Kalimantan, in Indonesia. Il rischio di simili catastrofi è accentuato dal fatto che la deforestazione riduce la piovosità. La deforestazione accelera il ritmo di erosione del suolo. In Guatemala si perdono ogni anno circa 1200 tonnellate di suolo vegetale per ogni chilometro quadrato di terreno. Questo rende sempre meno produttiva l’agricoltura, mentre in Paesi come l’India o il Bangladesh la sedimentazione della sabbia e del fango trasportati dai fiumi minaccia le dighe e rischia di provocare grandi inondazioni nelle zone basse. Ben oltre il 10% della foresta amazzonica è già stato distrutto dagli incendi dolosi e dai disboscamenti per far posto a grandi allevamenti o a centrali elettriche. Contro questo disastro provocato dall’uomo si battono le popolazioni indigene, che da 50.000 convivono con la foresta rispettandone l’integrità: simbolo della loro lotta è la figura di Chico Mendes, leader del sindacato dei raccoglitori di caucciù, assassinato nel 1988. A causa della deforestazione, metà degli oltre cinque milioni di specie animali attualmente conosciute rischia di scomparire entro i prossimi 50 anni. La foresta della Costa d’Avorio è passata in un secolo da 16 milioni di ettari e a meno di tre milioni di ettari. Nel frattempo si è rotto l’antico equilibrio della caccia di sussistenza: 25 milioni di persone nel solo bacino del Congo basano infatti la loro alimentazione e la loro economia domestica sulla selvaggina, e oggi rischiano di portare all’estinzione molte specie animali. I numeri della povertà Il sottosviluppo nel quale vivono miliardi di persone è una realtà tragica e sempre più consolidata : se nel 1960 il 20% più ricco della popolazione mondiale possedeva un reddito trenta volte superiore a quello del 20% più povero, oggi la proporzione è di 82 a 1, mentre tre quinti dei 4,4 miliardi di abitanti dei Paesi poveri vive in comunità prive di infrastrutture igieniche di base, circa un terzo non dispone di acqua potabile e un terzo dei bambini è sottonutrito e non raggiunge la quinta classe della scuola. In molti Paesi dell’Africa australe (Botswana, Zimbabwe, Zambia, Uganda. Malawi, Rwanda, Burundi) ma anche in diversi Paesi dell’est europeo (Russia, Lituania, Lettonia, Estonia, Ucraina, Bulgaria), la speranza di vita dal 1970-75 al 1995-2000 è diminuita. In Zimbabwe è passata da 51,5 a 44,1 anni, in Zambia da 47,3 a 40,1 anni, in Botswana da 53,2 a 47,4 anni, in Russia da 68,2 a 66,6 anni. In Botswana e Zimbabwe più di un quarto della popolazione tra 15 e 49 anni è sieropositiva o malata di Aids. In Sud Africa, Swaziland, Namibia, Kenya, Zambia, Costa d’Avorio, Malawi, Rwanda, Repubblica Centrafricana e Mozambico, la percentuale è tra il 10’% e il 20%. In Italia la disponibilità pro-capite di acqua potabile supera i 1000 metri cubi; in Angola, Ciad, Nigeria, Mozambico, Etiopia, Uganda, Tanzania è inferiore ai 50 metri cubi. In Cina 90 milioni di bambini non frequentano la scuola elementare. 50 Paesi hanno fatto registrare tra il 1990 e il 1999 una variazione media negativa del reddito pro-capite. I tre uomini più ricchi del mondo — Bill Gates, il proprietario della catena di supermercati Wal-Mart e il sultano del Brunei — hanno un patrimonio pari alla somma dei Pil dei 43 Paesi più poveri. Nei Paesi poveri vi sono 250 milioni di bambini tra i 5 e i 14 anni che lavorano: il 61% vive in Asia, il 32% in Africa, il 7% in America Latina. Tre quarti dei palloni da calcio venduti nel mondo sono fabbricati da alcune migliaia di bambini pakistani: dieci ore al giorno di lavoro, 1.500 lire di paga. In Brasile 2 milioni di bambini si prostituiscono, in Thailandia 800.000. Il debito dei Paesi poveri è di oltre 2.400 miliardi di dollari, pari a oltre il 150% delle loro esportazioni. Il debito era di 1.470 miliardi nel 1980 e di 600 miliardi nel ’70. La possibilità per i Paesi del Sud del mondo di uscire dalla povertà è in buona parte affidata alle scelte di politica energetica del mondo industrializzato. I Paesi ricchi devono ridurre la loro dipendenza dal petrolio e sviluppare le tecnologie per produrre elettricità e calore con l’energia solare, eolica, con le biomasse: solo così si potrà scongiurare la catastrofe climatica e offrire ai Paesi poveri un adeguato e sostenibile accesso all’energia. Senza energia non può esservi sviluppo, e solo le fonti rinnovabili possono soddisfare il bisogno di energia dei Paesi poveri senza mettere in pericolo la vita stessa dell’umanità. La nostra proposta è che l’Italia, uno dei Paesi che contribuiscono di più alle emissioni di gas serra, riduca la sua dipendenza dal petrolio del 10% entro il 2006, del 25% entro il 2010, del 50% entro il 2020. Per centrare questo obiettivo, che oltretutto avrebbe l’effetto di ridurre drasticamente anche l’inquinamento atmosferico, occorre modificare radicalmente il nostro modello energetico. Non più grandi centrali, ma tetti delle case con i pannelli solari, crinali montani con le turbine eoliche, tecnologie per la microgenerazione. Ecco alcuni dei principali interventi da realizzare in questa prospettiva: Diffusione della cogenerazione (impianti che producono elettricità e calore, abbattendo gli sprechi) e della trigenerazione (impianti che producono elettricità, calore, refrigerazione), puntando su centrali di piccole e medie dimensioni distribuite capillarmente sul territorio. Diffusione di impianti alimentati ad energie rinnovabili (turbine eoliche, tetti fotovoltaici, scaldabagno solari, centrali termoelettriche solari, centrali alimentate a biomasse). Incentivi alla rottamazione di elettrodomestici e lampade a bassa efficienza. Incentivi alla ristrutturazione degli edifici orientata a migliorare il rendimento energetico. Potenziamento del trasporto su ferrovia e via mare dei passeggeri e delle merci. Potenziamento dei trasporti pubblici nelle aree urbane. Un Mondo diverso è possibile Al Presidente del Consiglio Al Presidente della Regione Al Presidente della Provincia Al Sindaco Alle autorità in indirizzo: i sottoscritti cittadini chiedono a ciascuno di voi, ognuno per le sue competenze a livello nazionale e locale, di prendere misure di governo concrete che permettano al nostro Paese di rispettare i seguenti impegni sottoscritti a livello internazionale: ridurre del 6.5% le emissioni di gas di serra con politiche di risparmio energetico, incentivazione dell'utilizzo delle fonti rinnovabili, modifica radicale della politica dei trasporti sia urbani che extraurbani. destinare lo 0.7% del Pil alle attività di cooperazione allo sviluppo; rispettare la legge 68/93 che prevede, per i comuni, l'obbligo di destinare lo 0.8% delle prime 3 voci del bilancio comunale ad attività di cooperazione decentrata. fare in modo che si rispetti l'obiettivo proclamato dall'Unione Europea e dai 185 Paesi partecipanti al Vertice Mondiale sull'Alimentazione, svoltosi a Roma nel 1996, di dimezzare, entro il 2015, il numero delle persone che soffrono la fame nel mondo. Nome Cognome Indirizzo Cap/Città/Prov. Desidero essere informato sulle prossime iniziative di Legambiente al mio indirizzo di posta elettronica: I dati verrano visualizzati in una nuova pagina ed inviati a Legambiente Direzione Nazionale, Via Salaria 403, 00199 Roma; e ai sensi della Legge 675/96 sulla privacy saranno utilizzati solo per il perseguimento dei fini statutari.
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