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nazioni unite:l'ambientalismo e' in crisi
- Subject: nazioni unite:l'ambientalismo e' in crisi
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 18 Jun 2001 16:03:18 +0200
da boiler it di sabato 9 giugno 2001 Ma io dico che l’ambientalismo è in crisi… di Pietro Greco A NOVE ANNI da Rio de Janeiro, la politica delle Nazioni Unite per l’ambiente e lo sviluppo è in una posizione complessiva di stallo. Che qui e là diventa un vero e proprio arretramento. L’Agenda 21 e la Convenzione sulla Biodiversità stentano a essere implementate. La Convenzione sul Cambiamento del Clima, persino in quella sua pallida fase operativa che è il Protocollo di Kyoto, è virtualmente bloccata. Gli aiuti allo sviluppo, elemento necessario per lo sviluppo sostenibile, invece di raddoppiare sono diminuiti. Questo stallo che appare clamoroso a chi ha vissuto lo “spirito di Rio” non sta producendo, tutto sommato, quella forte mobilitazione delle coscienze che meriterebbe e che sarebbe avvenuta solo dieci anni fa. L’indifferenza verso i vincoli ecologici Alla guida degli Stati Uniti da circa sei mesi è un presidente, George W. Bush, che fa dell’indifferenza schietta, dichiarata, quasi ostentata alla sostenibilità ambientale il suo tratto politico caratteristico. È una situazione del tutto originale. Nessun leader di un grande paese ha osato tanto, negli ultimi lustri. La situazione è tanto più grave non solo perché gli Stati Uniti sono il paese che più inquina al mondo, ma anche e soprattutto perché sono la più grande potenza militare, economica e politica del pianeta. Ciò gli conferisce naturalmente un ruolo guida. Il rischio quindi è che la politica di Bush diventi un alibi e un modello per molti nel mondo. In molti paesi importanti dell’Occidente i partiti dei Verdi sembrano aver esaurito la loro spinta propulsiva e sono in una crisi politica evidente. Negli Usa il movimento si è presentato diviso alle recenti elezioni presidenziali. E diviso ha perso. Il verde Al Gore non è rientrato da presidente alla Casa Bianca, dopo averla frequentata per otto anni da vicepresidente, anche perché il movimento politico del verde Ralph Nader (già leader del movimento consumatori) gli ha sottratto i voti decisivi. In Germania il partito dei Verdi soffre forse oltre il lecito la sua partecipazione al governo ed esprime questa sua sofferenza con una divisione che minaccia di diventare spaccatura. In Italia, dopo cinque anni di partecipazione al governo, i Verdi hanno subito, domenica 13 maggio, una sconfitta elettorale che somiglia molto a una disfatta. Tanto che i due leader del partito, Grazia Francescato e Alfonso Pecoraro Scanio, ne hanno chiesto addirittura lo scioglimento, in vista di una rifondazione. Lo stallo delle politiche globali di sviluppo sostenibile; l’affermazione inedita di leader politici che ostentano la loro indifferenza ai vincoli ambientali e teorizzano la priorità assoluta del mercato (George W. Bush, ma anche per certi versi Silvio Berlusconi); la divisione e la crisi dei Verdi in molti grandi paesi. Questi sintomi in apparenza così diversi, che si manifestano qui e là nel corpo della politica ambientale, non possono essere frutto del caso. Forse sono i segni evidenti di un malessere profondo. Forse a essere in crisi non è la politica contingente, ma la stessa cultura ambientalista. Questa diagnosi potrebbe essere esagerata, ma l’importanza della posta in gioco impone almeno una verifica. Impone, almeno, di cercare di capire perché la cultura ambientalista, dopo due o tre decenni di crescita e di diffusione di massa in tutto il mondo occidentale, sembra segnare il passo e perdere quella caratura che dieci anni fa, proprio a Rio de Janeiro, aveva chiaramente manifestato la sua capacità egemonica. Quattro (possibili) cause del declino Proviamo a indicare almeno quattro possibili cause della (presunta) crisi culturale dell’ambientalismo. Non per proporre una diagnosi definita e definitiva ma solo e unicamente per avviare un dibattito. 1 .La crisi del pensiero globale. Dieci anni fa la sensibilità ambientale era, soprattutto, una sensibilità globale, anche se fortemente radicata nella realtà locale. «Pensa globalmente, agisci localmente», era il fortunato slogan di quegli anni. C’era una percezione forte e diffusa di vivere su uno stesso pianeta, di avere i medesimi problemi e c’era, persino, la consapevolezza di non avere le medesime responsabilità. Con grande naturalezza tutti i paesi riconoscevano i problemi comuni (ozono, cambiamento del clima, erosione della biodiversità, deforestazione e desertificazione, crescita demografica). E con altrettanta naturalezza i paesi ricchi riconoscevano le proprie preponderanti responsabilità. Oggi l’azione locale sembra prevalere sul pensiero globale. Non solo a livello degli stati e dei governi, ma, in qualche modo, anche nella politica quotidiana dei partiti e dei movimenti verdi. E persino ciò che resta della dimensione planetaria ha smarrito gli antichi caratteri ambientali chiari e inequivocabili per perdersi nella fumosa e confusa protesta dei nemici della globalizzazione. La sensazione è che una parte del movimento ambientale si sia “sciolto” nel variegato “popolo di Seattle”. Perdendo in parte la propria identità e consumando qualche contraddizione: come evitare infatti che il pensiero globale entri in conflitto con la lotta alla globalizzazione? 2. La crisi del pensiero “costruttivo”. Una decina di anni fa il successo dell’ambientalismo si basava su una cultura positiva. Si lavorava “per” qualcosa, si lavorava per costruire lo “sviluppo sostenibile”. Intorno a questa idea, che sfidava in modo fiero e vincente l’ideologia del mercato e la sua assoluta supremazia, si manifestava una straordinaria capacità di alleanza. Il movimento ambientalista aveva amici, alcuni caldi e sinceri, altri freddini e ipocriti. Ma non aveva alcun grande nemico dichiarato (se non alcune aziende e alcuni stati “petroliferi”). Oggi tra gli ambientalisti sembra prevalere una cultura negativa. Si lavora spesso, forse troppo spesso, “contro” qualcosa (contro l’economia globale; contro le biotecnologie e, talvolta, contro la biologia molecolare tout court; contro le grandi opere pubbliche) e meno attivamente “per” qualcosa (debole, per esempio, è la battaglia per incrementare gli aiuti allo sviluppo; debole la battaglia per la diffusione delle energie alternative; debole la battaglie per il trasporto su ferro). 3. La crisi dell’ambientalismo scientifico. L’idea di sviluppo sostenibile, nello scorso decennio, si fondava su temi (dal controllo demografico all’economia ecologica; dai cambiamenti climatici alla erosione della biodiversità) che avevano un carattere oggettivo prevalente. Erano temi che si fondavano su solide conoscenze ed evidenze scientifiche. Ciò ha consentito alla cultura ambientalista di farsi portatrice di una nuova razionalità, solidale e scientificamente fondata. Moltissimi uomini di scienza e intere comunità scientifiche riconobbero la portata sociale delle loro azioni e le responsabilità che ne conseguiva. Addirittura nacquero nuove discipline scientifiche per affrontare i temi portati alla ribalta dal movimento ambientalista. Alcuni premi Nobel sono stati assegnati a uomini di scienza che hanno lavorato sui grandi temi dell’ambiente. Per questo molti scienziati teorizzavano e praticavano una “nuova alleanza” tra scienza e ambiente. Oggi l’idea di sostenibilità si incarna in temi in cui l’elemento oggettivo è, per un motivo o per l’altro, molto meno solido (biotecnologie, agricoltura biologica, elettrosmog, ftalati). Ma che, soprattutto, vengono affrontati con un approccio fortemente emotivo, che spesso si lascia vincere da tentazioni mistiche (new age) o conservatrici (neobucoliche). Tanto che oggi molti vedono nell’ambientalismo o, almeno, in una sua componente rilevante, il portatore di una nuova irrazionalità, fondata sul misconoscimento della scienza e della tecnica. 4. Il brain drain ambientale. C’è, infine, un ultimo fattore generale che concorre a spiegare la crisi dell’ambientalismo, che potremmo definire il “drenaggio dei cervelli”. Il prestito umano, talvolta imponente, che il movimento ambientalista ha concesso alla politica politicante. Il movimento ambientalista, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, ha prodotto ovunque grandi intelligenze politiche. Persone colte, preparate, oneste, portatrici di un progetto ideale. Una parte considerevole di questo gruppo dirigente, negli ultimi anni, è passato dalla politica di movimento alla politica di partito o a funzioni di governo. E questo sia perché i dirigenti ambientalisti hanno colmato il vuoto creato dalla crisi delle fonti tradizionali di formazione del personale politico, i partiti. Sia perché molti tra quei dirigenti, in modo più o meno lucido, hanno pensato che quella di governo potesse essere un’attività più incisiva dell’attività di movimento. Due esempi clamorosi Il prestito si è rivelato certamente vantaggioso per la politica politicante e per i governi. Quasi sempre e quasi ovunque i dirigenti ambientalisti si sono rivelati ottimi politici e ottimi governanti. Tuttavia il prestito non sempre si è rivelato vantaggioso per il movimento ambientalista. Sia perché lo ha improvvisamente sguarnito dei dirigenti migliori, senza dargli il tempo di formare una nuova classe dirigente all’altezza della precedente. Sia perché si è creato un problema di coerenza. Non sempre i dirigenti prestati ai partiti e ai governi hanno potuto realizzare i loro progetti ambientali. Per citare solo due esempi clamorosi: Al Gore, in otto anni di vicepresidenza degli Stati Uniti, non è riuscito neppure ad avviare quel “Piano Marshall” per l’ambiente che proponeva prima; Gro Harlem Brundtland, dopo aver teorizzato lo sviluppo sostenibile, da primo ministro di Norvegia ha riaperto la caccia alle balene, una pratica considerata l’emblema dello sviluppo non sostenibile. Il problema della coerenza, che sempre si pone quando un movimento radicale entra in governi di coalizione, ha contribuito non poco a dividere il movimento ambientalista. Finendo per favorire posizioni fondamentaliste. Non sappiamo se davvero siano queste la quattro cause principali della (presunta) crisi della cultura ambientalista. Sappiamo, però, che i problemi ambientali globali e locali ci sono. Che l'affermazione di certe forze politiche e il trionfo dell'ideologia del mercato allontana la loro soluzione. E che c’è bisogno più che mai di un movimento ambientalista forte e lucido, che ripensa le cause della sua crisi, se vogliamo che il concetto di sviluppo sostenibile sopravviva a George W. Bush e ai suoi epigoni nostrani.
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